Vilhelm Hammershøi, Il collezionista di monete, 1904.

Max Stirner, L’unico e la sua proprietà

«Se io cerco con tutte le mie forze di portare una luce diurna che metta in fuga gli spettri della notte, lo faccio forse perché vi amo? Scrivo forse per amore degli uomini? No, io scrivo perché voglio procurare ai miei pensieri un’esistenza nel mondo e anche se prevedessi che questi pensieri vi toglieranno la pace e la tranquillità, anche se vedessi germogliare le guerre più cruente e la rovina di molte generazioni dal seme dei miei pensieri, bene, io lo spargerei ugualmente».

Max Stirner

Introduzione

Max Stirner in uno schizzo di Engels.

Max Stirner è un distruttore. Meglio: Max Stirner è il distruttore. Con la sua penna martellante, acrobaticamente, funambolicamente offensiva e scandalosa, frantuma l’intera storia del pensiero umano: resta il nulla, sul quale fondare la propria causa. Max Stirner è il terremoto che scuote e abbatte, implacabilmente, tutte le strutture filosofiche, antiche e moderne, da Socrate a Marx ed Engels. Nessuna costruzione si salva, nessuna costruzione resiste al devastante sconvolgimento tellurico: tutto cede, collassa su se stesso, frantumandosi in migliaia e migliaia di pezzi irricomponibili. Resta solo lui, Max Stirner, e la sua nichilistica non e anti-filosofia dell’egoismo.

L’unico e la sua proprietà (1844) rientra in quel ristretto numero di opere filosofiche prime e ultime che si caratterizzano per un radicalismo estremo, spaventoso e incomprensibile – soprattutto incomprensibile – per il lettore che, accostandosi a questi testi, non abbia fatto prima tabula rasa di tutti quei pregiudizi, di tutti quei luoghi comuni impostigli sin dalla nascita – sorta di attestato d’esistenza per via ereditaria – e cementati poi nel corso degli anni: La filosofia della redenzione di Philipp Mainländer [1], Sesso e carattere di Otto Weininger, La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter [2] (a questi che definisco oltre-filosofi, tendo sempre ad aggiungerne uno letterario, diciamo così, il dostoevskiano Kirillov [3], l’ingegnere nichilista dei Demòni [4]).

L’unico e la sua proprietà di Max Stirner: l’opera più sgarbata, oltraggiosa, insolente, indecente e scabrosa dell’intera storia della filosofia occidentale.

Al di là del bene e del male

Resta dunque il nulla, parola che inaugura e suggella il libro, sul quale fondare la propria causa, come recita il titolo della premessa dell’Unico, riprendendo il primo verso della poesia di Goethe Vanitas! Vanitatum vanitas! [5]. In queste pagine introduttive, ma da subito aggressive e irruente, Stirner compendia il senso dell’opera: egoistica è la causa di Dio, egoistica è la causa dell’umanità e di ogni singolo individuo. Stirner ne trae un grande insegnamento, ed è proprio a partire da questo grande insegnamento che nasce L’unico e la sua proprietà, con la sua incontenibile forza demistificatrice:

«Io, per conto mio, ne traggo un grande insegnamento e, piuttosto che continuare a servire disinteressatamente quei grandi egoisti [Dio, l’umanità, gli uomini], voglio essere l’egoista io stesso.
Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico.
Se Dio, se l’umanità hanno, come voi assicurate, sufficiente sostanza in sé per essere a se stessi il tutto in tutto, allora io sento che a me mancherà ancora meno e che non avrò da lamentarmi della mia “vuotezza”. Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla del quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto.
Lungi da me perciò ogni causa che non sia interamente la mia causa! Voi pensate che la mia causa dovrebbe essere almeno la “buona causa”? Macché buono e cattivo! Io stesso sono la mia causa, e io non sono né buono né cattivo. L’una e l’altra cosa non hanno per me senso alcuno.
Il divino è la causa di Dio, l’umano la causa “dell’uomo”. La mia causa non è né il divino né l’umano, non è ciò che è vero, buono, giusto, libero, ecc., bensì solo ciò che è mio, e non è una causa generale, ma – unica, così come io stesso sono unico.
Non c’è nulla che importi più di me stesso!» [6].

Philipp Mainländer.

Stirner, anticipando Nietzsche – sono numerosissime le analogie tra i due pensatori, talvolta clamorose, ma non è possibile sapere con esattezza se e quanto Nietzsche abbia attinto dall’Unico, nonostante i molti studi dedicati all’argomento; di certo resta il fatto che il filosofo di Röcken non rappresenta un caso isolato, ma accoglie, perfeziona e fa sue tendenze filosofiche negative caratteristiche dell’epoca, e oltre a Stirner penso a quei filosofi che radicalizzano, estremizzano il pessimismo schopenhaueriano, di cui il rappresentante più significativo e illustre è senza dubbio Mainländer, e agli eroi negativi di Dostoevskij: l’uomo-topo protagonista delle Memorie dal sottosuolo [7], Raskol’nikov [8], Kirillov, Stavrogin [9], Ivan Karamazov [10] con il suo impressionante poema Il grande inquisitore [11], insieme con la teoria dell’Uomo-Dio del demoniaco ingegnere una delle vette più alte del pensiero negativo -, si pone al di là del bene e del male. Non esiste la morale – il cui «rude pugno […] non ha alcun riguardo per la nobile essenza dell’egoismo» (63) -, esiste solo l’individuo, il singolo, unico, fine a se stesso, gratuito, primo e ultimo.

Friedrich Nietzsche nel 1882.

