Vivo morto, morto vivo… insomma, Mattia Pascal

Lo strappo nel cielo di carta e la «lanterninosofia», d’accordo. Ma oltre a queste due felici intuizioni del buon Anselmo Paleari filosoficamente, nel Fu Mattia Pascal, c’è anche altro. In particolar modo, il romanzo di Pirandello si apre all’insegna di un profondo, profondissimo e rassegnato nichilismo. Ciò che scrive l’indimenticabile protagonista nella Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa, dopo essere morto e resuscitato, dopo essere tornato a Miragno ed essersi riappropriato della propria identità, non lascia spazio ad interpretazioni:

Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaia di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più? [1]

La terra non è che «un’invisibile trottolina», «un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira», gli uomini non sono altro che «vermucci». Sono queste le fondamenta filosofiche negative sulle quali Pirandello erge il romanzo, accogliendo la lezione leopardiana delle Operette morali [2] – emblematico che la figura di Copernico ricorra in entrambi i libri -. Una simile Premessa svuota di significato tutto, ma proprio tutto, compresa quella Fortuna così generosa con Mattia Pascal, depotenziata, annullata, annichilita dall’atavica insufficienza umana. Mattia Pascal si ritrova ricco e morto, ma morto vivo, dunque libero, privato all’improvviso delle catene di una vita massimamente insoddisfacente. Senza più quella maschera affibbiatagli dalla società, di nuovo uomo dopo l’inevitabile riduzione a marionetta, Mattia Pascal ha il privilegio di ricominciare da zero, di ricostruirsi, di ri-formarsi, ma fallisce, inevitabilmente. Perché il fallimento è l’esito scontato di ogni umana esistenza. Il fu Mattia Pascal si configura così come il romanzo di una mancata ri-formazione. Eppure il protagonista ci prova, con tutte le sue forze, a ricostruirsi, a rifarsi una vita e un’identità che siano meno ipocrite delle prime. Assume un nome nuovo, diviene Adriano Meis, e si dà all’erranza. Il primo anno lo passa viaggiando, per l’Italia e non solo, spingendosi fino in Germania, illudendosi di essere finalmente un uomo libero. Un anno che trascorre senza troppi problemi, ma già durante il secondo inverno, inverno milanese e dunque freddo, nebbioso, piovoso, inizia a farsi largo in Mattia Pascal qualche fastidioso, imprevisto ed imprevedibile dubbio. Osservare la vita in modo così distaccato, da «spettatore estraneo», porta ad una sua automatica svalutazione, e ad un’altrettanto automatica svalutazione del progresso, il nuovo mito moderno sul quale la borghesia tra Otto e Novecento fonda il proprio regno.

Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolìo di gente. E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m’intronavano.
«Oh perché gli uomini», domandavo a me stesso, smaniosamente, «si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l’uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d’arricchire l’umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole?» [3]

Le radici della nichilistica Premessa affondano qui, in queste righe, con Pirandello che, da solo, entra in perfetta sintonia con la protesta espressionista dell’epoca, come sottolineato da Debenedetti [4], che evidenzia i punti in comune tra la critica alla modernità automatizzata dello scrittore e le ragioni dell’Espressionismo individuate dal principale esegeta dell’avanguardia, Hermann Bahr, nell’omonimo saggio del 1916 [5].

Sotto le mentite spoglie di Adriano Meis, nonostante le sopracitate riserve, Mattia Pascal s’impone di «vivere, vivere, vivere». Si stabilisce a Roma, in casa Paleari, e qui s’innamora di Adriana – la mite Adriana, la «mammina» Adriana, personaggio femminile tipicamente dostoevskiano, vittima delle prepotenze sociali e casuali (personalmente trovo numerosi aspetti comuni tra Adriana e la memorabile Sonja di Delitto e castigo [6]) -, ma l’impossibilità di legittimare questo sentimento, peraltro corrisposto, rivela a Mattia una dolorosa, dolorosissima verità: Adriano Meis, il nuovo, “libero” Adriano Meis non è altro che l’«ombra» di un uomo.

Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m’era parsa senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m’ero anche accorto ch’essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss’anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s’erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per me. Ah, ora me n’accorgevo veramente, ora che non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie parole, de’ miei atti. Troppe cose, senza parlare, le avevo detto, stringendole la mano, inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio, un bacio infine aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla promessa? Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino, là alla Stìa, ci avevano buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore; non ci s’eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie; non io, che m’ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare un altro uomo, vivere un’altra vita. Un altr’uomo, sì, ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque? Un’ombra d’uomo! E che vita? Finché m’ero contentato di star chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar l’illusione ch’io stessi vivendo un’altra vita; ma ora che a questa m’ero accostato fino a cogliere un bacio di due care labbra, ecco, mi toccava a ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d’un morto, d’un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie, sì, avrei potuto baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra? Oh, se Adriana, conoscendo il mio strano caso… Lei? No… no… che! neanche a pensarci! Lei, così pura, così timida… Ma se pur l’amore fosse stato in lei più forte di tutto, più forte d’ogni riguardo sociale… ah povera Adriana, e come avrei potuto io chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d’un uomo che non poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che fare? [7]

E arriviamo alle pagine che costituiscono il vero e proprio punto di rottura del romanzo – ancor più di quelle dedicate alla scoperta del protagonista della propria morte -: le pagine in cui viene narrata la scoperta di Mattia Pascal del furto di dodicimila lire architettato dallo spregevole Terenzio Pomilio, il cognato di Adriana. Il protagonista si scopre «fuori d’ogni legge» e sprofonda nella disperazione:

Morto? Peggio che morto; me l’ha ricordato il signor Anselmo: i morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? [8]

Mattia si vede per sempre escluso dalla vita:

Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con quel lutto nel cuore, con quell’esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po’ di requie, in cui mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano che mai dagli uomini, solo, solo, affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di Tantalo si sarebbe rinnovato per me [9].

