Noi ti garantiamo l’efficacia vitale di ciò che compirai col nostro aiuto. Tu sarai guida, tu segnerai il cammino dell’avvenire, nel nome tuo giureranno i ragazzi che, grazie alla tua follia, non avranno più bisogno di essere folli. Della tua follia si nutriranno in piena salute, e in loro tu diventerai sano.
Il diavolo ad Adrian Leverkühn
Introduzione

Pubblicato nel 1947, il romanzo Doctor Faustus di Thomas Mann è l’ultima grande opera letteraria dedicata al mito di Faust. Se, di questa fortunata e illustre tradizione, il monumentale capolavoro di Goethe costituisce il vertice massimo, irraggiungibile, ineguagliabile [1], e Il maestro e Margherita di Bulgakov l’esito più sorprendente, nella sua incontenibile, travolgente energia tragicomica [2], il Doctor Faustus di Mann rappresenta davvero, artisticamente oltreché cronologicamente, l’approdo ultimo, conclusivo, vero e proprio «libro della fine», come lo definisce Hans Mayer. A renderlo tale è il momento storico nel quale viene concepito, scritto e ambientato, il momento più oscuro della storia della patria di Faust e del suo mito, quello segnato dal regime nazista, nella continua – strutturale di fatto – oscillazione di due piani temporali: quello in cui il narratore, l’umanista settemrbiniano Serenus Zeitblom, vive, la rovinosa e drammatica fase discendente della vertiginosa parabola della Germania nazista, che si avvia a schiantarsi e frantumarsi, e quello di cui racconta, nella ricostruzione della biografia del geniale compositore Adrian Leverkühn.

Lo stavroginiano protagonista nasce dall’impasto di due personalità fondamentali della cultura occidentale a cavallo tra il XIX e il XX secolo: Friedrich Nietzsche e Arnold Schönberg. Interi episodi della vita di Leverkühn sono tratti dalla biografia del celebre filosofo di Röcken, e la sua arte musicale, diciamo pure la sua poetica, è modellata su quella dell’ideatore della musica dodecafonica, come evidenzia lo stesso Mann in una nota posta alla fine del romanzo, inserita per espressa volontà del compositore austriaco. Si tratta di due scelte eccezionalmente significative, perché se Nietzsche è colui che rivoluziona la storia della filosofia, liberandola per sempre dalle catene della sistematicità e della moralità – pur senza raggiungere, è bene puntualizzarlo sempre, l’intensità scandalosa e martellante del più irriverente pensatore moderno, e non solo, Max Stirner [3] -, Schönberg, come sottolineato da Thomas Harrison nel saggio 1910. L’emancipazione della dissonanza (citazione schönberghiana) [4], si impone come uno dei maggiori protagonisti dello sconvolgimento artistico, a trazione espressionista, che caratterizza i primi anni del Novecento. Insomma, Adrian Leverkühn è portatore del nuovo, dell’inedito, dell’insondato, del rimosso. E andiamo a ripercorrere le tappe fondamentali di quell’«arco vertiginoso» che è la sua vita.
1. Dalla teologia alla musica
La freddezza e l’indifferenza, l’una indissolubilmente legata all’altra, sono i due tratti caratteriali distintivi di Adrian Leverkühn, sottolineati subito dal diligente Serenus Zeitblom, suo amico d’infanzia, in apertura della biografia:
«La sua indifferenza era tale che raramente s’accorgeva di ciò che accadeva intorno a lui, della società nella quale si trovava, e siccome molto di rado chiamava per nome la persona con la quale stava discorrendo, mi vien fatto di supporre che il nome non lo sapesse nemmeno, mentre l’altro aveva certo ogni diritto di presumere il contrario. Vorrei paragonare la sua solitudine a un abisso nel quale sprofondavano, in silenzio e senza lasciar traccia, i sentimenti che gli altri nutrivano per lui. Intorno a lui era il gelo» [5].
Già da queste poche righe iniziali emerge tutta la singolarità della personalità del protagonista, uomo del distacco, della distanza, asettico quasi nel modo di rapportarsi ai propri simili, anaffettivo, gelido, ghiacciato come le acque dell’infernale lago di Cocito di dantesca memoria. Della propria freddezza e della propria indifferenza Leverkühn, che si distingue per la capacità di sondare, indagare a fondo se stesso con sguardo critico, è perfettamente consapevole, come emerge da un importante documento, una lettera indirizzata al suo maestro musicale, Wendell Kretzschmar, che lo esorta a lasciare la teologia, abbracciata dopo gli studi liceali e vedremo presto perché, per dedicarsi completamente, a tempo pieno alla musica:
«Temo, caro amico e maestro […] di essere cattivo perché non ho calore. Dice, è vero, che sono maledetti e respinti coloro che non sono né caldi né freddi, ma soltanto tiepidi. Non direi di essere tiepido; sono decisamente freddo» (148).
Ora, leggendo queste parole, il pensiero non può che andare al capitolo maledetto dei Demòni di Dostoevskij [6], quello in cui si descrive l’incontro tra il protagonista, l’inquietante e al tempo stesso affascinante, come un angelo caduto, Nikolaj Stavrogin [7], e il monaco Tichon. Ad un certo momento del vibrante colloquio, Stavrogin ordina a Tichon di recitare a memoria il passo dell’Apocalisse citato da Leverkühn nella lettera a Kretzschmar: «E all’Angelo della chiesa di Laodicea scrivi: Ecco quello che dice l’Amen, il testimone fedele e verace, il principio con cui Dio operò la creazione: conosco le tue opere; tu non sei né freddo, né caldo; oh, fossi almeno o freddo o caldo! Ma perché sei tiepido e né freddo né caldo, Io sto per vomitarti dalla Mia bocca. Tu vai dicendo: Io sono ricco, dovizioso, non mi manca niente; e non sai d’esser meschino, miserabile, povero, cieco, nudo». Poco più avanti Tichon aggiunge: «Vi ha colpito il fatto che l’Agnello ami più l’uomo freddo di quello soltanto tiepido […]. Voi non avete voluto essere soltanto tiepido [8]. Un’osservazione che si adatta bene anche a Leverkühn e al suo caso umano; del resto, trovo che ci siano numerosi aspetti in comune tra lui e Stavrogin: entrambi gelidi, indifferenti, con un’atavica predisposizione al nichilismo, entrambi demiurghi funesti, per se stessi e per gli altri.
