«la letteratura è un tristo e secco mestiere».
Scipio Slataper

Pubblicato nel 1912 nelle edizioni della «Voce», di cui l’autore è un assiduo e strenuo collaboratore, Il mio Carso di Scipio Slataper s’impone come una delle opere più significative di quella linea espressionista italiana sviluppatasi attorno alla rivista fiorentina, e che ha in Piero Jahier [1], Clemente Rebora [2], Giovanni Boine [3] e Camillo Sbarbaro [4] gli altri, più significativi esponenti.
È un’intima e irriducibile esigenza morale, accostabile a quella di un altro grande protagonista della stagione filosofico-letteraria italiana – e non solo, come evidenzia giustamente Thomas Harrison nel saggio 1910. L’emancipazione della dissonanza [5] -dell’epoca, che personalmente considero la vera e propria età dell’oro dell’alternativa letteraria italiana [6], Carlo Michelstaedter [7], a imprimere alla scrittura slataperiana lo stigma dell’Espressionismo: la scrittura deve finalmente liberarsi di quel manto d’insufficienza, di teorica insufficienza, che la riveste da secoli, dal tradimento, dall’abbandono della via socratica da parte di Platone e Aristotele, prendendo come punto di riferimento le coordinate michelstaedteriane fornite ne La persuasione e la rettorica, e farsi azione pratica, dunque raggiungere la forza incidente e impattante del gesto. Per ottenere ciò, Slataper «lavora soprattutto sulla sintassi, slegando e torcendo, raccorcia la frase per ottenere concitazione e mima l’esuberanza con continui sbalzi associativi» [8]. Alla base di un’intenzione e azione letteraria di questo tipo, vi è un’intima, viscerale insoddisfazione dell’autore nei confronti della società che gli è toccata in sorte, quella società borghese dominata dall’interesse, da pregiudizi e luoghi comuni che vanno a comporre la ragnatela di convenzioni regolatrice dei legami interpersonali: «la pesante ottusità imbecille non lascia altra scelta dello “strappo”: bisogna separare, tagliare, squarciare, e addirittura dentro la propria stessa interiorità, per eliminare il solidificarsi dei falsi significati, le concrezioni delle definizioni inerti; anche se questa crudele chirurgia potrà produrre effetti orrorifici e rendere perturbante l’immagine di sé resa dallo specchio» [9].
Il mio Carso è caratterizzato, tra le altre cose, dall’opposizione tra barbarie e civiltà, ma con i valori, i giudizi di questi due termini completamente ribaltati rispetto alle canoniche, tradizionali, convenzionali percezioni: è la barbarie a imporsi come il polo positivo, incarnato nell’immagine della natura selvaggia e incontaminata del Carso, opposto alla civiltà, il polo negativo che trova nella città, nell’ambiente cittadino sterile e malsano, la sua ideale rappresentazione. E il protagonista dell’opera, Scipio, Slataper stesso naturalmente, si trova ad oscillare tra questi due poli, barbaro, liberamente barbaro nella prima fase della sua vita, l’infanzia, sempre più uomo civilizzato con il passare degli anni, costretto a lasciare il suo Carso per immergersi nella dimensione cittadina, triestina o fiorentina che sia (Slataper, come Michelstaedter, si iscrive all’università di Firenze e qui si laurea, con una tesi su Ibsen [10] che ancora oggi resiste come il maggior capolavoro critico italiano dedicato al drammaturgo norvegese).
