Pieter Claesz, Vanitas, 1628.

Thomas Mann, «La morte a Venezia»: la fine indecente del grande Gustav von Aschenbach

Sì: anche se la si consideri nei suoi riflessi personali, l’arte è una vita sublimata: più profonde sono le gioie che largisce, ma consuma anche più presto; nell’aspetto di coloro che la servono imprime i segni di avventure dello spirito e della fantasia, e anche in un’esistenza da cenobita finisce con l’ingenerare traviamenti, ipersensibilità, stanchezze e sovreccitazioni nervose, né più né meno di quelle prodotte da una vita dedita agli eccessi della passione e del godimento.

Thomas Mann, «La morte a Venezia»

Thomas Mann

Pubblicato nel 1912, La morte a Venezia è senza dubbio il più celebre dei racconti lunghi – o romanzi brevi, che dir si voglia – di Thomas Mann. Protagonista è il grande scrittore Gustav von Achenbach, nobile per meriti artistici, cantore del borghese «eroismo della debolezza», oramai al crepuscolo della propria gloriosa esistenza. Esistenza fondata, insieme con l’opera, su una salda morale del rigore, espressa bene dal motto del protagonista, quel «perseverare» che gli ha permesso di raggiungere la fama, ovvero l’obiettivo verso il quale, sin dalla giovinezza, tendeva con tutto il suo essere, dedicando solo ed esclusivamente al lavoro, svolto con una cura ed un impegno maniacali, quasi – verrebbe da dire dannunzianamente [1] – meccanici (all’opposto dunque della follia creatrice di Adrian Leverkühn, il compositore protagonista del Doctor Faustus [2]), le ore più feconde e più degne della sua vita. Così, all’apice del successo e della notorietà, oramai prossimo ad una veneranda e saggia vecchiaia, Aschenbach vive a Monaco «una rispettabile esistenza borghese». Ma nella vita di un artista, per quanto rigorosa e irreprensibile, non può essere tutto perfettamente in ordine, decoroso e polito, sobrio e inappuntabile, perché l’arte resta pur sempre una «vita sublimata», e come tale «più profonde sono le gioie che largisce, ma consuma anche più presto; nell’aspetto di coloro che la servono imprime i segni di avventure dello spirito e della fantasia, e anche in un’esistenza da cenobita finisce con l’ingenerare traviamenti, ipersensibilità, stanchezze e sovreccitazioni nervose, né più né meno di quelle prodotte da una vita dedita agli eccessi della passione e del godimento» [3]. Righe che risuonano sinistre come una maledizione, nella quale precipiterà anche il rigoroso Aschenbach, e proprio negli ultimi giorni della sua vita fin lì impeccabile.

Tutto ha inizio un pomeriggio di maggio. Dopo una lunga passeggiata, che lo ha portato fuori città, fino al cimitero del nord di Monaco, Aschenbach attende il tram che lo riconduca nel centro cittadino. Durante l’attesa del mezzo si imbatte in uno straniero dall’aspetto sgradevole (eccezion fatta per il magnifico e classicheggiante Tadzio tutti gli individui con i quali il protagonista entra in contatto, più che volti hanno maschere grottesche, carnevalesche, ensoriane, con l’immagine dei denti, inquietante simbolo funebre, baroccheggiante nel suo evocare il teschio e il concetto di vanitas vanitatum ad esso legato, che ricorre con una frequenza battente, ossessionante nel racconto). La vista di quest’uomo suscita in Aschenbach un fortissimo, incontenibile desiderio di viaggiare, inedito e violento, allucinante. Un desiderio che stride clamorosamente con il suo stile di vita stabile e con la sua missione – morale – produttiva, ma che si impone come una necessità impellente, improcrastinabile. Così Aschenbach parte, lascia Monaco, la sua esistenza agiata e familiare condotta con rigore kantiano, e fa rotta verso Sud, stabilendosi a Pola, sull’Adriatico, accorgendosi però presto che non è questa la meta adatta a soddisfare la sua fame d’avventura, bensì Venezia. Sul piroscafo diretto verso la magnifica città lagunare, Aschenbach si imbatte in un altro individuo assai singolare, un «vecchio ganimede», come lo definisce il protagonista, un falso giovane insomma:

