Arnold Schönberg, Lo sguardo rosso, 1910.

Thomas Harrison: 1910. L’emancipazione della dissonanza

1910, l’anno appunto in cui tutte le impalcature cominciarono a crollare.

Gottfried Benn

I primi quattordici anni del Novecento rappresentano un momento di svolta nella storia dell’arte, della letteratura, della filosofia e più in generale della cultura occidentali. Il grido espressionista straripa, incontenibile come un fiume in piena travolge tutte le manifestazioni artistiche e speculative, sulla via tracciata da Nietzsche – morto emblematicamente nel 1900, esattamente il 25 agosto -, scopre nuove, inquietanti vie, il cui esito è drammaticamente obbligato: il nichilismo. Non esistono esiti alternativi, come dimostrerà sin troppo chiaramente lo scoppio della Prima guerra mondiale.

L’anteguerra fu un laboratorio, di futurismo quanto di passatismo, che mise alla prova tutti gli interessi di un’Europa simultaneamente vecchia e nuova: i confini dell’identità personale, sessuale e sociale; la solidità delle fondamenta morali e teoriche; gli effetti della tecnologia e dell’urbanesimo; la validità e i metodi delle scienze umane – riflessi nel sorgere di fenomenologia, psicologia, sociologia e filosofia del linguaggio, per non parlare di teosofia, antroposofia e altre, meno concrete, ricerche [1].

La copertina del libro di Thomas Harrison.

Ma all’interno di questi quattordici anni uno in particolare ne spicca per importanza, il 1910, al quale Thomas Harrison, professore ordinario all’Università della California di Los Angeles, dove dirige il dipartimento di Italianistica, dedica il fondamentale libro 1910. L’emancipazione della dissonanza, ripubblicato in Italia nel 2017 da Castelvecchi. Nel 1910 la cometa di Halley solca e sconvolge i cieli d’Europa, celeste anatema causa d’una psicosi diffusa, nel 1910 Arnold Schönberg dipinge l’allucinato e allucinante Sguardo rosso [2], nel 1910 Carlo Michelstaedter conclude la sua straordinaria e necessaria tesi di laurea, La persuasione e la rettorica [3], ponendo fine pochi giorni dopo alla sua breve esistenza, sparandosi non uno, ma due colpi di pistola alla testa. Insomma,

L’anno 1910 è la prefigurazione spirituale di una fatalità indicibilmente tragica, riscontrabile nei toni degli audaci e degli angosciati, dei deviati e dei disperati, nell’arte di una gioventù precocemente invecchiata nell’attesa di una guerra che aveva a lungo sperimentato nello spirito (11).

Al centro della sua affascinante riflessione, Harrison pone individualmente Michelstaedter – a conferma dell’importanza eccezionale del pensatore, scrittore, poeta e pittore goriziano all’interno del panorama filosofico, letterario e artistico non solo italiano ma europeo del XX secolo -, collettivamente invece il fenomeno dell’Espressionismo, in un’accurata indagine che riguarda letteratura, filosofia, sociologia, pittura, musica, e non solo.

Le “fioriture” trattate in questo studio sono sia opere di filosofia, sociologia, pittura, musica e poesia, sia fenomeni a sfondo etico ed esistenziale come il suicidio e la follia. Se il nome proprio per il fiorire è sempre Michelstaedter, è perché – in quanto filosofo, poeta, pittore e moralista – egli incarna il maggior numero di queste caratteristiche. Il nome comune rimane espressionismo (16).

Nella sua polivalenza dunque Michelstaedter s’impone come la personalità più emblematica di questo anno e, più in generale, di questa epoca. Inoltre l’opposizione sulla quale fonda la sua riflessione filosofica e la sua attività artistico-letteraria, quella tra «persuasione» e «rettorica», che dà il titolo al suo capolavoro (definito da Asor Rosa, non esattamente l’ultimo arrivato, «senz’ombra di dubbio la più anomala ovvero la più eccezionale nel canone delle grandi opere della letteratura italiana» [4]), sintetizza di fatto lo sforzo di tutti i più grandi e alternativi scrittori, poeti, filosofi, pittori, musicisti, sociologi del primo Novecento, e in ambito non solo italiano, ma europeo:

Pittori e pensatori concentrano i loro sforzi nella liberazione della «persuasione» dalla «rettorica», della necessità soggettiva dall’esteriorità contingente e oggettiva (20).