Proseguendo nella lettura dell’epistola di Leverkühn a Kretzschmar, il protagonista confessa al maestro di aver scelto la teologia proprio per punire se stesso e la propria freddezza:
«Ecco, io mi ci sono assoggettato non tanto […] perché vi scorgevo la scienza più alta, ma perché volevo umiliarmi, piegarmi, disciplinarmi, punire l’arroganza della mia freddezza: per contrizione insomma. Desideravo l’abito ruvido sopra il cilicio. Feci ciò che altri fecero quando bussavano alle porte di un monastero dalla regola severa» (149).
La freddezza priva Leverkühn di quella «robusta ingenuità» che egli individua quale principale qualità dell’artista, sostituita da «un’intelligenza rapida a saturarsi» e dalla disposizione alla noia, alla stanchezza e alla nausea, accompagnata dalla cronica emicrania, fastidiosa eredità paterna. A ciò si aggiunga la condanna al riso, anche questa, come la freddezza, tentata di reprimere con gli studi teologici, ma senza successo:
«E io reprobo devo ridere specialmente ai grugniti basilari del bombardone – rum rum rum – e ho forse le lacrime agli occhi, ma lo stimolo del riso è più forte – sempre forse sono stato condannato a ridere nei momenti più misteriosamente impressionanti e, spinto da questo esagerato senso del comico, mi sono rifugiato nella teologia sperando di reprimere il solletico… ma ho finito col trovarvi un mare di spaventosa comicità. Perché quasi tutte le cose mie si devono affacciare con la loro parodia? Perché mi deve sembrare che quasi tutti, anzi tutti addirittura i mezzi e le convenienze dell’arte possano oggidì servire soltanto alla parodia?» (152-153).
Freddezza e innata propensione al comico sono dunque le due principali motivazioni che impediscono al giovane Leverkühn di abbandonarsi con slancio ed entusiasmo alla musica, che lo portano a tergiversare, ma il maestro le bolla come semplici «smancerie», concludendo: «Pregevole è la vergine, ma deve diventare madre, altrimenti è una distesa di sterile terreno» (154). Il protagonista cede, e all’inizio del semestre invernale del 1905 lascia Halle e si trasferisce a Lipsia, dove esercita Wendell Kretzschmar, abbandonando la teologia e abbracciando la musica.
2. Esmeralda ovvero si, mi, la, do, la bemolle
Al suo arrivo a Lipsia Leverkühn è vittima di un buffo incidente che avrà conseguenze enormi, inimmaginabili. Un facchino lo conduce, contro la sua volontà, in un postribolo, dal quale fugge inorridito dopo il contatto con una prostituta:
«Nascondendo la mia agitazione mi vedo davanti un pianoforte aperto, un amico, mi avvicino e senza sedermi tocco due o tre accordi, rammento benissimo quali, perché la mia mente si occupava proprio di quel fenomeno sonoro: era la modulazione dal si maggiore al do maggiore, lo stacco rischiarante d’un semitono come nella preghiera dell’eremita nel finale del Franco cacciatore, all’entrata di timpano, trombe e oboi sull’accordo in do di quarta e sesta. Lo so per averci pensato dopo, in quel momento non lo sapevo, e mi limitai a toccare gli accordi. Allora mi viene vicino una brunetta in giubbetto spagnolo, con la bocca larga, il naso schiacciato e gli occhi a mandorla, un’esmeralda che col braccio mi accarezza la guancia. Io mi volto, respingo lo sgabello col ginocchio e ripercorrendo il tappeto attraverso l’inferno di voluttà, davanti alla ruffiana, raggiungo l’anticamera e scendo nella strada senza neanche toccare il passamano d’ottone» (162).
Leverkühn narra l’incidente a Zeitblom, nella sua prima lettera scritta da Lipsia, con ironia; è l’amico-biografo, tramite un’accurata analisi testuale, a rivelarne l’oscuro lato drammatico:
«Che fino allora egli non avesse “toccato” una donna era ed è una mia incrollabile certezza. Ora la donna aveva toccato lui – ed egli era fuggito. Anche in questa fuga non vi è ombra di comicità: posso assicurarne il lettore, qualora fosse tentato di cercarvi qualche cosa di simile. Comico era, se mai, quel fuggire, nel senso amaramente tragico della sua vanità. Per me Adrian non era sfuggito, e solo transitoriamente, questo è certo, si considerò tale. La superbia dello spirito aveva subito il trauma dell’incontro con l’istinto privo di anima. Adrian doveva ritornare nel luogo dove l’imbroglione l’aveva condotto» (169-170).
Doveva: e infatti Leverkühn torna nel postribolo, ma di colei che ha ribattezzato Esmeralda, la donna «il cui contatto gli bruciava la guancia», non c’è più traccia. Non rinuncia, si lancia alla sua ricerca e la scova a Presburgo, l’odierna Bratislava, allora parte dell’impero austro-ungarico. È così che in Leverkühn «amore e veleno diventarono una volta per sempre una tremenda unità di esperienza, diventarono così quell’unità mitologica e filosofica che si concreta nel dardo» (177). Esmeralda avverte Leverkühn, per uno scrupolo di coscienza ispirato dall’impegno dell’uomo, in viaggio per lei, lo informa della malattia – la sifilide -, ma lui respinge l’avvertimento, sfida il caso, rischia, mettendo in gioco se stesso, la propria salute:
«Dalle labbra di Adrian ella seppe che quel viaggio lo aveva fatto apposta per lei, e gliene fu grata, invitandolo a guardarsi dal suo corpo. […] La sventurata prevenne l’uomo che la voleva, compiendo un atto di libera elevazione spirituale al disopra della sua pietosa esistenza fisica, un atto di distacco umano, un atto di commozione, di […] amore» (177).