Francisco Goya, El pelele (Il fantoccio), 1791-1792.

E anche in lui sorge quel riso «maligno» che caratterizza l’esperienza del suicida, che troviamo nel Bruto leopardiano, suicida letterario, e in Carlo Michelstaedter, suicida reale [10]. Non a caso Mattia decide di far suicidare Adriano Meis, nient’altro che un «fantoccio» – termine che, almeno nella mente del sottoscritto, rimanda subito all’omonimo capolavoro di Goya, carico di una vibrante inquietudine propria anche di certi luoghi del romanzo pirandelliano, inoltre sorta di rappresentazione allegorica del rapporto tra il protagonista e la moglie e la suocera -, e di fare ritorno a Miragno, per resuscitare e consumare la sua clamorosa, spettacolare vendetta. Mattia prende coscienza di non essere mai stato libero, neppure da morto vivo, neppure da Adriano Meis, misterioso viaggiatore senza parenti né amici, e, dopo la comica parentesi pisana, torna nel suo paese. E a Miragno Mattia è preda di un’«omerica risata» che fa da contraltare al riso «maligno» del suicida. Una risata straordinariamente potente, quasi cosmica, che gli sconvolge le viscere e che «se fosse scoppiata, avrebbe fatto balzar fuori, come denti, i selci della via, e vacillar le case» [11]. Resuscitando Mattia si vendica della moglie, risposatasi presto, e della suocera, che tanto lo desideravano morto. Ma si tratta di una soddisfazione in fondo effimera, di brevissima durata. Al di là dell’inevitabile fallimento, del colpo, o meglio dei colpi di fortuna neutralizzati (solo un mascalzone avrebbe potuto e saputo far meglio), questa esperienza-limite è servita, eccome, a Mattia: per smascherare se stesso, ma anche l’intera umanità e la vita, approdando a quella cruda, spietata, nichilistica ma vera consapevolezza della vanità e dell’insensatezza dell’esistenza nel segno della quale si apre il romanzo.

NOTE

[1] Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 36.

[2] Per un approfondimento sull’opera di Leopardi rimando all’articolo Sulle Operette morali.

[3] Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 107.

[4] Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti (Quaderni 1961-1966), Garzanti, Milano 1971.

[5] Per un approfondimento sul saggio di Bahr rimando agli articoli L’Espressionismo è un grido – I, L’espressionismo è un grido – II.

[6] Per un approfondimento sul celebre romanzo di Dostoevskij rimando all’articolo Delitto e castigo, dalla dialettica alla vita.

[7] Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., pp. 161-162.

[8] Ivi, p. 168.

[9] Ivi, p. 169.

[10] Questi i versi in questione del canto leopardiano: «Guerra mortale, eterna, o fato indegno, / teco il prode guerreggia, / di cedere inesperto; e la tiranna / tua destra, allor che vincitrice il grava, / indomito scrollando si pompeggia, / quando nell’alto lato / l’amaro ferro intride, / e maligno alle nere ombre sorride» ( Giacomo Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 95). È necessario legare a questi versi quanto Leopardi scrive nello Zibaldone, spiegando proprio l’origine del riso maligno che caratterizza il suicida: «Quando l’uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l’impossibilità d’esser felice, e la somma e certa infelicità dell’uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, né perdere e soffrire più di quello ch’ella già preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo l’indifferenza non basta, egli perde quasi affatto l’amor di se, (ch’era già da questa indifferenza così violato) o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad odiare la vita l’esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico, e allora è quando l’aspetto di nuove sventure, o l’idea e l’atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo di quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e irritato desiderio, il qual sorriso è l’ultima espressione della estrema disperazione e della somma infelicità» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 91). E le parole che Michelstaedter scrive all’amico Enrico Mreule in una lettera del 2 settembre 1909, ricordano moltissimo quelle di Leopardi: «Ho riso di tutto e ho vissuto per sport. Ed ora che ho conosciuto cosa era la mia sicurezza ed ho preoccupato il futuro, che cosa mi resta se non il riso maligno, e il dolore bruto per la brutalità irriducibile della forza che mi tiene in vita? peggiore questo dolore che tutto il dolore che ho provato quando vedevo per la prima volta. Solo una reazione avrei potuto avere – così pensavo nella mia speranza, solo una reazione mi resta ora: d’andarmene, di distruggere questo corpo che vuol vivere» (Carlo Michelstaedter, Epistolario, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1983, p. 407). Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[11] Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., pp. 195-196.

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