Sulle ali acciarite del “progresso” – giustifico le virgolette ricorrendo a Carlo Michelstaedter: «Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» [1] -, sferragliante, sbuffante e olezzante idolo moderno, nel corso del XIX secolo anche la letteratura si fa mercato, e il libro merce, dotato dunque di un valore d’uso e di un valore di scambio. Assorbito il contraccolpo dell’inevitabile estraniamento seguente a questa rivoluzione industriale, che pone in cima alla piramide dei valori sociali, a trazione borghese, la produttività e l’utilità, estraniamento che trova in Baudelaire il suo massimo cantore [2], lo scrittore si adegua alle nuove regole del gioco e si fa azienda. In italia il primo scrittore aziendale, una vera e propria azienda su due gambe, è senza dubbio Gabriele D’Annunzio. Sì, è proprio questo il vero volto dell’illustre poeta vate, dell’«Imaginifico», come si autoproclama e autocelebra il pescarese nel Fuoco [3], travestito da Stelio Effrena – un travestimento pressoché trasparente, talmente chiara e perfetta è la corrispondenza tra D’Annunzio e il superomistico protagonista del suo primo romanzo novecentesco -.
«Di produzione i testi dannunziani, come nessun altro in quel tempo, autorizzano a parlare. Il vate ha chiaro che la società contemporanea sta mutando e si avvia a diventare di massa. La cura che egli dedica alla sua immagine pubblica, perché il suo nome circoli sulle pagine dei giornali e sia sulla bocca della gente, le esibizioni, i gesti clamorosi, persino le menzogne patetiche, di cui è fertilissimo inventore, sottendono la consapevolezza che sono i miti d’oggi e le mode, quelli fabbricati ad uso e consumo di un pubblico piccolo-borghese, a decidere e comunque a influenzare i processi di trasmissione e l’audience della cultura. D’Annunzio intuisce, ed è un tratto di notevole modernità, che le lettere hanno un mercato. Sulle sue dinamiche ricadono gli effetti del successo e della fama conquistati anche presso chi non sia necessariamente lettore – e dunque la capacità di ergersi a uomini da copertina e di costruirsi e divulgare un seducente profilo extraletterario; e vi incide, in stretto rapporto con la forza di seduzione del proprio mito, la fattura del prodotto, ovvero il sistema di produzione della letteratura di cui si fa impiego. Manager smaliziato, che sembra conoscere a fondo le tecniche pubblicitarie, D’Annunzio è un accorto imprenditore delle sue opere, la cui tessitura tiene in conto la dialettica di domanda e offerta, il regime concorrenziale, il valore di scambio che regolano il mercato. L’immaginifico ha coscienza, forse sublimare certo tutt’altro che infelice, dell’interazione tra sovrastruttura letteraria e struttura economico-capitalistica e la vive nella scrittura come coesistenza pacifica e matrimonio indissolubile e complicità ammiccante.
Il divo Gabriele sa che strappare una fetta di mercato alla concorrenza significa ammodernare il prodotto, e perciò indulge anche alla sperimentazione, ma sa, in parallelo, che un’offerta radicalmente nuova eccede la domanda e può deludere i potenziali acquirenti. Un compromesso di tradizione e di innovazione è quel che ne risulta in concreto. D’Annunzio media abilmente, utilizza quanto proviene d’oltre confine – e reca l’impronta di un aggiornamento dei modelli letterari – e non smette del tutto le vecchie pratiche, a cui il pubblico è ormai assuefatto. Inclina al simbolismo e non disdice il naturalismo. Scopre e cita Baudelaire, Verlaine, Keats e Swinburne e rivisita entusiasticamente il positivismo di Moleschott. Sembra tendere ai domini dell’ignoto, dove l’arte non ha tutori che le traccino il cammino, e, infervorato d’ascetismo, indossa il saio francescano dicendosi convinto di un finalismo morale che della letteratura sia il presupposto. Latinizza Wagner, modellando sulle forme della classicità la sua estetica romantica. Di Nietzsche usa, deproblematizzandolo e riducendone la portata, ciò che si sintonizza con la volontà di riscossa dell’intellettuale poeta e della nazione – l’uno supremo condottiero dell’altra – come si conviene a chi abbia rispetto tutto economico per la specificità geografica del mercato della cultura.