Il mio Carso, con l’uso dell’aggettivo possessivo che cancella da subito ogni possibile implicazione impressionistica, potenzialmente veicolata dall’indicazione paesaggistica, concentrando l’attenzione sull’interiorità, sulla soggettività dell’autore, secondo la necessità espressionistica per eccellenza, Il mio Carso, dicevo, si apre proprio nel segno dell’opposizione barbarie vs civiltà, con Slataper che fantastica sulle proprie origini (emblematica l’anafora «Vorrei dirvi», ripetuta tre volte), concludendo però con amarezza: «Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v’ascolto disinteressato e contento, e non m’accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell’angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa libertà; ai veri amici miei che m’amano e mi riconoscono in una stretta di mano, in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni» [11]. La critica di Slataper della civiltà non risparmia nessuna sua manifestazione, e così neppure la cultura, con l’impegno letterario che viene riconsiderato nei termini di una sua decisa e coraggiosa svalutazione, come indicato con chiarezza dalla citazione posta in esergo a questo articolo. Del resto, è quanto emerge dall’impegno giornalistico di Slataper sulle colonne della «Voce». Slataper rifiuta con asprezza, con acredine quel processo di poetizzazione, di versificazione, di rettoricizzazione in definitiva, della vita veicolato da tanta letteratura di marca dannunziana, esortando la propria generazione ad una «crudele» autocensura, anche se questo sforzo dovesse portare a rivolgere la famigerata e implacabile frusta del barettiano Aristarco Scannabue contro se stessi. Ristretto, anzi, ristrettissimo, asfissiante è il mondo dei «letteratucci», come li etichetta Slataper, a tal punto che «comincia a puzzare». Meglio, molto meglio rivolgersi alla «realtà d’oggi», con analitica e scabra attenzione, sgombrando il campo da ogni velleità poetica e sentimentale: «Tanti brutti versi di meno» [12], conclude Slataper in perfetta sintonia con l’intenzione del fondatore della «Voce», Giuseppe Prezzolini, di affrontare argomenti attuali di portata sociale, lasciando da parte la letteratura, messa poi al centro della rivista da De Robertis, con la nascita della cosiddetta “Voce bianca”.
Scipio fanciullo, protagonista della prima parte dell’opera, ha un rapporto diretto, intimo, originario, primordiale, ancestrale quasi, con la propria terra; un legame da barbaro, appunto, lo lega al suo Carso:
«Mi conosceva la terra su cui dormivo le mie notti profonde, e il grande cielo sonante del mio grido vittorioso, quando sobbalzando con l’acque giù per i torrenti spaccati o franando dai colli in turbine di lavine e terriccio, d’un colpo di piede rompevo la corsa per cogliere il piccolo fiore cilestrino.
Correvo col vento espandendomi a valle, saltando allegramente i muriccioli e i gineprai, trascorrendo, fiondata sibilante. Risbalestrato da tronco a frasca, atterrato dritto sulle ceppaie e sul terreno, risbalzavo in uno scatto furibondo e rumoreggiavo nella foresta come fiume che scavi il suo letto. E dischiomando con rabbia l’ultima frasca ostacolante, ne piombavo fuori, i capelli irti di stecchi e foglie, stracciato il viso, ma l’anima larga e fresca come la bianca fuga dei colombi impauriti dai miei aspri gridi d’aizzamento.
E ansante mi buttavo a capofitto nel fiume per dissetarmi la pelle, inzupparmi d’acqua la gola, le narici, gli occhi e m’ingorgavo di sorsate enormi, notando sott’acqua a bocca spalancata come un luccio. Andavo contro corrente abbrancando nella bracciata i rigurgiti che s’abbattevano spumeggianti contro il mio corpo, addentando l’ondata vispa, come un ciuffo d’erba fiorita quando si sale in montagna. E l’ondata mi strappava giù a scossoni, voltolandomi nella correntìa e mi rompevo sul fondo ripercotendomi al sole, strascinato per un tratto sulle erte rive, fra radici e sassi invano inghermigliati. Poi m’affondavo, e carrucolandomi per gli scogli rimontavo sfinito la corrente.
Il sole sul mio corpo sgocciolante! il caldo sole sulla carne nuda, affondata nell’aspre eriche e timi e mente, fra il ronzo delle api tutt’oro! Allargavo smisuratamente le braccia per possedere tutta la terra, e la fendevo con lo sterno per coniugarmi a lei e rotare con la sua enorme voluta nel cielo – fermo, come una montagna radicata dentro al suo cuore da un’ossatura di pietra, come un pianoro vigilante solo nell’arsura agostana, e una valle assopita caldamente nel suo seno, una collina corsa dal succhio d’infinite radici profondissime, sgorganti alla sommità in mille fiori irrequieti e folli.
E a mezzo mese, nell’ora in cui la luna emerge dal lontano cespuglio e si fa strada fra le nubi, candida e limpida come un prato di giunchiglie in mezzo al bosco, io mi sentivo adagiato in una dolce diffusità misteriosa, come in un tremor di quieto sogno infinito».