Il libro di Harrison si configura così come uno studio sulla «sintomatologia» del tempo di Michelstaedter (14). Un tempo fondamentalmente tragico, perché

Se la tragedia risiede nella percezione – non nel fatto – che l’esperienza è tormentata da opposizioni dolorosamente inconciliabili [di nuovo la «persuasione» e la «rettorica», e tertium non datur], allora gli anni che precedettero la Prima Guerra Mondiale furono, in Europa, fra i più tragici (27).

Richard Gerstl, Autoritratto, 1904.
Giovanni Costetti, Ritratto di Dino Campana, 1913.

Lo dimostrano gli esiti drammatici delle esistenze di molti dei più grandi protagonisti di questo periodo tanto fecondo quanto luttuoso: come Michelstaedter, anche il pittore Richard Gerstl, amante della moglie di Schönberg, e il poeta Georg Trakl si uccidono, Dino Campana impazzisce [5], Egon Schiele viene prematuramente stroncato dall’epidemia di influenza spagnola, Giovanni Boine dalla tisi, Scipio Slataper cade in battaglia. A proposito del suicidio e più in generale della percezione della morte nel primo Novecento, Harrison sottolinea come, contro quello che definisce brillantemente il «kitsch del comfort morale»,

I pensatori del 1910 erano più interessati a comprendere il dolore che a negarlo o debellarlo, a cogliere i segni concreti del demoniaco che a cancellarli (95).

Inoltre, ed è forse questo l’aspetto più interessante, a spiegare i numerosi casi di suicidio dell’epoca e questa profonda attenzione all’umana sofferenza, contribuisce

anche una tendenza ad aspirare a un’etica più assoluta di quanto attualmente immaginiamo alla nostra portata (95).

Georg Trakl.

All’inizio del XX secolo l’Espressionismo [6] si ribella prepotentemente, veementemente a quell’inquietante processo di reificazione, di meccanicizzazione cui l’uomo è vittima dalla nascita e dallo sviluppo della Modernità, che affonda le radici nel secolo precedente, ma allunga i suoi meccanici rami tentacolari, sempre più tecnologici e innovativi, sul Novecento. Ricorrendo, come fa Harrison, a Marshall Berman:

la modernità si fonda sulle sue macchine, di cui gli uomini e le donne moderni sono semplici riproduzioni meccaniche [7].

Non a caso Michelstaedter, come in Italia anche, ad esempio, i coevi crepuscolari, ne La persuasione e la rettorica rappresenta gli uomini come cose tra le cose, dichiarando, con la sua tipica risolutezza, che

Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo [8].

Una condizione straniante, alienante, che stimola anche le riflessioni del grande sociologo Georg Simmel, altro grande punto di riferimento dello studio di Harrison – insieme con György Lukács -, il quale, autore tra l’altro della fondamentale Metafisica della morte, pubblicata proprio nel 1910, nella Filosofia del denaro, evidenzia come all’inizio del Novecento

l’uomo si è allontanato da se stesso, tra lui e la sua parte più autentica, essenziale, si è frapposta una barriera insuperabile di strumenti, di conquiste tecniche, di capacità, di costumi [9].

Egon Schiele, Nudo virile (autoritratto), 1910.

L’espressionista grida, grida a squarciagola rivendicando il possesso della propria anima, di un’esistenza autentica, libera dalle catene dei nuovi valori, o meglio non-valori borghesi: il produttivismo, il consumismo, il razionalismo gelido e via dicendo. Come scrive Schiele,

le persone che sono più «se stesse», sono necessariamente in disaccordo con l’umanità industriosa e rispettosa della legge (144).

All’artista primonovecentesco interessa solo ed esclusivamente il «possesso di sé» (150). Ed è questa la conclusione a cui giungono i protagonisti della Cultura del 1910:

Anche là dove non si sostiene la trascendentalità spirituale della soggettività, l’Io viene visto come il centro di tutte le cose e, in un modo o nell’altro, innalzato allo stato di universale. La sua unicità e indicibilità sono le basi del discorso in generale (148).