E, come scrive Dante nel celebre canto V dell’Inferno, «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» [9]: per questo motivo Leverkühn rischia, sfida il caso – o Dio, che dir si voglia -, infrangendo il monito, respingendo l’avvertimento. Egli sa benissimo a cosa va incontro, ma non arretra, come Socrate, come Cristo, un atteggiamento che sottende un certo anelito all’autodistruzione. L’esperienza sessuale segna per sempre la vita di Leverkühn e persino le sue creazioni, nelle quali riecheggia, nella cifra sonora si, mi, la, do, la bemolle, l’esotico e fascinoso nome di Esmeralda:
«Non ho mai potuto pensare senza un brivido religioso a quell’amplesso nel quale l’uno sacrificò la propria salute e l’altra la trovò. La misera dev’essersi sentita purificata, giustificata, sollevata e veramente felice per il fatto che l’uomo venuto di lontano rifiutò, a qualunque rischio, di rinunciare a lei; e pare che abbia chiamato a raccolta tutte le dolcezze della sua femminilità per compensarle di ciò ch’egli osava per lei. Era provveduto a che egli non la dimenticasse; ma anche per attaccamento, lui, pur non avendola più riveduta, non la dimenticò. E il suo nome, quel nome che le aveva dato fin dall’inizio, guizza come un misterioso geroglifico, non avvertito da alcuno se non da me, a traverso le sue opere» (177-178).
L’istinto sessuale vince anche Leverkühn, l’uomo del noli me tangere, dell’avversione, della ripugnanza, del ritegno, della distanza, e per soddisfarlo sacrifica la propria salute, termine di cui è necessario allargare, michelstaedterianamente [10], l’orizzonte semantico per comprendere appieno la portata distruttiva del sacrificio, che non riguarda solo il corpo, ma anche, e soprattutto, lo spirito, oramai in balia delle forze diaboliche.
3. Dialogo di Adrian Leverkühn e del diavolo

È sul suolo italiano, nel paese di Palestrina, luogo d’origine del celebre compositore rinascimentale Giovanni Pierluigi, che avviene il fatidico e atteso incontro tra Leverkühn e il diavolo. Un diavolo multiforme, dal quale emana un freddo insopportabile persino per il protagonista, che deve imbacuccarsi per bene per poter sostenere il colloquio e non lasciarsi irretire dal gelo, e che si caratterizza per una malignità sconosciuta all’ironico e sconfitto Mefistofele goethiano e al misericordioso Woland bulgakoviano.
«Dite continuamente cose che sono in me e provengono da me, non già da voi» (261), obietta subito Leverkühn, come suo solito diffidente e distaccato. Un’obiezione molto dostoevakiana: nel già citato incontro tra Stavrogin e Tichon, il primo confessa al secondo di avere certe allucinazioni, di essere in contatto con un «essere maligno, beffardo e ragionevole», multiforme come il diavolo manniano peraltro, concludendo infine: «Sono tutte sciocchezze, terribili sciocchezze. Sono io stesso sotto varie forme e niente di più» [11]; sulla stessa scia un altro celebre nichilista creato da Dostoevskij, l’ultimo, Ivan Karamazov [12], che, faccia a faccia con il proprio diavolo, esclama: «Ci sono momenti in cui non ti vedo e non ti sento, ma intuisco sempre quello che vai cianciando, perché sono io, io stesso che parlo, e non tu!» [13].
Come preannunciato al termine del capitolo precedente, è la malattia il centro di tutto, quella malattia venerea contratta da Leverkühn attraverso il rapporto sessuale con la sua sventurata Esmeralda. Ora, la malattia, insieme con il suo opposto, la salute – i due termini potrebbero essere considerati come un unico termine, in quanto senza l’uno non può esistere l’altro -, si impone come uno dei temi dominanti della letteratura e della filosofia primonovecentesche. Su questo tema Mann costruisce la sua opera più grande, il suo maggior capolavoro, La montagna incantata [14], gettando invece uno sguardo in Italia, spiccano le riflessioni di Michelstaedter nel Dialogo della salute e un romanzo, come La montagna incantata, fondato sul tema della malattia, La coscienza di Zeno di Svevo, con il clamoroso epilogo che costituisce l’esito più estremo all’interno del panorama letterario della prima metà del Novecento riguardo questa tematica [15].
Tornando al Doctor Faustus, della malattia il diavolo, molto sottilmente, evidenzia gli effetti critici e anti-borghesi:
«La malattia, tanto più è seria, scandalosa, discreta e segreta, stabilisce una certa antitesi critica al mondo, alla vita dozzinale, ispira sentimenti di ribellione e d’ironia contro l’ordine borghese e spinge il suo uomo [da sottolineare l’aggettivo possessivo, pesante come un colpo: l’uomo malato appartiene alla malattia] a cercar protezione nello spirito libero, nei libri, nel pensiero» (269).
Attraverso il ricorso alla malattia il diavolo manniano coglie l’essenza dello sconvolgimento artistico, letterario, filosofico, musicale a trazione espressionista che caratterizza i primi anni del XX secolo, e di cui Schönberg – non solo come compositore, ma anche come pittore, soprattutto attraverso l’inquietante Sguardo rosso, adottato da Harrison come immagine rappresentativa dell’intera epoca -, modello musicale per Leverkühn, si impone come uno dei più significativi esponenti. La malattia è garanzia di una creazione artistica alternativa, nuova, inaudita, e anche questo il diavolo dona al protagonista, oltre al tempo, oltre alla clessidra, insieme ad essa.
Il diavolo spiega a Leverkühn come la sua apparizione non sia frutto della malattia, ma possibile grazie alla malattia, configurandosi come una sorta di medium, e pubblicizza la propria ispirazione, ben più immediata ed entusiasmante dell’ispirazione elargita dall’alto:
«Un’ispirazione davvero beatificante, credente senza dubbi e tale da rapire, – un’ispirazione nella quale non c’è scelta, non c’è modo di migliorare e ritoccare, ma tutto è concepito come una vasta imposizione, mentre il passo si arresta e sublimi brividi scuotono il soggetto da capo a piedi e un fiume di lacrime di felicità erompe dai suoi occhi, – non è possibile con Dio, il quale lascia troppo da fare all’intelligenza, ma è possibile soltanto col diavolo, col vero signore degli entusiasmi» (275).
Il diavolo lusinga il ritroso e diffidente Leverkühn, non avrà certo il fascino esotico e sensuale di Esmeralda, ma le garanzie offerte dalla ditta infernale sono comunque allettanti:
«Noi ti garantiamo l’efficacia vitale di ciò che compirai col nostro aiuto. Tu sarai guida, tu segnerai il cammino dell’avvenire, nel nome tuo giureranno i ragazzi che, grazie alla tua follia, non avranno più bisogno di essere folli. Della tua follia si nutriranno in piena salute, e in loro tu diventerai sano» (281).