Ma questo rapporto profondo, viscerale con la terra – «Conoscevo il terreno come la lingua la bocca» – non porta ad una sua idealizzazione, anzi. Forse grazie anche alla mediazione leopardiana, e mi riferisco al celebre pensiero del giardino raccolto nello Zibaldone [13], Scipio è perfettamente consapevole delle sofferenze che segnano la terra, e di fatto ogni vita, che sia umana, animale o vegetale: «la terra ha mille patimenti. Su ogni creatura pesa un sasso o un ramo stroncato o una foglia più grande o il terriccio d’una talpa o il passo di qualche animale. Tutti i tronchi hanno una cicatrice o una ferita. Io mi sdraiavo bocconi sul prato, guardando nell’intorcigliamento dell’erbe, e a volte ero triste». Della campagna Slataper non costruisce affatto una visione idealizzante, pacifica e del tutto rasserenante, sebbene essa rappresenti l’alternativa positiva all’innaturale ingessamento cittadino. Ma si tratta di una riflessione estemporanea. Solo a volte il giovane Scipio è triste pensando, osservando il destino di dolore di tutte le vite. La maggior parte del tempo si gode appieno, senza affanni, la sua perfetta integrazione, da bestiolina, con il paesaggio, di cui egli stesso è una creatura indigena, barbara, di nuovo:
«Le mie mani sapevano le fonde spaccature estive dove lo zinzino occhieggia all’orlo con le sue lunghe antenne, e basta un fuscello o un soffio a farlo tracollar dentro; i muriccioli di sabbia con cui il filo d’acqua s’argina maestosamente; e seducevo la formica carica a salir su una larga foglia di platano per deporla cautamente al li là dell’alpe. Tutto m’era fraterno. Amavo le farfalle in amore impigliate nella trama nerastra del rovo, sbattenti disperatamente le ali in una pioggia di bianco pulviscolo, il bel ragno vellutato dalle secche zampe che sfilava nell’aria tremula il suo filo argentino perché s’incollasse sulla peluria uncinata di una foglia, e tentava con la zampina il filo per slanciarvisi dritto e tessere l’elastica tela. Ronzava disperata nel mio pugno la mosca colta a volo; accarezzavo il bruco liscio e fresco che si raggrinzava come una fogliolina secca; tenevo avvinta per le grandi ali cilestrine la libellula; affondavo il braccio nell’acqua per sollevar di colpo in aria il rospicino dalla pancia giallonera; tentava di ritorcersi l’addome della vespa contro le mie dita e partorirvi il pungiglione. Squarciavo a sassate le biscie.
Sorridevo agli sbalzelli alati dei moscerini, tagliati dal colpo imperioso d’una mosca smeraldina, al pispillare roteante delle rondini, alle nuvole che si trastullano nella luce, rabbrividenti pudiche sotto le fredde dita curiose del vento, alla foglia navigante con rulli e beccheggi nell’aria, alle stelle germoglianti nel cielo quando col vespero si diffonde sul mondo un tepore leggero come fiato primaverile.
Scivolando negli arbusti, tenendomi agganciato al masso dirupante con due dita artigliate in una ferita muscosa della pietra, palpeggiando e sguazzacchiando con la palma aperta sull’orlo degli stagni, andavo spiando la nascita della primavera. Nel nascondiglio più benigno del boschetto, in un calduccio umido di seccume, ancora ancora quasi riscaldato dal sonno d’una lepre, io frugando trovavo la prima primola, il primo raggio di sole! l’occhio stupito della piccola primavera svegliata! E seguivo l’ondeggiar lieve del suo passo, annusando come cane in traccia, fra radici gonfie e germogli diafani, dietro un alioso sbuffo di rugiade erbose, di terra umida, di lombrichi, di succhi gommosi; un odor di latte vegetale, di mandorle amare – eccolo qui il sorriso roseo dei peschi, incerto com’alba invernale, cara, cara! e scuoto freneticamente questo tronco e quello e questo, spargendomi di petali e di profumi. Per terra schizzano violacee pozzerelle d’acqua, il passerotto vi frulla con le ali, a becco aperto. Dolce amata mia, primavera!».