«Uno, in particolare, vestito d’un abito estivo color giallino all’ultima moda, con una cravatta rossa e un panama dal risvolto baldanzoso, si segnalava tra tutti per la voce berciante e per la lepidezza di cui dava prova. Appena l’ebbe osservato un po’ più attentamente, Achenbach constatò, con una sorta di raccapriccio, che si trattava di un finto giovinotto. Era vecchio, senz’ombra di dubbio. Grosse rughe circondavano i suoi occhi e la bocca, lo smorto incarnato delle guance era belletto, una parrucca i capelli castani sotto il copricapo di paglia adorno di un nastro variopinto; il collo appariva flaccido e segnato dai tendini, i baffetti volti all’insù e la mosca sul mento erano tinti; la fitta rastrelliera di denti gialli, ch’egli scopriva ridendo, era una meschina mistificazione, e le due mani, adorne di grandi anelli agli indici, erano mani senili. Inorridito, Aschenbach lo guardava, considerava quella intrusione eteroclita. Non sapevano, non si accorgevano i suoi amici che colui era un vecchio, che indossava indebitamente quelle garrule vesti da ganimede, che indebitamente si atteggiava a uno della loro età? Con tutta naturalezza e dimestichezza (così sembrava) essi lo ammettevano in mezzo a loro, lo trattavano da pari a pari, ricambiavano senza disgusto le sue gioviali manate nei fianchi. Com’era possibile? Aschenbach si coprì la fronte con la mano e chiuse gli occhi, infiammati dall’insufficiente riposo. Era come se qualcosa fosse fuori di posto, come se il mondo cominciasse a entrare in un alone di sogno, a deformarsi in maniera bizzarra; e forse gli sarebbe bastato oscurare un attimo la vista e poi guardare di nuovo intorno, perché tutto ritornasse come prima» (73-74).

Lo Spinario conservato nei Musei Capitolini

Questo «vecchio ganimede» si impone come emblema dell’umana degenerazione morale, indecente e scandaloso nel suo ridicolo tentativo di ringiovanirsi. Senza alcuna dignità si trucca, indossa la parrucca, si tinge i baffi, porta la dentiera, infiltrato in un gruppo di giovani, di veri giovani. L’esatto contrario di quella morale del rigore, del decoro e del contegno sulla quale Aschenbach ha fondato la propria esistenza e la propria opera. Al «vecchio ganimede» si contrappone il bellissimo Tadzio, adolescente polacco incontrato dal protagonista in albergo. Se il falso giovane è l’emblema della degenerazione, Tadzio incarna l’ideale, è il Fedro a cui Socrate parla di bellezza e amore:

«Il volto pallido e gentilmente assorto, incorniciato dai capelli biondo miele, la linea schietta del naso, la vezzosa bocca, l’espressione soave e divina di gravità, ricordavano le sculture greche dell’epoca aurea; e alla pura compiutezza dell’aspetto si univa una grazia così rara e insigne che lo scrittore si confessò di non aver mai veduto, né in natura né in alcun prodotto delle arti figurative, un simile capolavoro. […] Neppure un colpo di forbici aveva toccato la sua bella chioma, come nella celebre statua dello spinario, essa cadeva ricciuta sulla fronte, sopra le orecchie e giù fino agli omeri. L’abito inglese alla marinara, dalle maniche a sbuffo che, restringendosi verso il basso, cingevano gli esili polsi delle mani ancora infantili ma ben fatte, conferiva alla leggiadra figuretta, con le sue cordelline, i fiocchi e i fregi, un che di lussuoso, di opulento. Seduto di tre quarti rispetto ad Aschenbach, egli teneva l’uno sull’altro i piedi calzati di scarpe di vernice nera e con un gomito si appoggiava al bracciolo della poltrona impagliata, sostenendo la guancia col pugno chiuso, in un atteggiamento di noncurante grazia, affatto alieno dalla compostezza quasi mortificata delle sue tre sorelle. Che fosse sofferente? La pelle del viso, in verità, risaltava con biancore eburneo sotto l’oro scuro del nimbo di ricci» (84-85).