Da buon imprenditore, D’Annunzio va sul sicuro rischiando pochissimo. Le sue polemiche, contro i concorrenti, non escludono omaggi di circostanza né occasionali alleanze tattiche. La sua innovazione non è mai pagata al prezzo di un investimento di risorse che non abbia le dovute coperture o che non risulti immediatamente redditizio; ogni sua trovata letteraria ha alle spalle la garanzia di una sperimentazione già avviata con successo e risponde a una domanda culturale emergente. D’Annunzio ha la capacità sovrana di lavorare al risparmio, facendo salva l’economicità del suo ciclo di produzione; per questo, in prevalenza, sfrutta brevetti altrui e preleva, riusa e plagia, in particolare da autori francesi, mentre occulta con cura le fonti. Trovarobe eccezionale, ha potuto così compilare un dizionario retorico di topoi letterari che è inevitabile consultare. È lo sterminato vocabolario di un poligrafo, duttile e cangiante per calcolo “economico”: la logica del profitto esige ritmi produttivi serrati a basso costo e, se del caso, subitanee e ciniche riconversioni “aziendali”, da cui è esclusa ogni sofferta autocritica» [4].
Ecco il nudo, ben poco lusinghiero, secondo il mio punto di vista critico di ascendenza boiniana, ritratto del poeta vate, dell’«Imaginifico»; ecco il senso ultimo della sua esperienza letteraria. Una tale astuzia mercantile permette certo di ottenere nell’immediato il successo e la fama, ma conduce – questo l’altro triste lato della medaglia – ad una vecchiaia precoce. Sono straordinariamente vecchie oggi le opere di D’Annunzio, le quali, come ho già scritto altrove, se ancora mantengono un valore, questo è nella loro assurdità da racconto fantascientifico. E in fondo, mi ripeto di nuovo, il merito più grande del pescarese è aver innescato una letteratura di reazione, questa sì, tuttora attuale e di pregevole valore.
Gabriele D’Annunzio fa scuola, e tra i suoi più brillanti e ligi allievi troviamo, incredibile ma vero, quell’istrionico distruttore di Filippo Tommaso Marinetti, che fin dalle prime opere in francese incetta ed esautorizza quanto c’è di più richiesto nel mercato delle lettere [5]. Ma il grande capolavoro frutto dell’astuzia mercantile di Marinetti è quello che, in teoria, dovrebbe far saltare il banco, rivoluzionare tutto, il Manifesto del Futurismo, pubblicato sulle colonne del «Figaro» il 20 febbraio 1909 [6]. In questo manifesto davvero pubblicitario – Umberto Saba, l’anti-avanguardista per eccellenza definisce «stradali» i manifesti futuristi [7] -, dietro la maschera dell’antitradizionalismo, dell’anticlassicismo, dell’antipassatismo, neppure troppo radicali, perché in fondo la visita agli odiati musei e l’omaggio alla Gioconda sono concessi una volta all’anno, si cela la febbrile esaltazione dei nuovi valori industriali, con l’inno alla velocità e alla macchina. Altro che rivoluzione… Marinetti si autoproclama leader artistico-letterario di quell’idolo moderno che è il “progresso”, peraltro servendosi «di stilemi e di linguaggi, di cui è piena la cultura letteraria dell’epoca. Il racconto che trama il manifesto di fondazione ha strati di vernice liberty e simbolista. Amanti ideali, grazie feline e “bisantine”, sguardi vellutati, fiere dal pelo fulvo, tra art dèco e gusto esotico-fauve, conquista delle stelle (un’autocitazione) e sogno e ignoto la fanno da protagonisti, emblemi del simbolismo addomesticati in una esplicita sequenza retorico-comunicativa, a struttura iniziatica, finalizzata alla persuasione. Simbolista è anche l’uso di analogie e catene metamorfiche. Esse legano, per lo più, il mondo naturale-umano e quello tecnologico, insinuando di soppiatto la doppia equazione: sviluppo industriale = inarrestabile evoluzione naturale = bellezza» [8].
Sulla via tracciata dal maestro, Marinetti si fa scrittore di stato – la tirannia borghese -, e lo mostrerà chiaramente appoggiando le velleità coloniali e belliche prima e il fascismo poi. Gli intellettuali e scrittori dissidenti dell’epoca sono ben altri: Gian Pietro Lucini [9], che, superando di slancio il Futurismo – di cui, beninteso, non intendo affatto rinnegare l’importanza storica, soprattutto nella sua eretica accezione palazzeschiana [10] – dopo averlo sfiorato, accuserà il fondatore di complicità dannunziana, Dino Campana [11], che al centro della sua esperienza biografica e poetica colloca l’irregolarità, e il già citato Carlo Michelstaedter.