L’opera è attraversata dal pensiero costante all’Italia, per Slataper come per Michelstaedter patria ideale più che effettuale, e tutt’altro che barbara ormai, tristemente domata, ammansita, ammaestrata come un animale domestico: «Povero sangue italiano, sangue di gatto addomesticato. È inutile appiattarsi e guatare e balzare con unghioni tesi contro la preda: la polpetta preparata è ferma nel piatto. Tu sei malato d’anemia cerebrale, povero sangue italiano, e il tuo carso non rigenererà più la tua città. Sdraiati sul lastrico delle tue strade e aspetta che il nuovo secolo ti calpesti». Slataper pensa all’Italia e il suo sangue salutare si riscalda, ribolle; la sua scrittura assume il tono aggressivo e implacabile dell’invettiva dantesca. Emerge in queste righe vibranti il ricordo nostalgico delle eroiche imprese garibaldine, risorgimentali, che cozzano clamorosamente con il presente sciatto, caratterizzato dalle ridicole guerre coloniali, inutili celodurismi borghesi contro i quali Lucini, in quello stesso periodo, scaraventa le sue revolverate [14].
Il giovane Scipio cresce, diventa uomo, e la prima parte del Mio Carso si conclude con la sua discesa dall’amato e fraterno monte Kal e l’approdo in città, dove «Nessuno si fida di nessuno, benché tutti salutano tutti». Oppresso, rimpiangendo la pur inevitabile discesa, Scipio s’infila nella più lurida e malfamata taverna della città vecchia di Trieste, e qui, inaspettatamente, sgorga nel suo cuore un impeto rivoluzionario che gli infonde una nuova energia, una nuova forza vitale: «Accanto a me due figuri con la giacca buttata sulla spalla e la camicia blu parlano d’una brocca di stagno, come fu rubata. Altri schiamazzano e cantano. Bene. Niente è qui strano, e tutto è duro e definito come gli spigoli del carso. S’io dò un pugno sul muso di quel facchino, lui mi tira due pugni. S’io faccio la filantropia schiave-bianche a quella donna, essa mi risponde dandosi una manata sul culo. Sono tra ladri e assassini: ma se io balzo sul tavolo e Cristo mi infonde la parola io con essi distruggo il mondo e lo riedifico. Questa è la mia città. Qui sto bene».
Da barbaro Scipio diviene studente, giornalista, scrittore, cittadino: «Com’è triste il piccone e la vanga nel terreno battuto della città! Si lavora senza che nessuno vi possa seminare». Più Scipio si stacca dalla sua terra, dal suo Carso, più il rapporto con la realtà si complica, assumendo una valenza spiccatamente espressionistica. Vivida dimostrazione ne sono queste righe, in cui Slataper confessa d’aver pensato al suicidio, tema prepotente del libro e tra poco scopriremo il perché:
«L’anima mi s’era ormai coagulata per il gocciare della vita inacidita, rabbiosa, negatrice, e mi corrose in rughe la faccia, incassandosi una tana nelle occhiaie.
Non vedevo più le cose, e diedi di cozzo senza sapere in spigoli acuti onde gli altri mi credettero un eroe. Io andavo per la strada già scavata, disgustoso a me stesso, desiderando che qualcuno mi bastonasse a morte.
Una volta anche mi proposi d’uccidermi, ma davanti allo specchio non potei ammazzare l’essere maligno e ironico che mi guardava. La donna che m’amava non torse il viso, mi si avvinghiò nervosamente al collo e tentò con tutta la sua anima di darmi un bacio; ma le sue labbra non aderirono sulle mie».
Anche quando è a Firenze Scipio cerca la solitudine e la purezza della natura incontaminata. Cammina, s’arrampica, cerca un surrogato del suo Carso, e tra gli alberi, immerso nei boschi, lo visitano pensieri che mettono a nudo tutta la distanza tra un passato quasi mitico, selvaggio, primitivo, barbaro, e un presente artificioso e ingessato, tiepido (ricordate le parole di Tichon a Stavrogin nei Demòni? «Voi non avete voluto essere soltanto tiepido» [15], ebbene, credo che si attaglino alla perfezione a Slataper, a Michelstaedter, a Lucini, a Campana [16] e a tutte quelle altre grandi personalità alternative che segnano il primo Novecento italiano): «Ah, ah, in questo momento qualcuno esce dalla redazione d’un cotidiano e va a dormire! Venite a bever l’alba sui monti!», e non può che tornare di nuovo in mente l’avversione dell’autore nei confronti dei «letteratucci».