Indugiamo ancora qualche istante sul nome di Nietzsche. Ebbene, tra tutti gli aspetti della sua filosofia, quello più celebre, insieme con il mito dell’Übermensch, è senza dubbio rappresentato dall’annuncio della morte di Dio, esposta per la prima volta nel famosissimo aforisma numero 125 della Gaia scienza [12]. Ma il filosofo di Röcken rende celeberrima un’espressione formulata già prima di lui nella filosofia tedesca del XIX secolo: da Mainländer, che, ancor più radicalmente, nella Filosofia della redenzione, annuncia non solo la morte di Dio, ma addirittura il suicidio di Dio [13], e proprio da Max Stirner, nella breve introduzione alla seconda parte dell’Unico:

«All’inizio dell’età moderna sta l'”uomo-dio”. Alla sua fine scomparirà soltanto una parte dell’uomo-dio, e cioè il dio? Ma può veramente morire l’uomo-dio se in lui muore soltanto il dio? Non si è riflettuto su questo problema, poiché si pensava di aver già fatto tutto portando vittoriosamente a compimento, ai giorni nostri, l’opera dell’illuminismo, il superamento di Dio; non si è notato che l’uomo ha ucciso Dio soltanto per diventare lui stesso – “unico Dio nei cieli”. L’aldilà fuori di noi è stato certo spazzato via e la grande impresa degli illuministi è compiuta; ma l’aldilà dentro di noi è diventato un nuovo cielo che ci invita a muovere scalate celesti: il Dio ha dovuto far posto non a noi, ma – all’uomo. Come potete credere che l’uomo-dio sia morto, se prima, in lui, non è morto, oltre al dio, anche l’uomo?» (163).

Il XIX è il secolo della morte di Dio, e Nietzsche non è il solo, non è l’unico: Mainländer e Stirner ne furono i precursori. Ma prima di procedere, di andare avanti, mi limito a sottolineare come questa riflessione di Stirner sia collegabile al suo giudizio negativo sulle nuove ideologie dell’epoca, lette come mere continuazioni del cristianesimo, che non abbattono e superano la religione, ma prendono il suo posto, il socialismo e il comunismo, bollato quest’ultimo da Stirner come il trionfo della «straccioneria»: «Proudhon e i comunisti lottano contro l’egoismo. Perciò essi non rappresentano che la continuazione logica del pensiero cristiano, del principio dell’amore, del sacrificio per un’entità generale ed estranea» (262). L’unico, l’egoista non riconosce e non abbraccia nessuna ideologia, è per definizione impolitico, e il duro giudizio sul comunismo susciterà la reazione sdegnata di Marx ed Engels, che alla piccata confutazione del pensiero stirneriano dedicheranno gran parte dell’Ideologia tedesca: un’attenzione che rivela la portata dell’impatto tellurico dell’Unico nella propria epoca, e non solo, se ancora oggi le pagine di Stirner stravolgono – in positivo o in negativo non fa alcuna differenza – i suoi lettori.

L’anti-statalismo

L’unico, l’egoista non riconosce nessuna istituzione, nessuna autorità, e ciò vale soprattutto per la massima, suprema autorità: lo stato, «Dio mondano» il cui servizio è un «nuovo servizio divino», un «nuovo culto» (108). Nelle numerosissime riflessioni anti-stataliste che attraversano di fatto l’opera dall’inizio alla fine, si manifesta tutta la profonda avversione di Stirner, borghese penitente, nei confronti della borghesia e, soprattutto, nel confronti del filosofo borghese per eccellenza, Hegel – Stirner individua e dunque rifiuta anche il poeta della borghesia, Goethe -, il cui pensiero è caratterizzato da una vera e propria forma di statolatria.

«Lo Stato, la religione, la coscienza, questi tiranni, mi rendono schiavo e la loro libertà è la mia schiavitù. È ovvio e inevitabile che essi seguano, in ciò, il principio secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. Se il fine è il bene dello Stato, la guerra, come mezzo, viene santificata; se il fine dello Stato è la giustizia, l’omicidio come mezzo, viene santificato e ribattezzato col nome sacro di “esecuzione capitale”, ecc.; lo Stato, che è santo, santifica tutto ciò che gli torna utile» (115).

Stirner sottolinea come, e da queste riflessioni pungenti e sovversive è facile comprendere perché l’anarchia accolga con entusiasmo la lezione stirneriana (stando ad Engels, per esempio, Bakunin ha attinto a piene mani dall’Unico), lo stato si fondi necessariamente sulla schiavitù dei suoi cittadini, sul dominio totale di essi:

«Lo Stato non può abbandonare la pretesa di determinare la volontà dei singoli, di contarci e di specularci. Per lo Stato è assolutamente necessario che nessuno abbia una volontà propria e, se qualcuno dimostra di averla, lo Stato deve escluderlo (rinchiuderlo, esiliarlo, ecc.); se tutti dimostrassero di averla, essi abolirebbero lo Stato. Lo Stato non è pensabile senza il dominio e la schiavitù (sudditanza); infatti lo Stato deve dominare tutti coloro che ne fanno parte: questa si chiama appunto “volontà dello Stato”» (205-206).

Lo stato basa la propria esistenza sul sistematico processo di depotenziamento del singolo, privato della propria volontà e dominato. E con i regimi democratici, perché, come insegna Tolstoj nel saggio Guerra e rivoluzione [14], ogni forma di governo è un regime, la macchina statale ha raggiunto il suo massimo perfezionamento, concedendo al singolo l’illusione della partecipazione, annullandolo con un bonario e rasserenante sorriso. Il dispotismo è l’essenza atavica, irriducibilmente propria di ogni Stato: «Ogni Stato è dispotico, sia il despota uno solo oppure siano molti o addirittura tutti, come si presume avvenga in una repubblica, dove ciascuno tiranneggia l’altro» (206). La dittatura della maggioranza non è una patologia della democrazia, ma è una proprietà connaturata alla democrazia, fin quando resisterà anche un solo uomo in disaccordo, un solo uomo al quale lo stato non è riuscito a strappare la volontà.

«Ma che me ne importa del bene comune? Il bene comune, come tale, non è il mio bene, ma piuttosto la punta estrema del rinnegamento di sé. Il bene comune può esultare mentre io devo “chinar la testa”, lo Stato può prosperare nel modo più splendido mentre io faccio la fame» (224).

Jacques-Louis David, La morte di Socrate, 1787.

È a spese del singolo che il popolo può essere libero – democrazia=dittatura della maggioranza -, e a riprova di ciò Stirner cita il caso dell’antica Atene, il cui popolo, nel suo momento di maggiore libertà, «istituì l’ostracismo, scacciò gli atei e avvelenò il pensatore più onesto», Socrate. Ma Stirner non risparmia neppure Socrate, criticando aspramente la sua decisione di non lasciare il carcere e morire: «Avrebbe dovuto restare sulle sue posizioni e, dato che non aveva pronunciato contro se stesso una sentenza di morte, avrebbe fatto bene a disprezzare la sentenza degli ateniesi e a fuggire. Ma egli, invece, si sottomise, riconoscendo nel popolo il suo giudice, immaginando di essere piccola cosa di fronte alla maestà del popolo. Il fatto di sottomettersi, come a un “diritto”, al potere violento al quale in realtà soggiaceva, fu tradimento di se stesso: fu virtù» (225).

Stirner assai di rado affronta le questioni una sola volta e, soprattutto per quanto riguarda le tematiche fondamentali dell’opera, come l’anti-statalismo, vi torna di continuo, e ogni volta con rinnovata furia. Stirner martella il lettore, lo scuote, lo strattona con maleducazione, irriguardosamente, gridandogli dritto in faccia quanto l’attuale stato di cose sia nocivo, degradante e umiliante per se stesso.

«Ma non c’è nessuno Stato in cui io possa essere libero. La famosa tolleranza degli Stati è soltanto tolleranza, appunto, di ciò che appare “innocuo” e “inoffensivo”, è solo un superamento della piccineria, è solo una – tirannia più autorevole, più grandiosa, più superba» (237).

E ancora:

«Io non ho il permesso di fare tutto quello che potrei, ma solo quello che lo Stato mi concede di fare. Io non posso valorizzare né i miei pensieri né il mio lavoro né, in generale, niente di mio» (237).

E ancora:

«lo Stato durerà finché il singolo non sarà tutto in tutto: lo Stato, infatti, non è che l’espressione manifesta della mia limitazione, della mia schiavitù. Lo Stato non si propone mai di favorire la libera attività dei singoli, ma favorisce invece sempre tutto ciò che può servire ai suoi scopi. È impossibile che grazie allo Stato si realizzi qualcosa di comune, esattamente come un tessuto non può venir detto lavoro comune di tutte le singole parti di una macchina: si tratta piuttosto del lavoro dell’intera macchina considerata come un’unità, è lavoro meccanico. Esattamente allo stesso modo tutto avviene per mezzo della macchina dello Stato: essa mette in moto i congegni dei singoli spiriti, nessuno dei quali segue il proprio impulso. Lo Stato cerca di ostacolare ogni libera attività per mezzo della sua censura, della sua vigilanza e della sua polizia, anzi considera suo dovere ostacolarla e in effetti è un dovere di autoconservazione. Lo Stato vuol essere artefice dello sviluppo degli uomini, per questo gli uomini che vivono in essi sono artificiali: chiunque voglia essere se stesso è avversario dello Stato, è una nullità. “È una nullità” significa appunto: lo Stato non lo utilizza, non gli dà né una posizione, né un incarico, né un mestiere, ecc.» (238).

Insomma, «Io sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io» (268). E come in ogni pensatore radicale, tertium non datur.

Dalla parte dei vagabondi

Stirner si scaglia con veemenza contro il borghese medio, l’homo hegelianus, l’uomo nella «botte di ferro» comicamente rappresentato da Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica [15], l’autore dell’Unico lo schiaffeggia, facendogli saltare via il cappello dalla testa, lo deruba di tutte le sue presunte certezze, calpestate una per una. Perché Stirner è dalla parte dei vagabondi, dei non allineati, dei non omologati, degli immuni all’ipocrita mediocritas caratteristica del dominio borghese. Stirner è il «metafisico dei vagabondi» [16], come lo definisce Calasso.

«La borghesia professa una morale che è strettamente connessa alla sua essenza. La sua prima esigenza è che si abbia un lavoro sicuro, si eserciti una professione onorevole e si tenga una condotta morale. Immorali sono, secondo lui, il cavaliere d’industria, la cortigiana, il ladro, il bandito e l’assassino, il giocatore, l’uomo senza un patrimonio e senza un lavoro, l’uomo leggero. L’atteggiamento che il bravo borghese assume di fronte a questa gente “immorale” viene da lui stesso definito “profondissima indignazione”. Tutti questi tipi non hanno né una residenza stabile, né solidi interessi, né una vita tranquilla e rispettabile, né un reddito fisso, ecc.; insomma la loro esistenza non poggia su alcuna base sicura ed essi appartengono perciò alla pericolosa categoria dei “singoli” e degli “isolati”, al pericoloso proletariato: sono “individui scalmanati”, che non offrono alcuna “garanzia” e “non hanno niente da perdere” e quindi niente da arrischiare. L’uomo che contrae un vincolo matrimoniale, che si fa una famiglia, ne resta legato e perciò dà affidamento, offre una presa sicura; la prostituta, invece, no. Il giocatore rischia tutto al gioco, rovina se stesso e gli altri: nessuna garanzia. Si potrebbero comprendere sotto il nome di “vagabondi” tutti coloro che appaiono, al borghese, sospetti, ostili e pericolosi, giacché egli disdegna ogni tipo di vita vagabonda. E ci sono anche vagabondi dello spirito, ai quali la dimora degli avi appare troppo angusta e opprimente per potersene stare tranquilli in quello spazio ristretto: invece di mantenersi entro i limiti di un modo di pensare moderato e di prendere per verità intoccabile ciò che a tanti dà conforto e sicurezza, essi oltrepassano tutti i confini della tradizione e vagabondano in strane regioni del pensiero, sollevando critiche irriverenti e dubitando impudentemente di tutto, questi vagabondi stravaganti. Essi formano la classe degli instabili, degli irrequieti, dei mutevoli, cioè dei proletari, e vengono detti, quando manifestano la loro natura randagia, “teste inquiete”» (121).

Attraverso la fascinosa definizione di vagabondo dello spirito Stirner chiarisce la propria attività filosofica, e si tratta di una definizione universalizzabile, estendibile a tutte quelle esperienze filosofiche, letterarie e artistiche alternative che si spingono oltre la moderazione e la tradizione, esplorando «strane regioni del pensiero, sollevando critiche irriverenti e dubitando impudentemente di tutto». Penso agli oltre-filosofi citati in apertura di questo articolo, certo, ma anche, limitandomi ad un solo esempio, all’avventura espressionista d’inizio Novecento, che pone al centro della propria azione artistica, letteraria e filosofica un recupero dell’Io che presenta molti aspetti in comune con l’irriverente e distruttiva riflessione stirneriana.

L’unico, l’egoista

Marx ed Engels.

Stirner esorta il lettore a recuperare se stesso, a riprendere pieno possesso di se stesso, a collocarsi al centro di tutto, a farsi creatore e ad accostarsi, a rapportarsi a ciò che lo circonda solo ed esclusivamente in relazione al proprio volere e al proprio bisogno. L’unico, l’egoista si serve «di ogni cosa come mezzo il cui fine è egli stesso» (181), l’unico, l’egoista persegue la propria soddisfazione e non conosce morale, non conosce legge, non conosce modello all’infuori di se stesso: egli è appunto l’unico. E nulla gli è sacro: «l’egoista compie spietatamente la – profanazione estrema» (194). Le parole dedicate all’unico, all’egoista sono le più offensive, le più oltraggiose e insolenti, le più urticanti, con Stirner che giunge alla formulazione di un nuovo diritto, il «diritto egoistico», fatto di una sola, semplice e scandalosa regola:

«Io decido se io sono nel giusto; fuori di me non c’è alcun diritto o giustizia. Se qualcosa è la cosa giusta, la cosa che ci vuole per me, allora è giusta. È possibile che non per questo essa sia la cosa giusta per gli altri: questo è affar loro, non mio: si difendano, se vogliono! […]
Vivace e tumultuosa è la disputa sul “diritto alla proprietà”. I comunisti affermano: “La terra appartiene di diritto a chi la coltiva e i suoi frutti a chi li ha prodotti”. Io ritengo che essa appartenga a chi sa prendersela ossia a chi non se la fa prendere o portar via. Se egli se ne appropria, gli apparterrà non solo la terra, ma anche il diritto di possederla. Questo è il diritto egoistico, cioè se qualcosa è la cosa giusta per me, allora è giusto che io la possegga» (200-201).

Da queste poche frasi è possibile comprendere la ragione della piccata, sdegnata reazione di Engels prima e Marx poi alla lettura dell’Unico, il loro impegno profuso nella confutazione dell’opera di Stirner, scomoda per tutti, per tutti scandalosa, inconcepibile, un vero e proprio attentato terroristico filosofico a convenzioni secolari, comunismo compreso, vista l’interpretazione della nuova ideologia fornita dall’autore dell’Unico: una continuazione del cristianesimo.

Qualcuno potrebbe pensare che Stirner con la sua teoria dell’unico istituisca una nuova forma di eguaglianza… no, è lui stesso a eliminare da subito questo sospetto infondato, questo possibile stratagemma escogitato magari nel tentativo maldestro di far rientrare nei ranghi un’esperienza filosofica irriducibilmente inconsueta e inaudita.

«Come unico, tu non hai più niente che ti accomuni all’altro e, quindi, neppure che ti separi da lui o ti renda suo nemico; tu non cerchi di aver ragione, contro di lui, di fronte a un terzo e non stai più con lui sul “terreno del diritto” o su un altro terreno comunitario. Il contrasto scompare nell’esser perfettamente – divisi gli uni dagli altri, cioè nell’unicità degli individui. Questa potrebbe certo esser vista come un nuovo elemento comune o una nuova forma di eguaglianza, ma qui l’eguaglianza consiste appunto nella disuguaglianza, anzi non è altro che questa: un’uguale disuguaglianza, tale poi in realtà solo per chi istituisce confronti e “agguagliamenti”» (219).

L’unico, l’egoista è un profanatore, non riconosce niente e nessuno all’infuori di se stesso, all’infuori del proprio interesse personale: «Per l’egoista niente è abbastanza alto perché egli si debba umiliare in sua presenza, niente tanto autonomo ed estraneo che egli debba vivere per amore di esso, niente tanto sacro che debba offrirglisi in olocausto. L’amore dell’egoista sgorga dall’interesse personale, scorre nel letto dell’interesse personale e sfocia di nuovo nell’interesse personale» (308).

È solo ed esclusivamente in termini di utilità, di utilizzabilità che l’unico, l’egoista si rapporta all’uomo e ai suoi simili – «Perché non dichiararlo in tutta la sua crudezza? Io utilizzo il mondo e gli uomini!» (310) -, in una sorta di riduzione materica di tutto ciò che lo circonda, svuotato a mero oggetto d’uso. Ed ecco che le brevi e martellanti frasi di Stirner si fanno particolarmente irritanti, urticanti, strappando con un solo colpo fermo, secco e deciso – come un colpo di pistola – quel velo d’ipocrisia che ammanta le azioni dell’uomo. Stirner infastidisce perché mostra le cose per quelle che effettivamente sono, senza mediazione alcuna – anzi, sforzandosi di limitare al massimo persino la mediazione linguistica -, demolendo ogni minima e residua possibilità di illusione, manifestando una profonda e velenosa ostilità nei confronti di quella umanità ostile a se stessa, nonostante gli innumerevoli tentativi fatti nel corso dei secoli per mascherare ed edulcorare questo atavico malanimo verso gli altri. Stirner nelle pagine dell’Unico scaraventa se stesso nudo, e in quanto tale viene bollato dalla tronfia e ipocrita moralità borghese come svergognato, pericoloso, blasfemo e via dicendo. Ma ogni uomo, svestito dei consueti abiti morali, retti, virtuosi, solo apparenti, è un egoista: Stirner invita allora, o meglio esorta, a mettere da parte tutte le superflue e dannose sovrastrutture imposte, a distruggerle una volta per tutte e collocare al centro il singolo, nell’edificazione di un nuovo mondo libero dalla schiavitù della morale, della religione, dello stato, dell’umanitarismo, un mondo egoarchico.

«Quando il mondo mi attraversa il cammino (e lo fa ad ogni momento), io lo consumo per calmare la fame del mio egoismo. Tu non sei per me nient’altro che il – mio alimento, così come anche tu, d’altronde, mi consumi e mi usi. Noi abbiamo l’un con l’altro un solo rapporto: quello dell’utilizzabilità, dell’utilità, dell’uso. Noi non ci dobbiamo niente l’un l’altro, perché ciò che sembra che io debba a te lo debbo, se mai, a me stesso. Se io ti mostro un volto allegro, per rallegrare anche te, è a me che interessa la tua allegria e il volto che ti mostro serve al mio desiderio; a mille altre persone che non è mia intenzione rallegrare non lo mostro affatto» (311).

Un mondo nuovo, libero, dunque. Ma che queste parole non vengano fraintese: libero, sì, ma solo per se stessi, in funzione del proprio interesse, senza utopici e triti e ritriti slanci umanitaristici: «Se noi vogliamo liberare il mondo da parecchie schiavitù, non è per il mondo, ma per noi: siccome infatti noi non siamo redentori del mondo di professione e “per amore”, noi vogliamo solo toglierlo ad altri. Noi vogliamo farne nostra proprietà: il mondo non deve essere più schiavo di Dio (della Chiesa) o della legge (dello Stato), ma nostro proprio; per questo vogliamo “guadagnarcelo” e “accattivarcelo”, perfezionando il suo potere e insieme rendendo superfluo che lo rivolga contro di noi. E in ciò riusciremo perché andremo incontro al mondo e, appena apparterrà a noi, a esso ci “arrenderemo”. Quando il mondo sarà nostro, il suo potere non sarà più contro di noi, ma con noi. Il mio egoismo ha interesse a liberare il mondo affinché esso diventi – mia proprietà» (320).

Scopo dell’unico, dell’egoista è il proprio godimento, la propria soddisfazione, nient’altro, e un simile approccio porta per forza di cose a riconsiderare l’intero rapporto con la vita e dunque anche con la morte. Stirner ammette il suicidio, depurandolo d’ogni perbenista riserva morale, e in alcune delle righe più scabrose dell’Unico arriva a prendere le difese di una madre infanticida oltreché suicida. Parole terribili per il lettore incapace di demolire il proprio bagaglio di pregiudizi e luoghi comuni, ma che danno l’esatta misura della carica ribelle dell’opera stirneriana e della sua non e anti-filosofia dell’egoismo, volutamente provocatoria, offensiva, sfidante, immorale. Insomma, come scrive Calasso, quella vera «filosofia del martello che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare, perché troppo irrimediabilmente educato».

«A che cosa tende il mio rapporto col mondo? Io voglio goderlo, per questo il mondo dev’essere mia proprietà e per questo voglio conquistarlo. Io non voglio né la libertà né l’eguaglianza degli uomini; io voglio soltanto il mio potere su di loro, ne voglio fare mia proprietà per poterne godere. E anche se non ci riuscirò, io chiamerò lo stesso – mio il potere di vita e di morte che Chiesa e Stato si erano riservato. Coprite pure d’infamia quella vedova di un ufficiale la quale, fuggendo dalla Russia, dopo aver perso la gamba in un’esplosione, si toglie la benda, strangola con questa il figlio e poi si lascia morire dissanguata accanto al cadaverino; coprite pure d’infamia la memoria dell’infanticida: chissà “quanto bene avrebbe potuto fare al mondo” quel bambino se fosse rimasto in vita! La madre lo uccise, perché voleva morire soddisfatta e tranquilla. Questo avvenimento forse colpisce il vostro sentimentalismo, ma voi non sapete trarne alcun insegnamento. E sia; ma io, da parte mia, lo uso come esempio del fatto che è sempre la mia soddisfazione a decidere dei miei rapporti con gli uomini e del fatto che neppure al potere di vita e di morte voglio rinunciare per un eccesso di umiltà.
Per quel che riguarda in generale i “doveri sociali”, non è un altro a decidere la mia posizione verso gli altri, quindi né Dio né l’umanità mi prescrivono un tipo di rapporto con gli uomini, ma sono io stesso a decidere la mia posizione. Ciò si può affermare, in maniera più perspicua, a questo modo: io non ho nei confronti degli altri alcun dovere, così come anche nei confronti di me stesso io ho un dovere (per esempio quello di conservarmi in vita, di non suicidarmi) solo finché mi distinguo in due persone (la mia anima immortale e la mia esistenza terrena, ecc.).
Io non voglio più umiliarmi di fronte a potenza alcuna e io la richiamo subito all’ordine non appena minaccia di diventare una potenza contro o sopra di me; ogni potenza può essere solo uno dei miei mezzi per affermarmi, così come un cane da caccia è una potenza che noi usiamo contro la selvaggina, ma lo uccidiamo se ci assale. Io abbasserò tutte le potenze che mi dominano a servirmi. Gli idoli ci sono solo grazie a me: basta che non li ricrei e non esisteranno più; le “potenze superiori” esistono solo perché io le innalzo e, al tempo stesso, mi pongo più in basso.
Così il mio rapporto col mondo è questo: io non faccio più niente per il mondo “per amore di Dio”, io non faccio più niente “per amore dell’uomo”, ma tutto ciò che faccio, lo faccio “per amore di me stesso”. Solo così il mondo mi rende contento, mentre il punto di vista religioso (in cui io faccio rientrare anche quello morale e quello umanitario) è caratterizzato dal fatto che in esso tutto si riduce a un pio desiderio (pium desiderium), cioè a un aldilà, a un qualcosa che non viene mai raggiunto: così la beatitudine universale degli uomini, il mondo morale di un amore universale, la pace perpetua, la fine dell’egoismo, ecc. “Niente è perfetto in questo mondo”. Con questa funesta sentenza i buoni si distaccano dal mondo e si rifugiano nella loro cella a pregare Dio oppure nella loro superba “coscienza di sé”. Ma noi restiamo in questo mondo “imperfetto” perché anche così lo possiamo usare per godere attraverso di esso – di noi stessi.
Il mio rapporto col mondo consiste nel fatto che io ne godo e l’utilizzo così per godere di me stesso. Il rapporto è godimento del mondo e fa parte del mio – godimento di me stesso» (332-334).

L’unico, l’egoista non conosce verità, lui stesso è la verità, e nessun sentimento gli è sacro, né l’amicizia, né l’amore materno, e neppure la fede. Tutto è sottoposto al suo arbitrio, alla sua volontà, alla sua utilità, al suo godimento, e come tale tutto è alienabile, sua proprietà alienabile, che, così come lo crea, lo può distruggere. L’unico, l’egoista è consapevole di essere unico, creatore e distruttore, primo e ultimo, ed è proprio questa sua consapevolezza a fare la differenza, a innalzarlo al di sopra di tutto e tutti, proprietario del proprio potere, profanatore e smantellatore d’ogni superiore istanza, sia divina che umana, «mortale creatore di sé che se stesso consuma» e non è consumato, fiammifero oltreché candela, fondatore della propria causa su nulla. Max Stirner, l’unico, l’egoista, «grumo purissimo di nichilismo» [17].

Ribelle, non rivoluzionario

Ivan Kramskoj, Cristo nel deserto, 1872.

Si potrebbe avere la tentazione di definire la non e anti-filosofia stirneriana rivoluzionaria, ed è così che gli anarchici effettivamente la interpretano, Bakunin su tutti. Ma si tratterebbe, e si è trattato, di un errore, di una forzatura, di una strumentalizzazione. Perché Stirner nell’Unico non lascia spazio ad interpretazioni, nella sua prima e ultima opera chiarisce tutto, deve chiarire tutto, prevede e confuta, spazza via possibili dubbi, incertezze, ambiguità. Fraintendere il messaggio stirneriano non è possibile, come del resto non è possibile fraintendere nessun messaggio filosofico radicale, altrimenti non sarebbe più tale, a meno che non lo si voglia fraintendere. E così, a proposito della questione rivoluzionaria, è Stirner stesso a specificare come la sua filosofia non sia affatto tale. Stirner è un ribelle, non un rivoluzionario, e tra i due termini corre una sostanziale differenza, non si tratta di sinonimi: il rivoluzionario intende distruggere l’attuale stato di cose per sostituirlo con un altro stato di cose, demolire l’attuale sistema politico per sostituirlo con un altro sistema politico; il ribelle invece si sottrae e si eleva al di sopra dell’attuale stato di cose, se stesso e nessun altro, e nient’altro. Il ribelle è anti-ideologico e anti-politico, il ribelle è se stesso e basta.

«Rivoluzione e ribellione non devono essere considerati sinonimi. La prima consiste in un rovesciamento della condizione sussistente o status, dello Stato o della società, ed è perciò un’azione politica o sociale; la seconda porta certo, come conseguenza inevitabile, al rovesciamento delle condizioni date, ma non parte di qui, bensì dall’insoddisfazione degli uomini verso se stessi, non è una levata di scudi, ma un sollevamento dei singoli, cioè un emergere ribellandosi, senza preoccuparsi delle istituzioni che ne dovrebbero conseguire. La rivoluzione mirava a creare nuove istituzioni, la ribellione ci porta a non farci più governare da istituzioni, ma a governarci noi stessi, e perciò non ripone alcuna radiosa speranza nelle “istituzioni”. Essa non è una lotta contro il sussistente, poiché, se essa appena cresce, il sussistente crolla da sé, essa è solo un processo con cui mi sottraggo al sussistente. E se abbandono il sussistente, ecco che muore e si decompone. Ma siccome il mio scopo non è il rovesciamento di un certo sussistente, bensì il mio sollevarmi al di sopra di esso, la mia intenzione e la mia azione non hanno carattere politico e sociale, ma invece egoistico, giacché sono indirizzate solo a me stesso e alla mia propria individualità» (330-331).

Ricorrendo alla storia, Stirner cita Cristo quale tipico esempio di ribelle, contrapposto a Cesare, rivoluzionario: «Egli non era un rivoluzionario, come per esempio Cesare, bensì un ribelle, non uno che rovescia gli Stati, ma uno che si sollevava. Per questo il suo principio era solo: “Siate astuti come serpenti”, che esprime la stessa cosa dell’altro principio, più specifico: “Date a Cesare ciò che è di Cesare”; egli non conduceva alcuna battaglia liberale o politica contro l’autorità costituita, ma voleva, incurante di quell’autorità e da essa indisturbato, percorrere la propria strada» (332). Per questo motivo Giuda, vero rivoluzionario, vende Cristo, il ribelle; si tratta di due posizioni inconciliabili, che non possono coincidere. L’azione di Giuda è politica e sociale, quella di Cristo egoistica e spirituale, e questa differenza porta allo scontro, al tradimento, al processo, alla condanna a morte, dell’uno e dell’altro [18].

Ribelle: è questo il termine che meglio di ogni altro compendia il senso più profondo dell’attività filosofico-letteraria e dell’esperienza umana di Max Stirner. Ribelle interiore, come lo definisce Fritz Mauthner nel seguente, toccante ricordo: «non era un diavolo e non era un pazzo, anzi era un uomo silenzioso, nobile, che nessun potere e nessuna parola sarebbero riusciti a corrompere, un uomo così unico che non trovava un posto nel mondo, e di conseguenza più o meno fece la fame; era soltanto un ribelle interiore, non era un capo politico, perché agli uomini non lo legava neppure una lingua comune» [19].

Max Stirner ha avuto la forza e il coraggio di essere se stesso, sempre, nelle pagine dell’Unico come nella vita. È quanto scrive lui stesso in risposta a Kuno Fischer, uno dei suoi tanti detrattori, in quello che può essere considerato il suo testamento, il congedo del vagabondo dello spirito, di un ribelle ovunque fuori posto, come del resto tutti quei lettori che nelle pagine offensive dell’Unico riconoscono se stessi – magari per la prima volta, finalmente -, componenti di quella prima persona plurale, di quel «noi» cui Stirner ricorre spesso nella sua opera e che suona quasi come il disperato tentativo di colmare un vuoto che egli stesso ha spietatamente generato:

«Io voglio soltanto essere io; io disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umana e il suo amore, e recido ogni rapporto generale con essa, perfino quello del linguaggio. A tutte le pretese del vostro dovere, a tutte le designazioni del vostro giudizio categorico contrappongono l'”atarassia” del mio io; e già faccio una concessione, se mi servo del linguaggio, io sono l'”indicibile”, “io mi mostro soltanto”. E non ho forse, col terrorismo del mio io, che respinge tutto ciò che è umano, altrettanta ragione di voi col vostro terrorismo umanitario, che mi marchia subito quale “mostro inumano”, se commetto qualcosa contro il vostro catechismo, se non mi lascio disturbare nel mio godimento di me stesso?» [20].

Le pagine dell’Unico sono scritte tutte a testa alta, con atteggiamento di sfida e di irriverente provocazione, sorridendo; queste ultime righe tradiscono invece tutta la fatica di chi china il capo e piega innaturalmente se stesso, il proprio corpo nello sforzo di rendere comprensibile un messaggio, un’idea a chi si rifiuta di comprendere. Il congedo di Stirner tradisce tutta la consapevolezza di chi sa quanto sia inutile scrivere ciò che il mondo non vuole sentirsi dire.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul pensatore di Offenbach am Main rimando all’articolo Philipp Mainländer, il suicidio come redenzione dall’esistenza.

[2] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[3] Per un approfondimento sull’ingegnere dostoevskiano rimando all’articolo Aleksèj Niljč Kirillov, l’Uomo-Dio.

[4] Per un approfondimento sul più nero dei romanzi dostoevskiani rimando alla serie di articoli Dostoevskij spiega Dostoevskij. I demoni. Parte I, Parte II, Parte III.

[5] Per un approfondimento su Goethe rimando agli articoli dedicati alle sue due opere più celebri: Ovunque fuori posto: la triste storia del giovane WertherAlcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.

[6] Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, traduzione di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 2009, p. 13. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[7] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.

[8] Per un approfondimento sul protagonista di Delitto e castigo e sullo stesso romanzo rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.

[9] Per un approfondimento sul “principe” Nikolàj rimando agli articoli Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parteNikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Seconda parte.

[10] Per un approfondimento su Ivan e l’intero romanzo rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte, I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte.

[11] Per la lettura e l’analisi del poema di Ivan Karamazov rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.

[12] «125. L’uomo folle. Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che, nel chiarore del mattino, accendeva una lampada, andava al mercato e gridava incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. Poiché molti di coloro che si trovavano là non credevano in Dio, suscitò una gran risata. “Si è forse perduto?”, disse uno. “Ha smarrito la strada, come un bimbo?”, disse un altro. “O forse si è nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?”. E così gridavano e ridevano insieme. Il folle balzò in mezzo a loro e li trafisse con lo sguardo. “Dov’è andato Dio?”, gridò. “Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come abbiamo fatto? Come siamo riusciti a bere tutto il mare, fino all’ultima goccia? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? Ma in che direzione si muove, adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Lontano da ogni sole? Non precipitiamo sempre più? E all’indietro, di lato, in avanti, da ogni parte? Esistono ancora un sotto e un sopra? Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avvertiamo l’alito dello spazio vuoto? Non fa più freddo? Non scende di continuo la notte, sempre più notte? Non occorre accendere la lampada anche al mattino? Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dèi si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo diventare dèi noi stessi, per essere degni di lei? Non c’è mai stata azione più grande – e chi nasce dopo di noi appartiene, in virtù di questa azione, a una storia più elevata di quanto non sia stata la storia fino ad oggi!”. A questo punto il folle tacque e riprese a osservare i suoi ascoltatori: anch’essi tacevano, guardandolo estraniati. Infine egli gettò per terra la sua lampada, che andò in mille pezzi e si spense. “Sono venuto troppo presto”, disse poi, “non è ancora l’ora. Questo evento enorme è ancora per strada, in cammino, – non è ancora giunto alle orecchie degli uomini. Lampo e tuono hanno bisogno di tempo, la luce degli astri ha bisogno di tempo, le azioni hanno bisogno di tempo, anche dopo essere state compiute, per essere viste e udite. Questa azione è ancora più lontana degli astri più lontani, – eppure sono stati loro a compierla!”. Si dice anche che il folle, quello stesso giorno, sia penetrato in diverse chiese e vi abbia intonato il suo Requiem aeternam deo. A chi lo conduceva fuori e cercava di farlo parlare, rispondeva sempre: “Che cosa sono ormai queste chiese, se non le tombe e i monumenti funebri di Dio?”» (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, traduzione di Francesca Ricci, in Id., Opere. 1882/1895, Newton Compton editori, Roma 2008, pp. 121-122).

[13] Nietzsche conosceva, e bene, Mainländer, ma il suo giudizio sul filosofo di Offenbach era tutt’altro che lusinghiero. Si legga ad esempio il frammento 357 della Gaia scienza: «O forse si dovrebbero annoverare tra i veri Tedeschi dilettanti e vecchie zitelle come Mainländer, il dolciastro apostolo della verginità? Alla fin fine sarà stato un ebreo (tutti gli Ebrei diventano dolciastri, quando fanno del moralismo). Né Bahnsen, né Mainländer, né Eduard von Harmann contribuiscono a rispondere con certezza alla domanda se il pessimismo di Schopenhauer, il suo sguardo atterrito in un mondo divenuto privo di Dio, stupido, cieco, pazzo e dubbio, il suo sincero terrore… non costituisca, lungi da essere un’eccezione rispetto ai Tedeschi, un evento tedesco: mentre tutto quello che per il resto si trova in primo piano, la nostra prode politica, il nostro allegro amor di patria, che decisamente osservano tutte le cose basandosi su un principio poco filosofico («Deutschland, Deutschland über alles»), cioè sub specie speciei, soprattutto la species tedesca, testimonia con grande chiarezza il contrario. No! I Tedeschi di oggi non sono pessimisti! E Schopenhauer, vogliamo ripeterlo ancora una volta, era un pessimista in quanto buon Europeo e non in quanto tedesco» (Ivi, p. 187).