Il diavolo garantisce a Leverkühn una follia creatrice che gli permetterà di raggiungere una gloria monumentale, di ergersi a supremo emblema artistico del proprio tempo, dispensatore di salute, in una prospettiva futura luminosa che stride clamorosamente con il drammatico avvenire storico della Germania, regno del terrore e di una violenza cieca, senza precedenti nella sua gelida sistematicità. Ma Leverkühn non si entusiasma, mai, ciò che gli interessa – interessa, attenzione, non spaventa -, nella sua natura di dissacrante speculatore – il suo lato nietzschiano -, più delle lusinghiere e gloriose prospettive terrene, sono le inquietanti prospettive ultraterrene. E il diavolo esaudisce la sua curiosità, descrivendo così il regno infernale, luogo umanamente impensabile e indefinibile, nei confronti del quale la lingua mostra tutti i propri limiti:
«non è facile parlarne: voglio dire, a rigore non si può parlarne in nessuna maniera, perché la realtà non è congruente con le parole. Si possono certo dire e usare molte parole, ma tutte sono soltanto sostituzioni, stanno per nomi che non esistono. Non possono avere la pretesa di dire ciò che non si può mai descrivere o enunciare con parole. Questa è precisamente la gioia segreta, la sicurezza dell’inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio, che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole, perché le parole “sotterraneo”, “cantina”, “mura spesse”, “silenzio”, “oblio”, “mancanza di salvezza” sono soltanto deboli simboli. Di simboli, mio caro, bisogna accontentarsi quando si parla dell’inferno, perché là tutto finisce, non solo la parola indicatrice, ma tutto, tutto… anzi questo è il principale punto caratteristico e ciò che se ne può dire sulle generali, ed è nello stesso tempo ciò che il nuovo arrivato vi apprende per prima cosa, ciò che da principio non riesce ad afferrare e non può comprendere coi suoi sensi, diremo così, sani; perché la ragione o qualsivoglia limitata comprensione glielo impedisce, perché, insomma, è incredibile, talmente incredibile da far impallidire, incredibile per quanto chi arriva se lo senta dire fin dall’inizio come un saluto e in forma concisa e decisa, che “là tutto finisce”, ogni pietà, ogni grazia, ogni riguardo e fino all’ultima traccia di comprensione per l’obiezione incredula e scongiurante: “Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima”. E invece sì, lo si fa e avviene senza il controllo della parola, in cantine afone, laggiù in fondo dove Dio non ode, e per tutta l’eternità. Ecco, è male parlarne, sono cose che stanno lontano e fuori del linguaggio, il quale non ha niente a che vedere con tutto ciò, non ha alcun rapporto e pertanto non sa neanche quale forma temporale debba applicarvi, e quindi non ha di meglio che ricorrere al futuro quando dice: “Là saranno pianti e strida di dannati”. Va bene, queste sono parole scelte da una zona piuttosto estrema della lingua, ma pur sempre simboli debolucci e senza alcun rapporto con ciò che “sarà”… incontrollato, nell’oblio, fra spesse mura. È ben vero che nella chiusura ermetica a tutti i suoni il rumore sarà grande, smisurato e tale da stordire da lontano a furia di urli e gemiti, grida e brontolii, strida e insulti, implorazioni e lamenti, rimbrotti e schianti, di modo che nessuno udirà il proprio strepito, perché esso sarà soffocato nel fragore generale, nel fitto giubilo infernale e negli urli dei dannati, causati dalla perpetua ingiunzione dell’incredibile e dell’irresponsabile. Non bisogna dimenticare l’immenso sospiro della voluttà, poiché una tortura infinita senza limiti di sofferenza, senza collasso e senza impotenza degenera in un piacere vergognoso, tanto è vero che coloro che ne hanno una nozione intuitiva discorrono di “voluttà infernale”. Con questo si collega strettamente l’elemento dello scherno e dell’estrema ignominia unita al martirio; qui infatti la voluttà infernale viene ad essere pari ad un miserabile dispregio della sofferenza smisurata ed è accompagnata da risa sgangherate e dalla viltà di segnare a dito: da qui la dottrina che, oltre ai tormenti, i dannati hanno anche le beffe e la vergogna, che anzi l’inferno va definito come un’orrenda fusione di dolori che non si possono tollerare, ma che pur si dovranno sopportare in eterno, e di improperi. Laggiù i dannati si mangiano la lingua dal dolore, ma non per questo formano una comunità; provano invece disprezzo reciproco e tra gli urli di dolore e i sospiri si scambiano le più sconce villanie, e i più raffinati e orgogliosi, quelli che non hanno mai pronunciato una parola volgare, sono costretti a usare le più sudice. Una parte dei loro tormenti e del loro scandaloso piacere consiste nell’escogitare gli insulti più lerci» (283-284).
Tutto però si riduce in sostanza alla polarità caldo-freddo, altra unità semantica inscindibile al pari di quella salute-malattia:
«la sua natura o, se preferisci, la sua qualità più spiccata consiste nel concedere ai suoi inquilini soltanto la scelta tra il gelo estremo e un ardore che potrebbe fondere il granito. Fra questi due estremi essi si dibattono ululando, poiché nell’uno l’altro sembra continuamente un ristoro divino, ma diventa subito, e nel più infernale significato della parola, insopportabile. Trattandosi di estremi, la cosa dovrebbe piacerti» (285).
Nella creazione del suo inferno Mann, più che ricorrere al supremo e universale modello dantesco, sembra rispettare le indicazioni fornite da Musil nell’Uomo senza qualità [16], soprattutto relativamente all’impossibilità della lingua di descrivere il regno infernale e all’insufficienza dell’umana ragione di farsene un’idea esatta: «L’inferno non è interessante, è spaventoso. Quando non lo si è umanizzato – come fece Dante che lo popolò di letterati e di personaggi illustri, distogliendo così l’attenzione dall’aspetto tecnico del castigo – ma si è tentato di darne una rappresentazione autentica, anche gli individui più fantasiosi non sono andati al di là di ridicole torture e di misere distorsioni di qualità terrene. Tuttavia proprio il pensiero vuoto della pena e del tormento infiniti, irrappresentabili e dunque ineluttabili, il presupposto di un peggioramento del tutto indifferente a ogni sforzo contrario, proprio questo possiede l’attrazione di un abisso» [17].
