«Stava bene sul letto, con gli occhi chiusi».
Scritto nel 1913, durante il cosiddetto “sessennio di Castagneto”, e pubblicato sei anni più tardi, nel 1919, il romanzo Con gli occhi chiusi è una pietra miliare non solo della produzione del suo autore, il senese Federigo Tozzi, ma, ampliando lo sguardo, dell’intera storia della letteratura italiana del primo Novecento, quella che considero l’età dell’oro dell’alternativa letteraria italiana [1]. Come in molte, se non addirittura tutte, le opere di Tozzi, la vicenda umana dello scrittore finisce per erompere, straripare sulla pagina e segnare in modo indelebile la narrazione: così Pietro, il protagonista di Con gli occhi chiusi, compie le stesse esperienze biografiche compiute da Tozzi in giovinezza, così Domenico Rosi, proprietario della nota trattoria senese Il pesce azzurro e di un podere, padre di Pietro, assume i tratti caratteriali spigolosi, acuminati del padre di Tozzi. Un rapporto estremamente complesso e conflittuale quello tra lo scrittore e il proprio genitore, paragonato a quello tra Kafka [2] e suo padre, e che si riflette in modo prepotente nella narrativa tozziana, imponendosi come una delle tematiche dominanti, con la quale, per forza di cose, ci si ritrova a fare i conti.
L’esperienza narrativa, letteraria di Federigo Tozzi ha davvero una valenza europea, come le coeve esperienze narrative, letterarie dei ben più celebri Svevo [3] e Pirandello [4]. In essa i moduli tipici della letteratura verista, come ad esempio l’attenzione all’universo contadino, si fondono con le nuove esigenze imposte dal romanzo europeo, caratterizzato dall’esplorazione interiore e dalla mancanza di fiducia nei confronti della razionalità positivista. La narrazione, come accade negli esiti letterari alternativi dell’epoca, e si pensi soprattutto alle avventure d’avanguardia, approda così a soluzioni visionarie, surreali, fissate sulla pagina attraverso il ricorso ad una scrittura spiccatamente espressionista, in cui i dati reali, gli elementi paesaggistici, materiali e antropologici vengono sovraccaricati in modo tale da rovesciare il tradizionale rapporto con essi, in direzione di un’esplorazione di quell’altrove che di fatto rappresenta e rivela una maniera nuova, alternativa appunto, di relazionarsi all’esistenza, mettendo al centro l’interiorità dei protagonisti, la loro coscienza. Che gli occhi siano chiusi, come quelli di Pietro, o drammaticamente spalancati, recisi quasi, come quelli del padre Domenico o della contadina Ghìsola, la realtà appare come trasfigurata dalla soggettività dei personaggi, resa ancor più feroce e crudele, violenta pur nella sua accezione campestre, che non ha niente di poetico o di ideale, ma viene ricondotta alla sua dimensione originaria, prima e ultima, nonostante i tentativi edulcoranti e idealizzanti, di lotta per la sopravvivenza e d’istinto di conservazione.
Ciò che colpisce leggendo Con gli occhi chiusi, o, quantomeno, ciò che più ha colpito me, è l’assoluta relatività dei rapporti umani, anche, e soprattutto, quelli familiari. Di fatto, tutti i personaggi sono immersi in una condizione di solitudine irriducibile, invincibile, atavica. Tra di loro dialogano, certo, ma non comunicano. Parlano, ma non si comprendono, non possono comprendersi, ognuno naufrago di se stesso e soprattutto Pietro, dotato, per sua sfortuna, di una sensibilità e di una tendenza al sogno, alla fantasticheria, che lo rendono un uomo fuori di posto, ovunque si trovi o provi ad inserirsi. E Pietro per suo padre Domenico, rude e abilissimo negli affari, non è che un uomo come tutti gli altri, un estraneo, fondamentalmente:
«Ad un tratto, come un’insinuazione a tradimento, capì che anche egli era come un’altra persona qualunque.
E allora, sarebbe stato meglio che non gli fosse nato. Perché gli era nato? Meglio non parlargli più, sopportando che camminasse accanto, in silenzio, magari a testa bassa, fino a battere sul lastrico» [5].
Pietro, che trova, in relazione ai maltrattamenti paterni, il «modo di resistere, subendo tutto senza mai fiatare», si rifugia nella politica, entra nel partito socialista e fonda persino un circolo giovanile. Ma dura poco, e il suo socialismo diviene intellettuale: «Egli non aveva più la fede con la quale una volta voleva convertire gli altri; ma adoperava la moralità socialista per i suoi sentimenti». Il suo vero rifugio allora, oltre al sogno, diviene l’amore, coltivato sin dall’adolescenza, per Ghìsola, contadina nipote di Giacco e Masa, allontanata da Domenico dal podere di Poggio a’ Meli proprio per il suo rapporto ambiguo con il figlio. Giovane moralmente d’altri tempi, Pietro, oltre alla bellezza, in una donna cerca onestà, quell’onestà che Ghìsola non può garantirgli. Ghìsola infatti, dopo aver lasciato Poggio a’ Meli, si concede, quindi diviene la mantenuta di un commerciante, impiegandosi infine in una casa chiusa. Ed è proprio all’interno del postribolo che si conclude il romanzo, con Pietro che si avvede finalmente della gravidanza di Ghìsola, celatagli fino a quel momento. E così per Pietro naufraga anche la possibilità dell’amore e del matrimonio: «Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai piedi di Ghìsola, egli non l’amava più». Sono queste le parole emblematiche che suggellano il romanzo. Perché in Con gli occhi chiusi Tozzi rappresenta un mondo del tutto privo di amore, un mondo rude e spigoloso come Domenico Rosi, che, con la sua mole ingombrante, di scaltro trattore, schiaccia il figlio Pietro anche quando i due sono distanti chilometri.