[14] Per un approfondimento sul saggio di Tolstoj rimando all’articolo Guerra e rivoluzione: l’anarchico Tolstoj contro la superstizione statalista.

[15] «Vede», mi diceva dopo un pranzo abbondante in conclusione d’un lungo discorso un grosso signore «vede? la vita ha pure i suoi lati belli. Conviene saperla prendere – non pretender rigidamente ciò che già ha fatto il suo tempo, ma adattarsi ragionevolmente – e godere di ciò che il nostro tempo ci offre che nessun tempo ha mai offerto ancora ai propri figli. Fruire di questa meravigliosa comodità della vita, e cogliere fra la varietà aumentata dei piaceri, di questo e di quello con saggia misura; habere – non haberi, come dicono».
«Lei è un artista!».
«Sì, infatti, credo che sono un artista; non che io scriva o dipinga ma – lei m’intende: artista, artista nell’anima; io ho un buon cuore, pieno di sentimenti gentili coi quali mi rendo poetica ogni situazione e mi faccio bella la vita, mi creo i piaceri…».
«Secondo la sua fantasia…».
«Ma badiamo! non da eccentrico! ma nella via e nel modo come il nostro provvido tempo facili e leciti ce li offre».
«Gaudente, ma uomo di mondo».
«Certo, ma gaudente… intendiamoci! Bisogna concedere un po’ al corpo e un po’ allo spirito. – Oh la poesia e la letteratura sono state sempre la mia passione. Anche la storia! c’è un compiacimento a pensare: “ecco, tutto questo abbiamo fatto noi” e d’altronde constatare la via che s’è fatta per cui la nostra vita s’è evoluta al presente grado di civiltà. È una bella cosa, la storia. – Chissà, se non fossi stato preso nell’ingranaggio amministrativo… – Mah. – Del resto io credo che nel tempo che corre ogni uomo, che voglia camminare col progresso, debba possedere una varia ed eletta coltura umana. Né debba esser del tutto ignaro delle scienze esatte, per le quali siamo i veri signori del creato e nessun mistero sfugge ormai al nostro occhio».
«Ma lei è multilatere!».
«Oh, un dilettante…».
«Lei trova tempo per tutto!».
«Certo! Ma… bisogna aver la coscienza d’aver fatto il proprio dovere. Oh questo sì, sul dovere non si transige. Altro è compiacersi di letteratura, di scienza, d’arte, di filosofia nelle piacevoli conversazioni – altro è la vita seria. Come si direbbe: altro la teoria altro la pratica! Io, come vede, mi compiaccio di queste discussioni teoriche, mi diletto degli eleganti problemi etici e mi concedo anche il lusso di scambiare delle proposizioni paradossali. – Ma badiamo bene – ogni cosa a suo tempo e luogo. Quando indosso l’uniforme vesto anche un’altra persona. Io credo che nell’esercizio delle sue funzioni l’uomo debba esser assolutamente libero. Libero di mente e di spirito. Nell’anticamera del mio ufficio io depongo tutte le mie opinioni personali, i sentimenti, le debolezze umane. Ed entro nel tempio della civiltà a compiere la mia opera col cuore temprato all’oggettività! Allora io sento di portare il mio contributo alla grande opera di civiltà in pro dell’umanità. E in me parlano le sante istituzioni. Dico bene eh?».
«Io ammiro la sua fermezza. – E – lei non pensa ai suoi interessi?».
«Lo stipendio… corre ed è sicuro. E poi, lei sa, gli incerti…».
«Già, già – ma… e poi quando – dio lo tenga lontano – questa sua mirabile fibra sarà affievolita?».
«C’è la pensione: – lo Stato non abbandona i suoi fedeli, – che?».
«Ma – scusi se Le suscito brutte imagini – ma siamo uomini deboli – nel caso di una malattia – sa, ce ne sono tante ora in giro…».
«Niente, niente – appartengo a una cassa per ammalati, come tutti i miei colleghi. Il nostro ospedale ha tutti i comodi moderni e si vien curati secondo le più moderne conquiste della medicina. – Vede?».
«Ah, – vedo! ma – non saprei, i casi son tanti – capisco che siamo difesi dalle leggi – pure – i furti sono all’ordine del giorno».
«Sono assicurato contro il furto».
«Ah! ma… e… metta il caso d’un incendio».
«Assicurato contro il fuoco».
«Perbacco! Ma – un cavallo – scusi, volevo dire: “un automobile” che c’investe; un tegolo…».
«Assicurato contro gli accidenti».
«Ma infine morire – moriamo tutti!».
«Fa niente, sono assicurato pel caso di morte».
«Come vede», aggiunse poi trionfante, sorridendo del mio smarrimento, «sono in una botte di ferro, come si suol dire».
Io rimasi senza parole, ma nello smarrimento mi lampeggiò l’idea che il vino prima d’entrar nella botte passò sotto torchio (Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, pp. 137-140).

[16] Roberto Calasso, Accompagnamento alla lettura di Stirner, in Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 415.

[17] Ivi, p. 426.

[18] Si tratta fondamentalmente della sostanziale differenza che anch’io ho tentato di rappresentare, nell’operetta tumorale Passione.

[19] Roberto Calasso, Accompagnamento alla lettura di Stirner, op. cit., pp. 426-427.

[20] Ivi, pp. 404-405.

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