A proposito di Michelstaedter, D’Annunzio e Marinetti rientrano perfettamente in quella «rettorica» che costituisce il polo negativo della sua filosofia, opposto alla «persuasione», il polo positivo. A riprova di ciò, si legga il seguente appunto datato 25 luglio 1910, in cui Michelstaedter si lancia in una durissima critica contro la società contemporanea – e non sfuggirà di certo che la contestazione prende le mosse proprio dall’aspetto commerciale, mercantile -, dominata dalla «rettorica» e in cui il Futurismo e il dannunzianesimo si impongono come le due correnti letterarie dominanti, pertanto dannose e false nelle loro pose, smascherate dal goriziano.
«È il dio della φιλοψυχία che si fa réclame, come i commercianti moderni, accordando la “persona assoluta”, tutte le migliori qualità a chi comperi la sua merce.
Egli concede il nome di “dovere” e “di verità” alla qualunque debolezza:
è un dovere verso la famiglia curare il nome, i bisogni, l’eredità, la posizione, le relazioni, il commercio, conservar le idee, le abitudini consacrate, risudare il sudore invecchiato degli stracci polverosi – perché fa comodo batter la via preparata e non uscir mai dalle fasce;
è dovere verso la patria gridar “evviva” quando gli altri gridano “evviva”, “abbasso” quando tutti gridano “abbasso”, parlar delle glorie del passato come di glorie presenti, inneggiare alla nobiltà del sangue e della nazione – perché fa comodo esser patriotta a buon mercato, e potersi mettere in una delle caselle pagate e rispettate.
Grido perché mi paghino di più – non sono un uomo che ha fame, sono “il popolo”, “il Sole dell’avvenire”, ecc. Grido per non pagare di più – non sono un uomo che trema pel suo denaro, sono le “istituzioni consacrate”, una “colonna della società”.
Vado in chiesa per metter empiastri sui miei rimorsi – non sono un vile, un ipocrita, sono “un sant’uomo”.
Stiro la mia noia per tutti i ritrovi, i caffè, i teatri, i balli – non sono un ozioso che s’annoia, sono “un giovane melanconico”, “un pessimista”.
Scrivo tutte le bestialità che il vino e il vizio mi suggeriscono – non sono uno stupido impotente, sono un artista originale, anzi sono un “futurista”.
Corrompo gli altri e mi corrompo nelle degenerazioni del piacere – non sono un porco pervertito, sono un “raffinato”, anzi un “dannunziano”, sono l’artista, il creatore del mio piacere.
M’affanno per ambizione a coprir cariche, a presiedere società senza saper a che bene sieno, – non sono un irresponsabile, sono un uomo politico» [12].
Nella severa e intransigente prospettiva michelstaedteriana un futurista e un dannunziano non sono altro che, rispettivamente, uno «stupido impotente» e un «porco pervertito». Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di un giudizio esagerato, troppo rigoroso, ma, sia come sia, nessuno può negare che D’Annunzio e Marinetti, con la loro astuzia mercantile, si siano resi volontariamente complici di quel regno della «rettorica» quest’oggi vicinissimo alla perfezione – rafforzato dall’apprendistato fascista -, e nel quale al persuaso – se ancora di persuasi ne vengono al mondo – non restano che due possibilità: o una morte precoce procuratasi da sé, come fa Michelstaedter sparandosi ben due colpi di pistola in testa a ventitré anni, o una rassegnazione tale da annullare ogni differenza tra vivere e morire.
NOTE
[1] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 156. Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.
[2] Per un approfondimento sul poeta francese rimando all’articolo Charles Baudelaire, il primo poeta moderno.
[3] Per un approfondimento sul primo romanzo novecentesco di Gabriele D’Annunzio rimando all’articolo Stelio Effrena, il Verbo della pittura, «poesia muta».
[4] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, NIS, Roma 1986, pp. 23-24.
[5] Ivi, p. 152.
[6] Per la lettura del Manifesto rimando all’articolo I Manifesti delle avanguardie – Futurismo.
[7] Per un approfondimento sul poeta triestino rimando all’articolo Umberto Saba – Il cantore della quotidianità.
[8] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, cit., p. 142.
[9] Per un approfondimento sul poeta milanese rimando all’articolo «Revolverate»: la strage – premeditata – di Gian Pietro Lucini.
[10] Per un approfondimento su Palazzeschi rimando agli articoli L’originale futurismo di Palazzeschi – Il controdolore, L’originale futurismo di Palazzeschi – L’incendiario, Aldo Palazzeschi – Il Codice di Perelà, Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire!
[11] Per un approfondimento sul poeta marradese rimando all’articolo I «Canti Orfici» di Dino Campana: nella poesia, come nella vita, il trionfo dell’irregolarità.
[12] Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, pp. 701-703.