Nel romanzo padre e figlio non arrivano mai alle mani, anche se, in alcuni casi, ci vanno davvero vicini. Ma c’è un racconto breve, rimasto inedito e pubblicato solo nel 1963, in cui Domenico Rosi, di nuovo marito, come del resto il padre dell’autore, risposatosi presto dopo la morte della prima moglie, si lancia contro Pietro e lo pesta a sangue. Un testo che si collega direttamente al romanzo, rappresentando di fatto una conclusione alternativa, ben più violenta di quella ufficiale e ancor più esemplificativa, forse, di quella assoluta relatività dei rapporti umani che colpisce come un pugno nello stomaco leggendo Con gli occhi chiusi.
«Pietro, senza salutare alcuno, s’era posto a sedere, presso la tavola apparecchiata anche per lui. Egli era sopra un canapé, dietro una ventosa senza vetri e con una tendina. In cima alla tavola era il padre, che già finiva di mangiare, e, presso, erano due girovaghi, moglie e marito, di Venezia.
Quando egli si fu posto a sedere, trasse di tasca un libriccino e lo aprì sopra una parte del tovagliolo. Ma non leggeva: osservava, di sott’occhio, il padre. Il quale fece una smorfia nella bocca.
Il cameriere della trattoria attraversava la stanza per andare in cucina a portare i piatti dalle sale signorili. La moglie del padrone era matrigna a Pietro, e stava in una poltrona tutta circondata di cuscini di molti colori. Una bambina, che gli era cugina, sedeva sopra uno sgabello e faceva una calza bianca. Il lume della lampada a petrolio le produceva un luccichio d’oro nei suoi capelli biondi. E Pietro le guardava il viso pensoso e grosso, dagli occhi ceruli, il quale era attento alle dita, che si muovevano nell’ombra.
Il padre finse di chiamare il cuoco:
– Porta da mangiare al principe! Ha furia!
Pietro, che entrava sempre con l’anima preparata, ebbe come un piccolissimo sussulto.
Ma la moglie del girovago gli disse:
– Padroncino, ha fatto una camminata?
Egli la guardò. Ella aveva i capelli neri, quasi lucenti, e il viso grasso e sensuale. Una delle mani piccole sorreggeva la forchetta, ch’ella picchiettava sulla tavola.
E il marito di lei sorrise. Aveva fatto il pagliaccio in uno di que’ circhi equestri che muoiono di fame. Onde conservava nel volto certe sfumature insipide di quel mestiere.
E Pietro ebbe un senso di tristezza.
Intanto, il cuoco gli aveva portato la minestra in brodo. Pietro notò a lui le mani callose e un poco tremolanti; il collo magro e il volto quasi malato, che aveva gli occhi spenti. Puzzava d’acquaio, e dal grembiule sporco vennero misti odori di pesce e di cipolla.
Pietro mangiò.
I due girovaghi narravano al padrone della trattoria i loro guadagni. Avevano un tiro a segno al passeggio pubblico. Ed erano arrivati da un paese prossimo.
– Che freddo ci fa sotto a quella baracca! – egli esclamò. E la moglie sua rise e disse alla padrona della trattoria:
– Abbiamo fatto un lettino piccolo così; e ci stendiamo sopra una coperta di tela incerata. Lui dorme subito, ma io no, perché mi si freddano i piedi.
– È una vitaccia! – disse il padrone, abbassando la voce e appoggiando il volto ad un pugno massiccio, dove un grosso anello d’oro circondava una delle dita. E poi gettò un’occhiata torbida al figlio.
– Padroncino, e lei non ha mai provato a dormire all’aria aperta? – disse un’altra volta la donna, con un riso quasi dolce. E gli occhi di lei fissarono Pietro, voluttuosi.
Egli evitò quegli occhi e arrossì.
– Portami il cacio – disse alla bambina.
Ella si alzò, aspettando che qualcuno le dicesse di andare a prenderlo. Ed espresse col volto l’abitudine piacevole di non obbedire a lui.
– Dillo a Rosa – le bisbigliò la matrigna.
– Sì. – E la bambina andò nell’altra stanza.
Pietro, con la gola aride e pieno d’inquietudine, domandò alla girovaga:
– Quanto tempo starà a Siena?