Carlo Michelstaedter, Autoritratto, 1908.

Ma, ancora una volta, è emblematico il caso di Michelstaedter, il cui Io persuaso alla fine diviene nulla:

Quando l’idea del soggetto come fundamentum inconcussum di ogni realtà è portata agli estremi di Michelstaedter, l’Io si distacca da tutte le cose sperimentabili, comprensibili e dicibili. Se possiede se stesso, il soggetto di Michelstaedter non possiede alcuna delle cose con cui la storia lo identifica (le sue caratteristiche fisiche e sociali, le sue credenze e le sue azioni, le sue prospettive e i suoi contesti finiti). È solo l’essenza mancante dei suoi «accidenti», troppo nudo per porsi nel mondo. Nell’insistere a essere quello che è «in sé», l’Io diventa lo stesso il nulla che ha cercato di evitare nell’esperienza esteriore, un nulla non trasformato in qualcosa, ma abbandonato alla più grande deficienza d’essere possibile (153).

L’approdo dell’Io persuaso di Michelstaedter segna dunque la fine della tradizione soggettivista della filosofia occidentale:

La tradizione soggettivista della filosofia occidentale giunge così al capolinea. Il detto greco «conosci te stesso!» si basava su una svalutazione dell’auto-evidenza oggettiva: il mondo esterno era ingannevole e corruttore; la verità poteva essere scoperta solo guardandosi dentro e affrontando quello che il mondo non sapeva. Ma quando il progetto soggettivista viene condotto alle sue estreme conseguenze – e la fiducia nel sapere esteriore è minata al punto che nulla sembra più reale a parte il Sé – allora si scopre che anche il «Sé in sé» è nulla. E nulla fuori delle proprie relazioni oggettive. È muto e non raggiunge mai l’autoconoscenza. Anche se al culmine della persuasione l’Io sembra conseguire una sorta di autotrasformazione mistica e affermare la realtà indicibile di ogni sua esperienza storica, perde sempre i suoi tratti caratteristici. Si dissolve in un’arena di pura oggettività, dove tutte le «essenze» non sono che apparenze momentanee e fugaci e nessun soggetto può distinguersi dagli oggetti. Anche qui la metafisica del soggetto viene superata (153).

È dunque il nulla l’esito delle riflessioni e delle creazioni dei filosofi e degli artisti del 1910, il nichilismo. Di quella dissonanza che essi stessi avevano liberato divengono martiri (214), travolti da un destino drammatico, che loro stessi eleggono per sé (Michelstaedter, Trakl), o che il Caso elegge per loro (Campana, Boine, Slataper, Schiele).

NOTE

[1] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, traduzione di Marco Codebò e Federico Lopiparo, Castelvecchi, Roma 2017, p. 12. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[2] A proposito del dipinto Lo sguardo rosso – posto in copertina – scrive il suo autore, Arnold Schönberg: «Occhi rossi e gonfi, le cui orbite si espandono attraverso la carne quasi obbedissero a una superiore ingiunzione di non dormire. Pupille dilatate fino a sembrare che trasmettano piuttosto che ricevere percezioni, come accade con il consapevole sguardo di un pesce morto da tempo. Il rosso di questi occhi segnala il doloroso e terrificante afflato di quanto un tempo è forse stata una persona. Qualcosa si sta impadronendo di questa faccia, i cui tratti sono in preda al miasma che la affligge. Qui l’unico possibile risultato positivo è il disvelamento» (Ivi, p. 5).

[3] Per un approfondimento sul pensatore, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[4] Alberto Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV, Il Novecento, I. L’età della crisi, Einaudi, Torino 1995, p. 265.

[5] Per un approfondimento sul geniale e tormentato poeta marradese rimando all’articolo I «Canti Orfici» di Dino Campana: nella poesia, come nella vita, il trionfo dell’Irregolarità.

[6] Per un approfondimento sull’avanguardia rimando agli articoli L’Espressionismo è un grido – I, L’Espressionismo è un grido – II.

[7] Marshall Berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna 1988, p. 40.

[8] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 1982, p. 156.

[9] Georg Simmel, Filosofia del denaro, UTET, Torino 1984, p. 679.

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