Il rapporto con la realtà si complica nella seconda parte dell’opera; finisce per sfasciarsi completamente nella terza e ultima, dopo il suicidio della donna amata, Anna Pulitzer, sparatasi un colpo di pistola davanti allo specchio. Thomas Harrison riassume così il rapporto tra Scipio, Anna (la Gioietta a cui dedica Il mio Carso), Elody Oblath e Luisa Carniel (Gigetta), la futura moglie di Slataper:
Uno dei più insoliti intrecci sentimentali registrati nel 1910 ha luogo tra Scipio Slataper e le sue tre amiche triestine, note come Anna, Elody e Gigetta. La prima amicizia è erotica, la seconda platonica, la terza sfocia nel matrimonio. Tuttavia, prima che ciascuna relazione fiorisca nella sua particolare dimensione, Slataper non è in grado di distinguere con chiarezza fra le tre giovani. Già avvertiamo le complessità che accompagneranno questa situazione ambigua quando il pensatore ventunenne scrive la sua prima lettera alle tre donne, nel gennaio del 1910. Indirizzata a nessuna in particolare, le coinvolge tutte in quell’unica identità che Slataper nomina: la sua. «Ah, voi che mi siete a momenti tanto vicine», scrive, «ch’io mi sento tremar dentro per la gioia, e poi lontane, perse in ombre che io non posso solidificare in corpo… Sorelle della mia anima più buona, s’io dubito di voi dubito di me. Chi siete voi? In questo momento non vi vedo. Ma scrivo come per abbrancare la mia anima che fugge». Egli non vede queste donne, ma scrive loro nel tentativo di afferrare la propria anima in fuga. Nella seconda lettera di Slataper, poche settimane più tardi, le «sorelle della sua anima» hanno acquisito un’individualità, come si evince dall’intestazione ad «Anna. Elody. Gigetta». La lettera comincia isolandone una: «Sto pensando a te, Anna… È stranissimo che noi si camminasse vicini, che io ti abbia guardato una volta anche negli occhi… e non t’abbia vista e tu non abbia visto me. Nessuna donna mi vedeva». Dopo essersi lamentato con Anna delle sue anonime disavventure amorose, si rivolge a Elody, rendendo chiaro che le parole precedenti erano destinate anche a lei. «E da tre anni, forse anche da sempre, son solo, Elody». Per quanto possa essere distante nello spazio (lui è a Firenze, loro a Trieste), Slataper assicura alle donne di averle completamente assorbite nel proprio essere. «Anche voi, non esistete realmente per me, di vostra vita, ma siete in me». Questa tendenza a incorporare le identità altrui nella propria «anima migliore» (che in realtà corrisponde alla ricerca della propria anima, e attraverso la scrittura più che con relazioni interpersonali) è tipica dell’epoca.
Nel parlare del suo essere accogliente ma solitario, Slataper sta in effetti facendo una sorta di ouverture romantica: «Ma sono solo. In tutta la mia vita pochissime volte ho sentito che uno, fuori di me, m’ha aiutato ad avere una vittoria. Forse se io veramente potessi riposare per qualche minuto sull’anima di una donna, che potesse penetrarmi dentro, vivrei un momento in compagnia». Questa riflessione melanconica è nel contempo un appello: «Ma pure qualche volta penso con gioa immensa che una donna (ma chi?) mi potrebbe dare la parte che mi manca del mondo: la maternità umana: cioè il più profondo, la verità unica della vita». Con la sua confessione, Scipio allerta ognuna delle tre donne, che comprende nel profondo del proprio animo quale sacrificio gli sarebbe richiesto per dar vita a un legame d’intimità. Per cedere alla gioia che desidera, dovrebbe smettere di essere la persona che gode della loro stima: «In quel momento non sarei poeta, non sarei eroe, non sarei vivo, magari; ma riposerei uomo. Sai cosa vuol dire non esser mai uomo, semplice, che carezza senza aver l’idea della carezza, che ama e non sa d’amare?».
