In Berlin, by the wall: Lou Reed

“I ragazzi dello Zoo di Berlino”, film documentario basato sui racconti di una giovane tossicodipendente, portò alla luce la difficilissima situazione sociale e le conseguenti piaghe che si andavano diffondendo nella capitale tedesca a poco più di dieci anni dalla costruzione del muro. E’ in questo ambiente che si colloca l’esperienza semi autobiografica dell’artista newyorkese, sotto la costante ombra del muro, presenza incessante nella vita berlinese, e dunque un dovuto punto di partenza per il suo terzo, e coraggiosissimo, album da solista. Un disco pieno di sofferenza, di divisione ma soprattutto di scelte, spesso sbagliate ma sempre molto coraggiose, raccontate dalla straziante voce del narratore, Lou Reed, che probabilmente per la prima volta parla in prima persona.

Lou Reed – Berlin, Copertina dell’album

Ma addentriamoci lentamente, non è un album da prendere alla leggera, assolutamente. Anzi se proprio dobbiamo dirlo si potrebbe tranquillamente definire un album “per adulti”, dai contenuti spesso troppo forti anche per lo stesso Reed che canta con voce sommessa e dilaniata dai demoni che lo tormentano da quando ha conosciuto il successo.

Nel lento processo di avvicinamento va fatto dunque un preambolo, ovvero che l’album non può essere considerato in sé per sé: può essere un film, come un romanzo o qualsiasi altra cosa, ma non un semplice album. E’ una vita probabilmente, ed è la propria di vita, quella di Lou Reed alle prese con il fallimento del suo primo matrimonio, che ci racconta fin dai versi iniziali, con l’intro distorto e incomprensibile, con suoni confusionari tra i quali si riconosce solo un mesto “Happy Birthday…”: da qui, come in un ricordo annebbiato, il brusio lascia spazio ad un pianoforte triste e malinconico al quale si aggiunge subito dopo in maniera molto fluida il racconto di Lou, che diventa poi la prima traccia che apre e da il titolo all’album, Berlin.

E già da qui si capisce che la scelta è delle più coraggiose: ad un anno da Transformer, album che lo ha consacrato al pubblico mondiale, idolo di una giovane generazione trasgressiva e rockettara, ecco che si presenta con un lavoro completamente opposto e fuori commercio. Introverso, malinconico, triste fino al midollo, Berlin è la traccia iniziale di una storia che sentiva di voler raccontare, con la speranza che il “suo” pubblico avrebbe apprezzato quest’apertura totale. E così traccia dopo traccia inizia a raccontare la misera vita di Jim e Caroline, storia di due poveri tossicodipendenti trapiantati a Berlino dagli Stati Uniti.

Mentre nelle prime tracce ricorda gli inizi della storia, sempre tenendo ben presente l’imponente “muro” che è un preludio ad una divisione drammatica e tragica, successivamente racconta delle sofferenze provate durante il rapporto inquinato dagli abusi. E così i toni si vanno accendendo quando in “How do you think it feels” e “Oh Jim” le sue emozioni vengono sviscerate come se fossero un analisi interiore, tragica come la sua paura di dormire. Successivamente arriva “Caroline says II”, una delle canzoni più toccanti dell’album, nel quale racconta le accuse mosse dalla compagna in preda ad un delirio di tossicodipendenza, e si conclude con un tragico preludio alla tragedia del suicidio recitando “it’s so cold in Alaska”: Alaska era il soprannome con la quale veniva chiamata Caroline quando si drogava.

La tragedia si affaccia alla porta dei due compagni, e in “The Kids” si fa reale: le urla dei bambini mentre vengono portati via dalla madre, strappati dalle braccia dei genitori dai servizi sociali, sono strazianti. L’accusa mossa da Lou verso Caroline di non essere una buona madre è esplicita e al termine si dichiara quasi felice di questa sottrazione rabbiosa da parte dei servizi sociali pur non vederli più con lei. Subito dopo ancora la sfera intimistica rimane protagonista dell’album, utilizzando come luogo simbolo quello del letto nella canzone “The Bed”. Il letto nell’enfasi tragica della vicenda diventa il luogo dove Caroline si toglierà la vita, tagliandosi le vene. Quello stesso letto dove avevano concepito i loro figli, dove l’amore era cominciato, tutto finisce con il gesto che racchiude la sofferenza in cui era annegata Caroline. Lou stesso afferma di sentirsi sollevato dal suicidio, ammettendo che non avrebbe mai cominciato quella storia se avesse saputo che il suicidio era l’unico epilogo possibile.

L’album non poteva non chiudersi con “Sad song”, triste conclusione intrisa di rabbia e frasi al veleno, che celano in realtà una rassegnazione alla situazione vissuta. Al termine di questa stremante opera prova tutti coloro che collaborano all’album, Lou Reed in primis. Tanto era il dolore provato durante la composizione e la realizzazione che al termine non poté che sentirsi enormemente sollevato.

L’importanza di quest’opera nella vita artistica del poeta underground è decisiva se si pensa al carico emotivo messo in gioco e alla delusione nel ricevere una pioggia di critiche dal pubblico che tanto lo aveva amato per i lavori con i Velvet e con Trasformer. Nessuno riconobbe l’importanza di aver aperto al mondo tutte le sue paure, le sue delusioni, le sofferenze e le difficoltà passate in quegli ultimi anni di carriera. Nessuno capì realmente l’importanza di aver raccontato ancora una volta la storia dei “borderline”, con sua poetica underground.

Successivamente per il flop di Berlin fu costretto dalla casa discografica a pubblicare almeno due album commerciali e un live per fare cassa. E fu così che per quasi trent’anni si rifiutò di eseguire l’album live, chiudendo definitivamente il suo lato profondo al mondo “rock” e alternativo che lo aveva acclamato. Solo in poche occasioni riuscirà fuori, per lasciare subito spazio alla sua aria da duro e al giubbotto di pelle.

 

Ascolti consigliati:

“Berlin”, Lou Reed, 1973

“Berlin: Live at St. Ann’s Warehouse”, un concert film sul concerto tenutosi a Brooklyn nel 2006 in cui ha riproposto per intero il suo album capolavoro

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