Nel giro di pochi giorni, Tadzio finisce per assorbire completamente Aschenbach, il giovane polacco diviene di fatto l’unica ragione del soggiorno del grande scrittore a Venezia, una Venezia schiacciata dallo scirocco, città malsana, lugubre, fetida, dalla quale esalano miasmi insopportabili, attraversata da canali in cui l’acqua stagna pullula di sporcizia, teatro inoltre della «sordidezza truffaldina» dei suoi abitanti, straccioni e accattoni, opposta, diametralmente opposta alla sontuosa, opulenta, festosa, elitaria Venezia rappresentata appena dodici anni prima da D’Annunzio nel suo primo romanzo novecentesco, Il fuoco [4]. Come se l’atavica sgradevolezza dell’umida, appiccicosa, venefica città lagunare non bastasse, durante la quarta settimana di villeggiatura di Aschenbach, «un odore dolciastro di medicina, un odore che evoca miseria, piaghe, scarsa pulizia», più forte nelle «calli anguste», si diffonde per Venezia e colpisce le delicate nari del cantore del borghese «eroismo della debolezza». Le autorità nascondono la serpeggiante epidemia di colera, proprio come Aschenbach nasconde il suo amore ogni giorno più intenso e degradante per Tadzio. Degradante, sì: la passione dello scrittore schiaccia ragione, dignità, decoro, rigore, lo porta a seguire il giovane oggetto del suo amore ovunque, in ridicoli pedinamenti con il cuore in gola per il malsano labirinto veneziano, attraversato dall’odore inquietante di acido fenico: «l’ottenebrato non sapeva più, non voleva più altro che inseguire all’infinito l’oggetto del suo ardore». Aschenbach precipita nella ridicolaggine e il punto più basso della sua degenerazione è senza dubbio rappresentato dal momento in cui, proprio come il «vecchio ganimede», si lascia ringiovanire, dalle sapienti mani del parrucchiere dell’albergo:

«Avvolto in un asciugatoio, riverso sulla sedia sotto le mani solerti del figaro ciarliero, osservava angosciato la propria immagine riflessa dallo specchio.
“Grigio” disse con una smorfia.
“Un tantino” confermò l’altro. “E perché? Per un po’ di negligenza, per un certo disinteresse all’esteriorità, comprensibile in un personaggio importante, ma con tutto ciò non pienamente lodevole; anzi, proprio le persone come lei non dovrebbero essere schiave di preconcetti in fatto di naturalezza o di artifizio. Pensi un po’: se certe persone che rigidamente si oppongono ad ogni arte cosmetica, fossero conseguenti anche riguardo alle cure dentarie, quale scandalo desterebbero! D’altronde, l’età che abbiamo è quella che cuore e spirito sentono di avere; e la canizie, in determinate circostanze, tradisce la realtà ben peggio di quanto farebbe la vituperata tintura. Nel suo caso, signor mio, si ha diritto al proprio colore naturale: se permette, glielo restituirò immediatamente.”
“E come?” domandò Aschenbach.
Allora il linguacciuto individuo lavò i capelli del cliente con due acque diverse, una chiara e l’altra scura, e ridivennero neri come al tempo della gioventù. Poi con l’apposito ferro li aggiustò in morbide onde e, indietreggiando, studiò l’acconciatura.
“Adesso” commentò “bisognerebbe soltanto rinfrescare un pochino la pelle del viso.” E come chi non è contento se non arriva alla fine, con slancio sempre più infervorato iniziò una serie di operazioni. Aschenabach, sdraiato comodamente, incapace di resistenza, eccitato piuttosto nell’attesa di ciò che si preparava, vedeva nel cristallo farsi più netto e più uguale l’arco dei suoi sopraccigli, il taglio degli occhi allungarsi, la loro lucentezza aumentare grazie a una lieve sottolineatura delle palpebre; più giù, al posto dell’antica tinta coriacea e terrea, vedeva delicatamente accendersi sulla pelle un gentile incarnato e le labbra pur mò esangui rilevarsi di un color lampone, e sotto rigeneranti creme sparire grinze e rughe dalle guance, dalla bocca, dagli occhi: finché, col cuore che gli martellava in petto, si trovò innanzi un magnifico giovane» (140-141).

