Lorenzo Viani, Consuetudine, 1907-1909.

Lorenzo Viani scrittore. Seconda parte

2. Vàgero tra i vàgeri

Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione e ci lasciammo stringendoci semplicemente la mano: in quel breve gesto noi ci lasciammo: così puri come due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all’irreparabile.

Dino Campana, Canti Orfici

È il sistema che uso per scacciare la tristezza e tenere sotto controllo la circolazione. Ogni qualvolta m’accorgo che mi si va formando intorno alla bocca una piega arcigna; quando sulla mia anima scende un umido, piovigginoso novembre; quando mi sorprendo a sostare involontariamente davanti ai negozi di casse da morto e a seguire ogni funerale che incontro; e specialmente quando l’ipocondria prende il sopravvento su di me a un punto tale da far sì che debba ricorrere a un forte principio morale per impedirmi di scendere deliberatamente in strada a far saltare via il cappello dalla testa della gente… allora giudico sia giunto il momento di andar per mare il più presto possibile. È il mio surrogato della pistola e della pallottola.

Herman Melville, Moby Dick

Lorenzo Viani, Mendico.

Ubriachi, vagabondi, pazzi, prostitute affollano i dipinti, i disegni, le xilografie e i libri di Lorenzo Viani. Quell’altra oscura faccia dell’umanità, diseredata, reietta, abbandonata a se stessa, alla propria miseria, alla propria debolezza, che abita la strada:

La mia prima ispirazione è stata la strada l’antica patria nostra e gli uomini, che questa casa aperta sul silenzio dei cieli non hanno voluto abbandonare mai, che portano sul volto segni di fierezza e d’angoscia di melanconia e di ferocia insieme, i vagabondi, gli uomini liberi [29].

Il Viani pittore, il Viani scrittore, il Viani anarchico militante, il Viani soldato, il Viani uomo in definitiva, nasce sulla strada, in un profondo sodalizio con quella parte d’umanità rinnegata, raminga, caina che della strada fa la sua patria:

Credo che la fonte di ogni ispirazione sia la strada, chi non è stato vagabondo non può affermare l’intimità delle cose mie. Bisogna i viandanti averli veduti, accosciati sotto un pagliaio o sotto l’arco di un ponte [30].

Come sottolinea la Mainardi, Viani condivide «fino in fondo con tutti i disperati della terra, e fra questi i più innocenti, i pazzi, una poetica della disappartenenza, della separazione, dell’abbandono, della negazione» [31].

Nella sua smania di rinominazione, che caratterizza, che segna e impreziosisce l’intera sua attività letteraria, Viani non si accontenta di ricorrere al vocabolario consueto, alla lingua codificata, canonizzata dalla norma per designare questa umanità altra, degradata, nel nome della quale si fa artista, scrittore, anarchico e soldato, ma la ribattezza con un neologismo, il termine «vàgero», che nel glossario posto in appendice a Il Bava, definisce contrazione di «nàvagero», ovvero uomo di nave, uomo di mare, «uomo di bordo rotto a tutti i perigli e a tutte le navigazioni: uomo d’onore e di rispetto. Da vagàtio il vagare e da Vage, sparsamente; qua e là – dei latini? Perché si dice Vàgero anche al vagabondo» [32]. Nella prospettiva vianesca vàgero diviene categoria esistenziale alternativa, estranea all’ordine sociale borghese così ipocritamente sobrio e impeccabile, educato, falsamente morale, freddamente razionale, stucchevolmente perbenista e benpensante, odiosamente omologante ed uniformante.

[…] la legione demoniaca degli scarnificati, dei corrosi dal lavoro o dal peccato, sui quali è un continuo nereggiare di ali di corvo. I viandanti che portano nel sacco il basilico per le massaie, dell’erba maria per le ragazze, che tornano ogni anno a cantar sull’aie l’elogio del verde come le rondini a murar le loro case sotto i tetti – gente che cova in seno il fuoco per i pagliai non ospitali – che non è iscritta a nessuna Camera del Lavoro, che ha ipotecato il Sole dell’avvenire per il sole di tutti i giorni [33].