Il diavolo è un agente di commercio consumato e del proprio prodotto, anzi, in questo caso della propria azienda, sottolinea l’esclusività:
«Non credere che sia facile arrivare all’inferno. Avremmo da gran tempo mancanza di spazio se vi entrassero Tizio e Caio. Ma il suo tipo teologico, il tipo matricolato che specula sulla speculazione, perché da parte del padre ha la speculazione nel sangue… bisognerebbe proprio che m’ingannassi di grosso se questo non appartiene al demonio» (286).
Ecco, Leverkühn non sembra avere la possibilità di scegliere, di rifiutare magari la proposta, il suo destino appare segnato e, in tal senso, l’incontro con il diavolo si configura piuttosto come una burocratica formalità. Diavolo che infine stabilisce benefici e condizioni, diritti e doveri, i punti essenziali del patto, insomma:
«Tempo hai preso da noi, tempo geniale, tempo esaltante, ben ventiquattro anni ab dato recessi, che ti fissiamo come ultimo termine. Quando saranno passati e trascorsi, e sarà un’epoca lontana, e anche se un tempo così è un’eternità, ti verremo a prendere. Per contro ti vogliamo essere in questo frattempo sottomessi e obbedienti, e l’inferno ti sarà propizio, purché tu abrenunzii a tutti quelli che vivono, a tutto l’esercito celeste e a tutti gli uomini, poiché così dev’essere» (287).
Ma la condizione più dura, dolorosa, estenuante, esasperante, disumana in una sola parola, è la seguente:
«A noi tu, creatura fine e creata, sei promesso e fidanzato. A te non è lecito amare» (287).
È questa la condizione che rende il diavolo di Mann il più malvagio dell’intera tradizione letteraria ispirata al mito di Faust: se il Mefistofele di Goethe permette al protagonista di godere dell’amore di Margherita prima e di Elena poi, che rappresentano i due più grandi servizi resi al protagonista in cambio della sua anima, comunque salva al termine dell’opera, e se il Woland di Bulgakov ricongiunge il Maestro e Margherita, unendoli persino per l’eternità, il diavolo innominato del Doctor Faustus priva Leverkühn di quell’amore nel segno del quale è stata sancita la loro unione. Esmeralda resterà la prima e l’ultima. Solo una puttana sifilitica ad Adrian Leverkühn è stato concesso amare. Un prezzo altissimo, forse sproporzionato, anche per una merce dal valore enorme come il tempo geniale.
Prima di concludere il capitolo, una rapida considerazione su questa crudele e spietata condizione. Quale ne è la ragione? Ancora una volta, la polarità caldo-freddo:
«L’amore ti è vietato in quanto riscalda. La tua vita dev’essere fredda, perciò non devi amare alcuna creatura umana. […] Freddo ti vogliamo, tanto freddo che le fiamme della produzione basteranno appena a scaldarti. In esse ti rifugerai dal gelo della tua vita…» (288).
Leverkühn, come sottolinea lui stesso, in questa alternanza di caldo e freddo è destinato a vivere già in questa vita terrena il castigo che lo attenderà dopo la morte. Tirarsi indietro non è più possibile, anzi, non c’è mai stato un momento in cui fosse possibile dire no, rifiutare, voltare le spalle e andare via. Accade ciò che doveva accadere, ciò per cui Leverkühn, nella mente di Mann, è stato creato. Tutto ciò che accade è inevitabile e irreparabile.
«L’esistenza stravagante è la sola che basti a una mente orgogliosa. La tua superbia non vorrà certo mai scambiarla con un’esistenza tiepida» (288).
Come Stavrogin, Leverkühn non ha voluto essere soltanto tiepido, a differenza di Hans Castorp ha rifiutato l’ideale umanistico dell’aurea mediocritas, e se questo rifiuto può talvolta condurre a Dio, la maggior parte delle volte conduce al diavolo.
4. Apocalipsis cum figuris
Leverkühn si ritira nella solitudine idillica di Pfeiffering e qui crea le sue due più grandi opere, la prima delle quali è l’Apocalipsis cum figuris, che deve il titolo alla serie di quindici xilografie di Albrecht Dürer dedicate all’ultimo libro biblico e realizzate tra il 1496 e il 1498. Composta in appena sei mesi, l’Apocalipsis cum figuris rappresenta una sintesi della tradizione visionaria, della letteratura di scrittori estatici, alla quale è ispirata, oltreché naturalmente al testo giovanneo, creandone di fatto una nuova di apocalisse, l’apocalisse secondo Adrian Leverkühn. Opera «minacciosa» animata dalla «smania di svelare musicalmente le cose più recondite, la bestia che c’è nell’uomo e, d’altra parte, i suoi moti più sublimi» (427), «opera di visione religiosa che riconosce la teologia quasi esclusivamente come terrore e tribunale» (430), riflette tutta l’«aspirazione all’anima» del suo autore, quell’aspirazione caratteristica della sirenetta di Andersen, creatura amata da Leverkühn.
A livello musicale, l’opera è dominata dal paradosso (tutto ciò che è spiritualmente elevato è espresso attraverso la dissonanza, mentre l’armonia è riservata alle forze infernali), e l’urlo vi compare addirittura come tema («quale orrore!», esclama il settembriniano Zeitblom). La presenza del grido, o meglio, la presenza del grido in quanto tema, rivela tutta la portata innovativa, alternativa della composizione di Leverkühn, perché il grido costituisce l’elemento principale della rivoluzionaria e dissonante ondata espressionistica, a livello pittorico, letterario e, appunto, musicale. Proprio come il suo modello reale, Arnold Schönberg, Leverkühn è un musicista espressionista, e come tale contrapposto all’intera tradizione musicale ad esso precedente. Come Schönberg, Leverkühn esplora l’inesplorato e porta alla luce soluzioni che scandalizzano un pubblico legato ancora a modi e stilemi tradizionali, consolidati, ma che è giunto il momento di abbattere per spingersi finalmente oltre.
Durante la scrittura dell’Apocalipsis cum figuris Leverkühn è animato da un’ispirazione tesa, vibrante, febbrile, quella follia creatrice garantitagli dal diavolo e puntualmente documentata da Zeitblom:
«Mi pare ancora di vederlo rizzarsi all’improvviso e fissare lo sguardo nel vuoto e stare in ascolto socchiudendo le labbra mentre un rossore per me sospetto e malaugurato gli tingeva le guance. Che cos’era? Forse una di quelle illuminazioni melodiche alle quali allora, oserei dire, era “esposto”, e con le quali mantenevano la parola data quelle potenze di cui non voglio sentir parlare? Era forse il momento in cui gli si affacciava allo spirito uno dei grandiosi temi plastici che abbondano nella sua opera apocalittica e vi sono sempre freddamente dominanti, presi, dirò così, alla cavezza e trattati come pietre allineate e sovrapposte nell’architettura della composizione? Lo vedo avvicinarsi alla scrivania e mormorando “Di’ pure, continua pure a parlare” aprire di scatto l’abbozzo per orchestra, perfino strappando un foglio aperto con troppa evidenza, e fissare lo scritto con una smorfia della quale non tento di definire la miscela di espressioni, che però sfigurava ai miei occhi l’intelligente e superba bellezza del suo viso – e guardare in un punto dove forse ero schizzato il coro spaventevole dell’umanità che cerca di sfuggire ai quattro cavalieri e inciampa e precipita ed è travolta; o dov’era notato l’orribile grido del “lamento dell’uccello” affidato al fagotto beffardo e belante, o dov’era inserito il canto alterno simile a un’antifona, che mi strinse il cuore fin dalla prima volta che lo udii – quella dura fuga corale che accompagna le parole di Geremia» (411-412).
Ecco le fiamme della produzione che riscaldano Leverkühn, che interrompono temporaneamente il gelo che lo avvolge e lo attraversa, nell’esaltata creazione del suo primo capolavoro. Il diavolo mantiene sempre la parola data, rispetta sempre il patto, nel bene e nel male.
L’Apocalipsis cum figuris è un’opera grandiosa, come dimostra il suo accostamento, da parte di Zeitblom, alla Commedia di Dante e al Giudizio universale di Michelangelo, quelle che, insieme alla Sinfonia n. 9 del gran Ludovico van, citando Alexander DeLarge, composizione di cui riparleremo tra poco, reputo le maggiori creazioni artistiche di sempre:
«La pittura sonante di Leverkühn ha molto del poema di Dante, e più ancora di quella parete sovrappopolata di corpi dove gli angeli fanno squillare le trombe della fine, la navicella di Caronte si sbarazza del suo peso, i morti risorgono, i santi adorano, le maschere dei demoni aspettano il cenno di Minosse cinto di serpenti, il dannato corpulento, abbracciato dai ghignanti figli del brago, si diparte orrendamente, trascinato da essi, coprendosi un occhio con la mano e fissando con l’altro la dannazione eterna, mentre poco lungi da lui la Grazia solleva verso la salvezza due anime di peccatori: l’opera di Leverkühn, insomma, ha molto della struttura scenica del Giudizio Universale» (410).
Imprimete, imprimete nella vostra mente l’immagine terribile del dannato corpulento che si copre un occhio e viene trascinato giù dai demoni nel mezzo dell’impressionante capolavoro michelangiolesco, perché è l’immagine per eccellenza del romanzo di Mann, che tornerà nelle righe conclusive compendiando il senso tragico di un intero paese, la Germania, che, nel corso della fase più oscura della sua storia, si è illusa di essere il diavolo e invece non era altro che un peccatore.

5. Non deve essere: Marie Godeau e Nepomuk
Le fiamme della produzione riscaldano, ma non per lungo tempo, e non trasmettono quel calore benefico che solo il focolare domestico può offrire. Così, giunto ai quarant’anni, illudendosi di poter infrangere il diabolico divieto, Leverkühn pensa di sposarsi, di metter su famiglia, ed è la graziosa Marie Godeau la prescelta. Isolato dal mondo, nella sua solitudine monacale, non a caso trascorre la maggior parte del tempo nella cosiddetta stanza dell’abate, Leverkühn escogita uno stratagemma d’altri tempi, rischioso e ridicolo nella sua vetustà medievale: non avanza di persona la propria proposta di matrimonio, ma invia dalla graziosa Marie Godeau un messo amoroso, il violinista Rudolf Schwerdtfeger, nei confronti del quale prova un profondo e intenso sentimento d’amicizia, troppo intenso per i gusti del diavolo, per quella crudele condizione di solitudine fissata nel patto. Anche Schwerdtfeger è innamorato della Godeau, e non solo la donna rifiuta la proposta del compositore, ma si fidanza addirittura con colui che di tale proposta è stato il tramite. Un fidanzamento di breve durata, perché Schwerdtfeger viene ucciso a colpi di rivoltella dalla morfinomane Ines Institoris, sua vecchia amante. Leverkühn viene così provato del conforto coniugale e della devota amicizia del violinista. Il suo affetto si rivolge allora tutto all’angelico Nepomuk, figlio di sua sorella Ursel, ma il diavolo non risparmia neppure il piccolo. Esasperato, ai ferri corti con se stesso e con il demonio, Leverkühn si sfoga rabbiosamente davanti ad uno sconcertato Zeitblom:
«- Prendilo, mostro! – gridò con voce che mi scosse le più intime fibre. – Prendilo, cane fottuto, ma spicciati, se non hai voluto concedere nemmeno questo, manigoldo che sei! Avevo pensato – disse poi, rivolgendosi in tono confidenziale verso di me, avanzando di un passo e guardandomi con uno sguardo disperato che non dimenticherò mai – che volesse concedermi almeno questo. Invece no! Donde dovrebbe prendere la grazia, lui che ne è lontano, e proprio questo ha dovuto calpestare con la sua rabbia bestiale. Prendilo maledetto! – gridò, ritraendosi di nuovo da me, come uno che è messo in croce… – Prendi il suo corpo, che è in tuo potere, ma dovrai lasciare in pace la sua anima dolce, e questa è la tua impotenza, la tua ridicolaggine, per cui ti voglio insultare nei secoli. Passino le eternità fra il luogo mio e il suo, io saprò che è quello donde tu, mascalzone, sei stato cacciato, e ciò sarà bevanda confortante alla mia lingua, sarà un osanna al tuo scorno nella più bassa maledizione!» (541-542).
No, un diavolo così crudele non è mai esistito nella storia della letteratura, e ciò insinua il sospetto che esso sia solo il frutto della follia di Leverkühn, sospetto che Mann non smentisce mai nel corso del romanzo, ed è questo, proprio questo uno dei motivi della grandezza del Doctor Faustus.
Lo sfogo rabbioso di Leverkühn avviene durante l’agonia del piccolo Nepomuk, in un terribile colloquio con Zeitblom che si conclude con questa misteriosa allusione da parte dello stravolto compositore:
«- Zeitblom! – […] Quando mi volsi, disse:
– Ho trovato che non dev’essere.
– Che cosa, Adrian, non dev’essere?
– Ciò che è buono e nobile, – mi rispose – ciò che si dice umano, benché sia buono e nobile. Ciò per cui gli uomini hanno combattuto, per cui hanno dato l’assalto alle rocche, ciò che i vincitori hanno annunciato trionfanti, ecco, non deve essere. Viene ritirato. Io lo voglio ritirare.
– Scusa, caro, non ti comprendo del tutto. Che cosa vuoi ritirare?
– La Nona Sinfonia – rispose. E non disse altro, per quanto io stessi aspettando» (543).
Ogni relazione amorosa, sotto ogni aspetto, è preclusa a Leverkühn. Dunque Serenus Zeitblom, l’amico d’infanzia e biografo, fedele compagno di vita del compositore, un fratello, quasi, è un sopravvissuto. No, se Leverkühn avesse amato Zeitblom come Zeitblom amava Leverkühn e da Leverkühn avrebbe voluto essere amato, il diavolo lo avrebbe eliminato, come Schwerdtfeger e Nepomuk. Oppure, molto più semplicemente, la sopravvivenza di Zeitblom mostra come la storia del patto con il diavolo sia solo il frutto della follia di Leverkühn e la morte del violinista e del bambino tragiche casualità. Non possiamo saperlo con certezza e in questa incertezza, anche in questa incertezza, come ho scritto sopra, sta la grandezza del Doctor Faustus di Mann.
6. Lamentatio Doctoris Fausti

Come sottolineato nell’introduzione di questo breve, superfluo, anzi, del tutto inutile studio, il Doctor Faustus si caratterizza per il doppio binario temporale, quello passato, dedicato alla vita di Leverkühn, e quello presente, in cui Zeitblom assiste impotente alla provvidenziale e benefica disfatta del proprio paese, rendendone conto. Gli ultimi anni di «vita spirituale» del protagonista, il biennio 1929-1930, corrispondono al dilagare del nazismo, che ora invece tramonta «nel sangue e nel fuoco». È in questo periodo che Leverkühn compone la sua opera «ultima ed estrema», il secondo dei suoi due massimi capolavori, la cantata sinfonica Lamentatio Doctoris Fausti. Leverkühn ha ormai quarantaquattro anni e un’insolita barba scura e brizzolata gli copre il volto, conferendogli «un che di spirituale e sofferente, di simile a Cristo». Per la prima volta i suoi occhi sono davvero spalancati, come quelli dell’allucinato Sguardo rosso di Schönberg, e un’energia visionaria lo attraversa. Inoltre ha ormai eliminato del tutto le visite in società, e il suo isolamento in quel di Pfeiffering è pressoché totale, eremitico.

Delle opere di Leverkühn la Lamentatio Doctoris Fausti si impone come la «più rigorosa, un’opera di calcolo estremo e ad un tempo puramente espressiva» (553), dominata dall’eco, «il malinconico “ahimè” della natura a proposito dell’uomo e la tentata manifestazione della sua solitudine» (551). Essa costituisce di fatto un «enorme lavoro di variazioni del lamento – negativamente affine come tale al finale della Nona Sinfonia con le sue variazioni della gioia» (552), ed ecco che di colpo si rivela il senso della misteriosa allusione di Leverkühn al capolavoro beethoveniano in conclusione del terribile colloquio con Zeitblom durante l’agonia di Nepomuk. Almeno Leverkühn trae arte dal suo dolore insostenibile, trasforma la sofferenza in musica, creando una composizione che fa da contraltare al supremo inno umano all’ottimismo (vengono in mente i seguenti versi del Tasso di Goethe: «E se nel dolore l’uomo ammutolisce / A me un dio ha concesso di dire quanto soffro» [18]).
«Mio povero grande amico! Quante volte, leggendo le sue opere postume, le opere della sua fine, che anticipano con spirito veggente tante rovine, ho pensato alle parole dolorose ch’egli mi disse quando morì il bambino: ho pensato a quella sua frase: “Non deve essere”. Il bene, la gioia, la speranza non devono essere, vengono ritirati, si devono ritirare! Questo “ahimè, non dev’essere” è quasi un’indicazione, una didascalia musicale sopra i tempi corali e strumentali della Lamentatio Doctoris Fausti, ed è conchiuso in ogni battuta e in ogni cadenza di questo “Inno alla tristezza”. Non vi è dubbio che fu scritto col pensiero rivolto alla Nona di Beethoven come contrapposto, nel più malinconico significato della parola» (555-556).
Nell’opera Leverkühn realizza un capovolgimento del fatto religioso, il suo Faust si presenta come un Cristo rovesciato, che, nella sua ultima ora, non invita i compagni a vegliare, ma a dormire tranquilli e non lasciarsi tentare, nel rifiuto dell’idea della salvezza come tentazione, all’interno di un complessivo sentimento di disprezzo nei confronti della positività del mondo, in nome della quale lo si vorrebbe salvare. La Lamentatio Doctoris Fausti è dunque un’opera fondata su basi filosofiche profondamente nichilistiche, e non potrebbe essere altrimenti, vista l’intenzione anti-beethoveniana del suo autore. Come tale essa non offre «un altro conforto tranne quello che sta nell’espressione stessa mediante il suono: nel fatto dunque che al creato è data una sua voce per esprimere il proprio dolore» (557). Eppure Zeitblom non riesce proprio a resistere alla tentazione, settembriniana ancor più che umanistica, di individuare anche all’interno di questa suprema celebrazione del dolore e del male una speranza:
«Sarebbe la speranza al di là della disperazione, la trascendenza della disperazione – non il tradimento ai suoi danni, bensì il miracolo che va oltre la fede. Ascoltate questo finale, ascoltatelo con me: i gruppi di strumenti si ritirano l’uno dopo l’altro e quello che rimane è soltanto il sol sopra il rigo d’un violoncello, l’ultima parola, l’ultimo suono svanente che si spegne adagio nel pianissimo. Poi non c’è più nulla – silenzio e notte. Ma il suono che ancora vibra nel silenzio, quel suono svanito che soltanto l’anima ancora ascolta, ed era la fine della tristezza, ora non lo è più, muta di significato, è quasi un lume nella notte» (557).