Dopo aver passato una vita intera ad omaggiare l’ideale apollineo, fondando su di esso esistenza ed arte, incontrata di questo ideale l’incarnazione terrena, il giovane e bellissimo Tadzio, Aschenbach precipita, sprofonda nel suo opposto, il dionisiaco, terminando i suoi giorni in modo indecente, grottescamente imbellettato, inseguendo, pedinando l’oggetto della propria morbosa passione, mentre l’atmosfera di Venezia peggiora giorno dopo giorno: il cielo coperto e grave, opprimente, l’aria umida, appiccicosa, quasi solida nella sua malsana densità, olezzante di putridi miasmi, afosa a tal punto da serrare lo stomaco. L’epidemia di colera si aggrava, aumentano i decessi, celati dalle autorità per interesse, Aschenbach lo sa, ne è perfettamente consapevole, eppure non lascia la città ammalata, troppo forte, avvinghiante è il suo amore per Tadzio, non può abbandonarlo, anche a costo di mettere a rischio la propria illustre vita. Come Leverkühn sfida il pericolo possedendo Esmeralda, infrangendo il monito della puttana sifilitica e consegnandosi così al diavolo, Aschenbach sfida il pericolo restando nella città infestata dal morbo, morendovi, dopo un ultimo sorriso lanciatogli da Tadzio, meraviglioso come un giovane iddio sorto dalle acque. Ora, la sfida di Aschenbach è certamente dovuta alla sua passione distruttiva, ma non solo, essa denota anche il completo distacco del protagonista dalla realtà, immerso e infine intrappolato in un sogno, il sogno dell’arte, che nasconde sempre la maledizione dell’eccesso, del dionisiaco, dietro la forma apollinea, maledizione devastante e mortale per chi, come Aschenbach, dell’arte fa la sua unica dimensione esistenziale, escludendo da sé il mondo intero.

La morte a Venezia segna la fine di un’epoca letteraria, quell’epoca di classicheggiante ed estetizzante sublimazione borghese, che, all’inizio del XX secolo, si contrappone alle numerose e sovversive spinte artistiche alternative, tra le quali spicca l’Espressionismo [5], e che nel nostro paese trova in D’Annunzio il suo massimo cantore. Mann ne mette in scena l’epilogo drammatico e indecoroso, che non manca di caricarsi di inquietanti presagi, penso all’imminente conflitto bellico mondiale, e anche all’interno della sua produzione rappresenta una sorta di spartiacque: alla Morte a Venezia seguirà infatti La montagna incantata, romanzo concepito subito dopo la pubblicazione del lungo racconto ed opus magnum dello scrittore tedesco, in cui la crisi dell’uomo moderno, tra i principali temi della letteratura della prima metà del Novecento, scevra degli impulsi idealizzanti di Aschenbach, di cui il narratore assorbe completamente il punto di vista, erompe in tutta la sua crudezza, in tutta la sua spietatezza, fino a sfociare nella Grande Stupidità e nell’altrettanto grande conflitto bellico, il primo del breve secolo [6].

NOTE

[1] Per un approfondimento sul carattere produttivo dell’esperienza letteraria dannunziana rimando all’articolo Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti ovvero: l’astuzia mercantile dei calvi con i baffi a manubrio.

[2] Per un approfondimento sul romanzo di Mann dedicato al mito di Faust rimando all’articolo L’«arco vertiginoso» di Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus di Thomas Mann.

[3] Thomas Mann, La morte a Venezia, traduzione di Emilio Castellani, in Id., La morte a Venezia, Tristano, Tonio Kröger, Mondadori, Milano 1970, pp. 70-71. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[4] Per un approfondimento sul romanzo di D’Annunzio rimando all’articolo Stelio Effrena, il Verbo della pittura, «poesia muta».

[5] Per un approfondimento sulle spinte letterarie alternative nel nostro paese all’inizio del XX secolo rimando all’articolo La parola luminosa. Per una storia dell’alternativa letteraria italiana del primo Novecento.

[6] Per un approfondimento sull’opus magnum di Mann rimando all’articolo L’evoluzione di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann.

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