Plasmato dagli elementi, la consistenza fisica e spirituale di un tronco d’albero, il vàgero, pur con tutte le sue debolezze, pur con tutte le sue colpe, che non si sforza di malcelare dietro un ipocrita velo di spaventato pudore, rappresenta la possibilità di un’esistenza diversa, più autentica, libera e pura. Il vàgero è l’incarnazione dell’individualismo anarchico [34] che muove, o meglio agita Viani come il libeccio le «bandiere nere, vermiglie ed eroiche», e «perfino nel suono […] ha il carisma e l’efficienza degli archetipi infallibili» [35].

Che sia davvero «potentemente dozzinale» [36], come lo giudica severamente Contini, o no, ha poca importanza. Lorenzo Viani è il grande cantore degli ubriachi, dei vagabondi, dei pazzi, delle prostitute, dei marinai, dei vàgeri in una sola parola, e tanto basta. Trarlo in salvo da quell’oblio nel quale è stato lasciato precipitare a causa di giudizi negativi come quello di Contini, o a causa della sua simpatia per il fascismo – come se nelle sue opere ce ne fosse traccia [37] -, significa salvare uno scrittore assolutamente meritevole di essere letto e studiato – soprattutto nel tentativo di colmare il vuoto lasciato dalla morte della letteratura italiana in questi ultimi anni -, e quella parte d’umanità oscura e silenziosa alla quale egli ha donato luce e voce.

Lorenzo Viani, Il cortile del dormitorio (cortile della Ruche), 1924-1925.

Uomo tutto d’un pezzo, michelstaedterianamente pratico, Viani non si accontenta, non può accontentarsi di scrivere dei vàgeri: egli stesso si fa vàgero, aberintandosi a Parigi, l’«immane ergastolo» raccontato nell’omonimo, splendido romanzo del 1925.

Un bel giorno lasciai Viareggio diretto a Parigi, senza conoscenze, con poche lire e senza sapere una sola parola di francese. Tiriamo un velo sul resto, patimenti, fame, umiliazioni, freddo, disperazione, angoscia, la cronaca è inutile, sono mille i casi miei, la viltà borghese è grande nelle città, più grande della misericordia di Dio [38].

NOTE

[29] Lorenzo Viani, Appunti sull’arte, in Id., Scritti e pensieri sull’arte, cit., p. 105.

[30] Lorenzo Viani, Lettera autobiografica, cit., p. 482.

[31] Nicoletta Mainardi, Viani: sulla corda della pazzia, in «Erba d’Arno», 1995, p. 71.

[32] Lorenzo Viani, Il Bava, in Id., Mare grosso, Vallecchi, Firenze 1962, p. 276.

[33] Lorenzo Viani, La mia arte. Dalla Val di Nievole, il 30 maggio 1919, cit., p. 73.

[34] Rita Baldassarri, Dal mito del viandante alle cronache della pazzia, in L’opera letteraria di Lorenzo Viani, Atti della tavola rotonda, Viareggio, 3 aprile 1982, Comune di Viareggio, Viareggio 1982, p. 39.

[35] Marco Marchi, L’eroe in stracci, in Lorenzo Viani, Storie di Vàgeri, a cura di Nicoletta Mainardi, 2 voll., Vallecchi, Firenze 1988, p. 7.

[36] Gianfranco Contini, Espressionismo letterario, cit.

[37] Un grande, grandissimo, enorme scrittore europeo dell’epoca condivide il triste destino di Viani – i due sono accostabili anche per le tematiche affrontate, e penso soprattutto allo straordinario romanzo Fame -: il norvegese Knut Hamsun, il premio Nobel cancellato dalla storia della letteratura per la sua simpatia nei confronti del Nazismo. Ma neanche nei racconti e nei romanzi di Hamsun c’è traccia della sua adesione, per quanto entusiastica, al regime. Anche Luigi Pirandello era fascista, dichiaratamente fascista, ma in nessun altro paese come in Italia è sviluppato lo straordinario talento di distinguere tra figli e figliastri. Del resto noi non sapremmo mai privarci di un premio Nobel. Sia chiaro, che Pirandello sia stato fascista me ne frego, le sue opere sono grandiose, fondamentali, necessarie e tanto basta: è l’italica ipocrisia che non sopporto.

[38] Lorenzo Viani, Lettera autobiografica, cit.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: