
All’interno del panorama letterario italiano del primo Novecento, c’è anche chi, dopo lo scoppio della guerra, non si lascia contaminare dall’altisonante e trionfalistica propaganda bellica, culturalmente a trazione futurista. Tra le fila dell’avanguardia penso ad esempio ad Aldo Palazzeschi [1] – futurista in un modo tutto suo, particolarissimo, eretico -, ampliando la prospettiva a Giuseppe De Robertis, l’ultimo direttore della «Voce», e ad una delle firme più importanti della rivista, Renato Serra, autore di un testo prezioso, l’Esame di coscienza di un letterato, pubblicato proprio sulla «Voce» il 30 aprile 1915. In un complicato e tortuoso colloquio con se stesso lungo sei giorni, il critico denuda la guerra d’ogni esaltante funzione rinnovatrice, rifondatrice, opponendosi così a quella diffusa rettorica interventista che dotava il conflitto di un superiore valore palingenetico – tutti, immersi nel fango, nel sudore e nel sangue della trincea si ritroveranno presto a fare i conti con la fragilità di questa illusione, e penso al caso di Lorenzo Viani, che, partito per il fronte con l’intenzione di combattere finalmente per quella rivoluzione anarchica nella quale credeva ciecamente, vedrà il proprio ideale andare in pezzi sui campi di battaglia sconquassati dalle bombe e sui volti dei suoi compagni-soldati ridotti a mera carne da macello [2] -: «La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura».
Delle mitiche ragioni addotte da gran parte dell’ala interventista italiana – prendendo come punto di riferimento culturale ancora il Futurismo, come non menzionare la marinettiana concezione della guerra come «sola igiene del mondo»? – Serra rivela l’infondatezza, l’irragionevolezza, l’irrazionalità dunque l’insensatezza, e pur proclamando infine la propria adesione, annunciando la propria partecipazione, non si lascia andare a facili entusiasmi, ma confessa come l’impeto passionale che lo porta a lanciarsi nella mischia nasca da un «vuoto» e non sia affatto immune all’«angoscia». Certo, anche Serra finisce per cedere ad un umanitarismo scontato e rettorico, fondando su di esso la propria «speranza», ma dimostra di essere consapevole, perfettamente consapevole del carattere fondamentalmente artefatto, letterario della propria scelta. Che pagherà a caro prezzo, con la vita, ucciso sul Podgora nel 1915 – stesso destino di un altro tra i maggiori protagonisti della letteratura italiana del primo Novecento: Scipio Slataper [3] -.
«Credo che abbia ragione De Robertis; quando reclama per sè e per tutti noi il diritto di fare della letteratura, malgrado la guerra.
La guerra…. Son otto mesi, poco più poco meno, ch’io mi domando sotto quale pretesto mi son potuta concedere questa licenza di metter da parte tutte le altre cose e di pensare solo a quella. I giorni passano, e il peso di questo conto da liquidare colla mia coscienza mi annoia e mi attira: come l’ombra del punto che non ho voluto guardare cresce oscura e invitante nell’angolo dell’occhio; finchè mi farà voltare.
Ora è certo che non può esser permesso a nessuno di prender congedo dal suo proprio angolo nel mondo di tutti i giorni; deporre sull’orlo della strada il suo bagaglio, lavoro e abitudini, sogni e amori e vizi, via tutt’insieme, come una cosa improvvisamente vuotata di sostanza e di vincoli; scrollarci sopra la polvere del passaggio, voltando come verso un destino rivelato e decisivo un’anima leggera, affrancata da tutte le responsabilità precedenti; fare tutti questi preparativi, con aggiunta di raccoglimento e di ansia e di attesa, prender l’atteggiamento della partenza; e alla fine, non muoversi; non far nulla; stare alla finestra a guardare. Che cosa?
Davanti a me non c’è altro che la mia ombra immobile, come una caricatura. Sono otto mesi che la guardo; e faccio cenno colla mano a tutte le altre cure di stare indietro, perchè non ho tempo da badarci; serio, con l’aria di un uomo preoccupato; intanto, leggo dei giornali, e faccio delle chiacchiere; magari cerco, tra parentesi, qualche pretesto per giustificarmi; e se non arrivo a servirmene nella conversazione, è solo per un resto di pudore; o piuttosto, perchè i miei interlocutori mi interessano troppo poco, per prendermi la pena di mistificarli.
Credo di aver detto, fra le altre cose, che la letteratura mi faceva schifo, «in questo momento»; e in ogni modo, se non l’ho detto, ho fatto come quelli che lo dicono; (e, se l’ho detto, ho detto la verità).
Ma è inutile che io mi diverta adesso a farci sopra dell’ironia, che sarebbe facile. Del resto, questa storia della nostra «partecipazione personale alla guerra» nei mesi che son passati, con tutti i suoi equivoci di illusione e di ingenuità e con le sue sfumature di ridicolo, ognuno se la può rivedere per conto proprio, volendo; e la mia non interessa più che quella degli altri.
Per ora, quel che m’interessa è la conclusione. Per quanto ovvia e risaputa, me la voglio ripetere; l’imparerò.
La guerra non mi riguarda. La guerra che altri fanno, la guerra che avremmo potuto fare…. Se c’è uno che lo sappia, sono io, prima di tutti.
È una vecchia lezione! La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura.
Voglio nominare anche questa, appunto perchè è la cosa che personalmente mi tocca meno, forse; in margine della mia vita, come un’amicizia di occasione; verso la quale ho meno diritto di essere ingiusto.
E poi non devo scordarmi di avere avuto qualche cosa di comune — mi sarei rivoltato, se me l’avessero detto; ma era vero egualmente — con tutta quella brava gente, piena di serietà; da tanto tempo va gridando che è ora di finirla, con queste futilità e pettegolezzi letterari, anzi, è finita; finalmente! passata la stagione della stravaganza e della decadenza, formato l’animo a cure più gravi e entusiasmi più sani, attendiamo in silenzio l’aurora di una letteratura nuova, eroica, grande, degna del dramma storico, attraverso cui si ritempra, per virtù di sangue e di sacrifici, l’umanità.
Ripetiamo dunque, con tutta la semplicità possibile. La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà, continuerà di lì. È inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di più elementare e più semplice. Ma, per il resto, ognuno rimane quello che era. Ognuno ritorna — di quelli che tornano — al lavoro che aveva lasciato; stanco forse, commosso, assorbito, come emergendo da una fiumana: ma con l’animo, coi modi, con le facoltà e le qualità che aveva prima» [4].
La guerra è un fatto come tanti altri, come tutti gli altri, che non cambia assolutamente nulla. Tanto che alla prima mattanza mondiale ne seguirà una seconda, ancor più disgustosamente distruttiva.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul poeta e scrittore fiorentino rimando agli articoli L’originale futurismo di Palazzeschi – Il controdolore, L’originale futurismo di Palazzeschi – L’incendiario, Aldo Palazzeschi – Il Codice di Perelà, Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire!
[2] «Per essere anarchici bisogna credere nella bontà dell’uomo. Nell’uomo che, bontà di Dio, nasce buono. Ma quando s’è fatta, vissuta, veduta, toccata la guerra e gli uomini in guerra, chi può credere più nella bontà dell’uomo?» (Citato in Ida Cardellini Signorini, Lorenzo Viani: disegni e xilografie, La nuova Italia, Firenze 1975, p. 331).
[3] Per un approfondimento sullo scrittore triestino rimando all’articolo Scipio Slataper – Il mio Carso.
[4] Renato Serra, Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, Einaudi, Torino 1974. Per un’immediata lettura integrale del testo rimando a Wikisource.