– Quindici giorni, forse! – rispose il marito di lei, con un gesto che faceva capire quelli che egli usava per il suo vecchio mestiere. Perché quando egli sposò quella donna, che era stata una cameriera, comprò la baracca del tiro a segno e la carabina, cambiando vita.
Pietro era seccatissimo.
L’uomo se ne accorse e rivolse il discorso agli altri, mentre la sua moglie l’ascoltava facendo piccole pallottole col pane.
– E il cacio non viene? – domandò Pietro alla matrigna. Ella bussò, stizzita, ai vetri di un’altra ventosa che parava la poltrona e fece un cenno col capo.
Allora apparve Rosa con un piatto, su cui era una fetta di parmigiano. Ella camminava sbadatamente, e i suoi sguardi accesero quelli del padrone.
Ella levò il piatto sporco dal tovagliolo steso e vi posò quello del formaggio. Pietro non la poté guardare. Si volse e sfogliò il suo libriccino.
Ella si fermò a salutare i girovaghi.
La sua faccia era molto repugnante. Aveva la pelle giallastra e le occhiaie piene di lascivia. Le mani erano magrissime.
Pietro si sentiva morire. Egli non piangeva più, perché la sua anima era abituata a tali prove. E ne aveva acquistato come una forza. A momenti si sentiva divenire un uomo acceso a qualunque volontà.
Rosa lo guardò malignamente, con una rabbia non repressa nei muscoli facciali, che le si contraevano.
La matrigna volse la faccia al lume, per infilare l’ago, e non dissimulò la propria contentezza. In quei momenti, gli occhi suoi avevano profondità calde, e la faccia si stirava e imbiancava.
Pietro ebbe un sudore freddo sopra la fronte.
E il padre sorrise.
I girovaghi, che avevano mangiato, si alzarono e pregarono i padroni che, per quella sera, facessero a credito. La girovaga ebbe una mossa quasi graziosa per aggiustarsi lo scialle di lana rossa. Ed uscì dopo il marito, fermandosi a ringraziare.
A Pietro bruciava la testa, ma egli non ebbe la volontà di alzarsi subito.
Rosa era rimasta nella stanza, parlando di cucire un suo grembiule. E il padrone le sorrideva, avendo l’anima senile cullata da quella bocca, che appariva di una malvagità oscena. Onde era palese il dominio della degenerata.
Pietro si volse alla matrigna e disse:
– Io ho soltanto la camicia… Come devo mutarla?
– Non ti basta una camicia sola? – esclamò il padre, sarcasticamente.
– Come mi può bastare? – disse Pietro, che aveva un languore caldo in tutte le membra.
– Ti basterà – rispose il padre con una voce dura, in cui anche era l’offerta palpitante a Rosa. La quale ebbe come un lampo, che le accese le estremità delle gote. E guardò Pietro.
La matrigna cuciva e chiacchierava con la bambina, ch’era tornata a sedere. Pietro sentì un tremito fievolissimo lungo il dorso. E vide il volto del padre farsi incerto: vi scorse la fiacchezza e la volgarità.
La matrigna sospirò, e la piccola cugina guardò con gli occhi spalancati un poco.
– Dunque io devo avere una camicia sola? – E lo sguardo di Pietro disse tutto.
– Sì: finché vivo io ti terrò per un mascalzone.
La concubina guizzò dalla stanza.
– Già, disse Pietro, finché ti confonderai con la tua…
Il padre si alzò, con uno sguardo adamantino; e lo percosse sul capo. Pietro sentì un dolore dentro tutta la testa, e si sollevò per tenere le mani furibonde, per respingere indietro il gran corpo del padre che lo schiacciava sul canapé. Non vedeva di lui se non il cranio un poco affossato tra due righe di capelli, e, dietro a quello, il lume a petrolio.
Ebbe altri pugni. E udiva gli insulti del padre urlante.
– Mascalzone sei tu! – disse Pietro.
– Io? Io… – gridava l’altro con la bocca aperta some un cerchio, e traboccante di saliva. – Io t’ho fatto ed io ti uccido. Ti voglio uccidere! – E un tremito accompagnava la sua voce.
Pietro non fece più forza, e cadde presso una gamba della tavola martellato dai pugni, con le braccia spasimanti. E quando il cuoco e le donne si frapposero fra lui e il padre, egli non aveva nella sua anima, se non un’angoscia forte» [6].
NOTE
[1] Per un approfondimento su questo tema rimando all’articolo La parola luminosa. Per una storia dell’alternativa letteraria italiana del primo Novecento.
[2] Per un approfondimento sullo scrittore ceco rimando agli articoli I Fondamentali: lettere d’autore, dove è possibile leggere l’incipit della celebre epistola di Kafka al padre, Il processo: colpevole senza colpa e per legge di natura.
[3] Per un approfondimento sullo scrittore triestino rimando all’articolo La coscienza di Zeno: originalità e malattia della vita.
[4] Per un approfondimento sullo scrittore siciliano rimando all’articolo Vivo morto, morto vivo… insomma, Mattia Pascal.
[5] Le citazioni sono tratte da Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, Newton Compton editori, Roma 1994.
[6] Federigo Tozzi, Le novelle, Vallecchi, Firenze 1963.