Parole senz’altro bellissime, ma che somigliano tanto, troppo, all’ultimo disperato tentativo, da parte dell’uomo che ha perduto tutto e che di questa perdizione, in quanto cittadino tedesco, si sente complice, di salvare un’illusione, almeno un’illusione.
Conclusione
Oramai prossimo alla fine della sua «vita spirituale», Leverkühn riunisce i conoscenti a Pfeiffering. Intende far ascoltare loro alcuni passi dell’ultima grandiosa creazione, la Lamentatio Doctoris Fausti, eseguendoli al pianoforte, ma prima si lancia in un delirante monologo in cui confessa all’uditorio il suo patto con il diavolo. Leverkühn è ormai vittima della follia (tra i tanti spropositi, sostiene che Nepomuk sia il frutto della sua unione con la sirena Ifialta), e dopo aver terminato il monologo, scandaloso per molti dei presenti, alcuni dei quali sono persino fuggiti, indignati e inorriditi, si accomoda al pianoforte per iniziare finalmente la tanto attesa esecuzione, ma precipita di colpo a terra. La sua «vita spirituale» ha fine in questo preciso istante.
Vittima, come il suo modello filosofico, Nietzsche, della malattia mentale, Leverkühn regredisce ad uno stato infantile, torna al grembo materno, «dopo aver descritto un arco vertiginoso sopra il mondo» (573). Viene ricondotto a Buchel, nella casa d’infanzia, e qui muore, nel 1940, a cinquantacinque anni, quando la
«Germania, coi pomelli accesi, traballava […] al colmo dei suoi orrendi trionfi, in procinto di conquistare il mondo in virtù del solo trattato ch’era disposta a osservare e che aveva firmato col sangue. Oggi, avvinghiata dai demoni, coprendosi un occhio con la mano e fissando l’orrore con l’altro, precipita di disperazione in disperazione. Quando toccherà il fondo dell’abisso? Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari a un miracolo superiore a ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!» (577).

Sono queste le righe conclusive del Doctor Faustus, in cui torna e s’imprime l’immagine del dannato michelangiolesco che si copre un occhio e viene trascinato giù dai demoni. Ricorrendo a questo personaggio, Mann fornisce la rappresentazione artistica più efficace della Germania nazista sconfitta. In questo epilogo i due piani temporali oscillanti nel corso del romanzo si incontrano, nei destini di dannazione di Leverkühn e della sua patria. Perché anche la Germania ha stipulato il suo patto con il diavolo: ipotesi fascinosa e, soprattutto, consolante, perché l’orrore nazista fu il frutto di un accordo tutto umano, in cui i colpevoli non sono da ricercare solo tra i gerarchi nazisti. Il popolo tedesco, come ha dichiarato Primo Levi, di resistere ad essi neppure ha tentato:
«Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l’illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta» [19].
Chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie: ma la vita riserva un giorno del giudizio a tutti gli uomini, prima o poi, e allora, quando si è chiamati a fare i conti, a tirare le somme, non ci si può più tirare indietro, non si può dire io non sapevo, non è permesso, e solo un occhio ci si può coprire, uno solo, mentre si viene trascinati giù, nell’orrore della complicità, della responsabilità, della colpevolezza.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul capolavoro goethiano rimando all’articolo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.
[2] Per un approfondimento sul romanzo di Bulgakov rimando gli articoli Il Maestro e Margherita: la ri-scrittura del mito. Prima parte, Il Maestro e Margherita: la ri-scrittura del mito. Seconda parte.
[3] Per un approfondimento sul pensatore tedesco e la sua unica opera rimando all’articolo Max Stirner, L’unico e la sua proprietà.
[4] Per un approfondimento sul saggio dello studioso statunitense rimando all’articolo Thomas Harrison: 1910. L’emancipazione della dissonanza.
[5] Thomas Mann, Doctor Faustus, traduzione di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1996, p. 6. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[6] Per un approfondimento sul romanzo dello scrittore russo rimando agli articoli Dostoevskij spiega Dostoevskij. I demoni. Parte I, Parte II, Parte III.
[7] Per un approfondimento sul protagonista dei Demòni rimando agli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte.
[8] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, pp. 747-748.
[9] Per la lettura e l’analisi del canto rimando all’articolo Divina Domenica – Inferno – Canto V.
[10] Per un approfondimento sul pensatore, scrittore, poeta goriziano e sulle sue due opere maggiori, La persuasione e la rettorica e Il dialogo della salute, rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.
[11] Fëdor Dostoevskij, I demoni, cit., p. 744.
[12] Per un approfondimento sull’ultimo e più grande romanzo di Dostoevskij rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte, I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte.
[13] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 620.
[14] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo L’evoluzione di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann.
[15] Per un approfondimento sul romanzo di Svevo rimando all’articolo La coscienza di Zeno: originalità e malattia della vita.
[16] Per un approfondimento sul capolavoro di Robert Musil rimando agli articoli Ulrich, l’uomo senza qualità. Prima parte, Ulrich, l’uomo senza qualità. Seconda parte, Le donne dell’Uomo senza qualità: la «grande e marmorea» Diotima, Le donne dell’Uomo senza qualità: la «verginale ed eroica» Clarisse, Le donne dell’Uomo senza qualità: l’indolente Agathe, Le donne dell’Uomo senza qualità: la ninfomane Bonadea, Le donne dell’Uomo senza qualità: la nervosa Gerda.
[17] Robert Musil, L’uomo senza qualità, traduzione di Irene Castiglia, Newton Compton editori, Roma 2013, p. 1072.
[18] Johann Wolfgang Goethe, Torquato Tasso, a cura di Eugenio Bernardi, Marsilio, Venezia 1988, p. 252. Sulle ragioni del successo di Tasso in epoca romantica rimando all’articolo Torquato Tasso, il maninconico.
[19] Primo Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1989, p. 334. Per un approfondimento sul più celebre romanzo dello scrittore torinese rimando all’articolo Primo Levi, Se questo è un uomo.