Il richiamo risulta irresistibile. Anna diventa la sua amante (secondo i criteri del tempo, naturalmente; è improbabile che tra i due ci sia stato molto più che uno scambio di baci). Elody diviene la compagna di viaggio di Scipio e lo aiuta «nel suo lavoro, ricopiandogli i manoscritti e correggendogli le bozze». Con Gigetta si sposa nel 1913. La relazione più interessante, tuttavia, è quella con Anna, che Slataper soprannomina Gioietta – non da ultimo perché va incontro a una conclusione violenta e inspiegabile proprio nel suo momento di massima intensità. Senza alcun segno premonitore, il 2 maggio 1910 Gioietta si toglie la vita, lasciando Slataper a esprimere il suo dolore e la sua incomprensione in una serie di lettere indirizzate alla tomba di lei.
Il suicidio ha luogo dopo il fallimento di un appuntamento segreto tra i due amanti a Firenze. In una sua visita a Trieste, nell’aprile del 1910, Slataper si era accordato con Gioietta affinché lo raggiungesse a Firenze, dove viveva. Lei arriva il 27 aprile, ma i due non riescono a incontrarsi. Scipio non è neanche sicuro che sia effettivamente giunta.
Gli eventi che conducono a questi incidenti di comunicazione sono riportati in una breve nota del curatore Giani Stuparich:Gioietta è arrivata realmente. Sono a Firenze, l’uno aspetta l’altra, si cercano e non si trovano. Malintesi fanno sì che Gioietta, che non ha libertà di muoversi perché accompagnata, attenda Scipio sotto le finestre dell’albergo. E Scipio attende Gioietta nella sua stanza. Finalmente il 28 mattina lei si risolve a farsi accompagnare da Scipio, lo vede un attimo, l’automobile è giù che l’aspetta, fa appena in tempo a prender le cartelle ch’egli ha scritto per lei, e a ripetergli di venir sotto l’albergo. Ma Scipio nella commozione e nella fretta, fraintende, pensa che lei gli abbia promesso di ritornare e l’aspetta tutto il pomeriggio del giorno stesso, inutilmente. Il giorno dopo, il 29, Gioietta ricompare con la stessa ansia frettolosa; non s’intendono ancora. Si rivedono la mattina del 30, alla mostra degli impressionisti e di M. Rosso, ma tra molta gente. Gioietta lo avverte che sarà a cena nella trattoria «Lapi». Anche questo invito a vederla soltanto, senza poterle parlare da solo a solo, umilia e confonde Scipio, che quella sera si lascia trascinare dagli amici in un altro posto. E così Gioietta parte da Firenze, prende il vapore a Venezia per Trieste, vi arriva alla mezzanotte del 1° maggio; il 2 mattina si uccide con un colpo di rivoltella, davanti allo specchio.
Gioietta accompagna il suo gesto estremo con un ultimo ambiguo messaggio:
Scipio ti bacio in eterno. Questo sarà per la tua opera. Io l’aspetto.
Tu non esser mai disperato, sono sicura che m’ami e che sentirai quanto sono ferma. Ti do il mio cuore e tutta me.
Tu non venire a vedermi perché non voglio che ti conoscano. Scipio caro. Solo non voglio che ti parlino né tu con loro. Prego prego. Sii sempre Scipio. Arrivederci. Vengo da te per sempre.Anche Scipio trova più semplice esprimersi con la scrittura – in cinque lunghe lettere a Gioietta e in altre su di lei a Elody e Gigetta. Una di queste risponde al biglietto di addio direttamente: «Sì, Gioietta. Ora ho letto, e sento veramente pace, e posso pensare che lavorerò […]. Ora proprio ti posso dire: stai quieta, Gioietta. Scriverò l’opera che attendi e te la darò: Gioietta». Dello stesso tenore è la dedica dell’opera a cui Sltaper si sta riferendo, l’autobiografia lirica per cui è più conosciuto, iniziata prima della morte di Anna e pubblicata nel 1912 con il titolo Il mio Carso. Ma il senso di colpa che alimenta la scrittura non può essere cancellato. «Io posso far l’opera», scrive Slataper nel settembre del 1910, «ma son stato incapace di far vivere Gioietta. Io ero l’unico che lo potesse. Ed è inutile che sfugga: questo è più che rimorso» [17].

In questa terza parte dell’opera, dedicata ai giorni successivi alla tragedia, «le immagini percepite prendono a girare, prive di baricentro, attorno al vuoto di un senso perduto. L’io, diventato étranger alle cose, ne allucina il contorno “duro e definito”, privo di comunicazione e carico di urtante ostilità. Sono qui le pagine dotate di maggiore deformazione espressionista, da incubo. Anche il linguaggio denuncia, a questo punto, la sua impotenza a penetrare il “mistero” della persona» [18]. Eppure, è proprio ora, che le «mani del giovane barbaro sono diventate bianche e deboli come le mani delle femmine», ora che non è più possibile fondersi «dentro quest’ora calda in cui una divina certezza d’amore freme da foglie e tronchi e fiori e uccelli e sole», ora che la penna arranca claudicante, zoppicante per una realtà distorta e inafferrabile, è proprio ora, dicevo, che l’autore in poche righe spezzate, frante, fornisce la più viva e penetrante descrizione del Carso, in cui compare quel grido che è elemento caratterizzante dell’Espressionismo e riecheggia innumerevoli volte all’interno dell’opera:
«Il carso è un paese di calcari e di ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi.
Lunghe ore di calcare e di ginepri. L’erba è setolosa. Bora. Sole.
La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato.
Grotte fredde, oscure. La goccia, portando con sé tutto il terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni, e ancora altri centomila».

A poco a poco, pagina dopo pagina, Scipio si costringe a tornare alla vita, sebbene niente sia più come prima dopo quel maledetto colpo di rivoltella che ha spezzato la giovane vita di Gioietta, sebbene dentro di sé ci sia solo rassegnazione e silenzio e il dolore e la gioia appaiano vane, sebbene all’interno del cervello – non il cuore, non l’anima, ma il cervello – un «grumo sanguinoso» impedisca di «pensare liberamente», fino alle parole che suggellano Il mio Carso e che risuonano come una solenne promessa, fatta in primis a se stesso, ma anche al mondo intero: «Noi vogliamo amare e lavorare». Il libro si conclude dunque con l’espressione di una volontà, e non solo personale, ma collettiva, di piacere e utilità, spazzata via con violenza e ferocia di lì a pochi anni dalla guerra: Scipio Slataper parte volontario ed è tra i primi caduti, insieme al collega vociano Renato Serra [19], sul Podgora. Di quella promessa d’amore e lavoro che conclude Il mio Carso ed è la promessa di un’intera generazione, la Storia se ne frega, come se non fosse stata mai pronunciata.
NOTE
[1] Per un approfondimento sull’autore del diario di guerra Con me e con gli alpini rimando all’articolo Piero Jahier – Un uomo. Un soldato. Uno scrittore.
[2] Per un approfondimento sul poeta milanese rimando all’articolo I «Frammenti lirici» di Clemente Rebora: versi nati in odio alla poesia.
[3] Per un approfondimento sul critico e scrittore ligure rimando all’articolo Giovanni Boine – Un’intensa riflessione religiosa, figlia di una tracotante sete di trascendenza.
[4] Per un approfondimento sul poeta ligure rimando all’articolo Camillo Sbarbaro: «Pianissimo», fino al silenzio.
[5] Per un approfondimento sul saggio rimando all’articolo Thomas Harrison: 1910. L’emancipazione della dissonanza.
[6] Per un approfondimento sull’argomento rimando all’articolo La parola luminosa. Per una storia dell’alternativa letteraria italiana del primo Novecento.
[7] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.
[8] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, NIS, Roma 1986.
[9] Ivi.
[10] Per un approfondimento sul drammaturgo norvegese rimando agli articoli Henrik Ibsen, I pilastri della società, Casa di bambola, Spettri, La casa dei Rosmer, La donna del mare, Hedda Gabler.
[11] Le citazioni sono tratte da Scipio Slataper, Il mio Carso, a cura di Giani Stuparich, Mondadori, Milano 1958.
[12] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, cit.
[13] «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. [4176] Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna. 19. Aprile. 1826.). Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri [4177] sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, pp. 898-899).
[14] Per un approfondimento sul poeta milanese rimando all’articolo «Revolverate»: la strage – premeditata – di Gian Pietro Lucini.
[15] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 748.
[16] Per un approfondimento sul poeta di Marradi rimando all’articolo I «Canti Orfici» di Dino Campana: nella poesia, come nella vita, il trionfo dell’irregolarità.
[17] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, traduzione di Marco Codebò e Federico Lopiparo, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 85-88.
[18] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, cit.
[19] Per un approfondimento sul critico rimando all’articolo Renato Serra, la guerra «non cambia nulla».