Perciò ogni sua parola è luminosa perché, con profondità di nessi l’una alle altre legandosi, crea la presenza di ciò che è lontano. Egli può dar le cose lontane nelle apparenze vicine così, che anche quello che di queste soltanto vive, vi senta un senso ch’egli ignorava, e muovere il cuore d’ognuno.
Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica
1. Un modesto atto di Resistenza
La letteratura italiana è morta. Tutto, ma proprio tutto ciò che viene pubblicato oggi nel nostro fatiscente paese, con l’incontrastato trionfo dei sottogeneri (il noir, il fantasy, il giallo, la fantascienza, il romanzo rosa, il porno soft, il romanzo storico, il romanzo-reportage alla Saviano, la biografia e l’autobiografia, l’umorismo [1]), merce a dir poco dozzinale facilmente vendibile, è qualcosa d’altro, contro il quale neppure la pur implacabile e spietata frusta di Aristarco Scannabue basterebbe più, e la cui efficacia sarebbe comunque attenuata, per non dire del tutto annullata, da un pubblico – o di quel poco che ne resta – oramai indifferente e immune alle sferzate, per quanto sanguinose, poiché completamente, irreversibilmente soggiogato da questo mediocre stato di cose, completamente, irreversibilmente in balia di quel «decerebramento culturale» [2] supremo e definitivo risultato della mercificazione, e non solo letteraria.
Ovviamente, all’interno di questo quadro fosco, di questa condizione di minorità [3] indotta, per non dire imposta, e accettata – perché in fondo la superficialità, la de-problematicità è così comoda e confortevole, così agevole e sicura -, non c’è il benché minimo spazio per l’alternativa, la benché minima fessura, e non potrebbe essere altrimenti. L’aspirante scrittore sa di non dover osare, di non dover sperimentare, di non dover sovvertire se vuole dare alla propria aspirazione almeno una possibilità di divenire realtà, ma scegliere uno dei sottogeneri più diffusi (se non addirittura realizzando una geniale sintesi di tutti, perseguendo così la formula del best best seller ovvero del worst book ever written) e piegarsi alle sue regole sciocche, degradanti, mortificanti. Insomma, se un aspirante scrittore per caso sia mosso alla creazione dalla Grande Letteratura, dal desiderio ardente e – necessariamente – devastante di concepire e plasmare qualcosa anche solo lontanamente, anche solo intenzionalmente all’altezza di ciò che oggi non esiste più, di ciò che oggi è morto e sepolto, di ciò che oggi è stato ammazzato, beh, ha un solo modo per valutare se si trovi oppure no sulla via giusta: essere rifiutato dagli editori, essere scartato, ignorato. La situazione si è paradossalmente ribaltata oggi: è la mancata pubblicazione il segno, la spia di un potenziale valore letterario.
Ebbene, in questo mondo livellato verso il basso – in ogni suo singolo aspetto -, dominato di nuovo da quella Grande Stupidità di cui parla Thomas Mann nella Montagna incantata [4] – allora condusse l’umanità al suo primo conflitto mondiale, dove la condurrà oggi? dritta all’estinzione? -, credo possa essere utile – un modesto atto di Resistenza, per quanto concesso dalle misere possibilità di un uomo di Cultura, un uomo senza qualità – ripercorrere le tappe dell’alternativa letteraria italiana in quello che reputo il suo vero momento d’oro: il primo Novecento, ovvero da inizio secolo, segnato culturalmente dalla morte di Nietzsche, politicamente dal regicidio per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, o meglio dell’entrata in guerra dell’Italia, e il ritorno alla tradizione caldeggiato dalla «Ronda». Momento segnato dalla presenza di scrittori formidabilmente alternativi, e penso a Luigi Pirandello, Federigo Tozzi, Gian Pietro Lucini, Guido Gozzano, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni, Scipio Slataper, Piero Jahier, Clemente Rebora, Giovanni Boine, Camillo Sbarbaro, Carlo Michelstaedter, Ardengo Soffici, Dino Campana, Filippo Tommaso Marinetti [5]. È in questo momento che vengono create le due opere che rappresentano le due esperienze-limite dell’intera storia della letteratura italiana: La persuasione e la rettorica, la tesi di laurea di Carlo Michelstaedter, terminata nel 1910 ma mai discussa dal filosofo, scrittore e poeta goriziano, suicidatosi con due colpi di pistola subito dopo la conclusione del fondamentale, necessario lavoro, e i Canti Orfici di Dino Campana, dati alle stampe per la prima volta nel 1914.
2. La parola luminosa

Perché intitolare una storia dell’alternativa letteraria italiana del primo Novecento La parola luminosa? Perché la parola luminosa è la parola del persuaso michelstaedteriano, quella che, «con profondità di nessi l’una alle altre legandosi, crea la presenza di ciò che è lontano» [6]. Di quest’epoca caratterizzata da una profonda e feconda insofferenza, in ambito artistico-filosofico-letterario, nei confronti della società borghese e dei suoi miti – la produttività, il consumismo, il benessere, il progresso, ma come scrive Michelstaedter «Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» [7] -, incastonati nel «kitsch del comfort morale» [8], ipocrita e perbenista, ritengo che Carlo Michelstaedter si imponga come la personalità-emblema: per l’altissimo tasso alternativo della sua scrittura (si ricordino in tal senso le parole di Asor Rosa: «La persuasione e la rettorica è senz’ombra di dubbio la più anomala ovvero la più eccezionale nel canone delle grandi opere della letteratura italiana» [9]) e perché il suo concetto di «persuasione», opposto a quello di «rettorica», meglio di ogni altro racchiude, compendia il senso più profondo, l’essenza dell’alternativa letteraria, e in generale, non solo italiana.
Michelstaedter, nel suo sistematico processo di ri-semantizzazione delle parole – perché il persuaso, in quanto tale, non accetta, non può accettare il linguaggio prefabbricato, vuoto, privo di significato, di autenticità e di vitalità, non può piegarsi ad indossare gli abiti linguistici vecchi e logori conservati nel «guardaroba dell’eloquenza», ricordando Pirandello [10] -, definisce la «rettorica» «inadeguata affermazione d’individualità» [11]. La sua è una storia secolare, che nasce con il tradimento, con l’abbandono della via socratica da parte di Platone e di Aristotele, e che, salvo rarissime eccezioni, riguarda l’intera storia del pensiero occidentale da Socrate in poi, senza interruzioni. Dunque, riguardando in primis la dimensione ontologica, è evidente che la «rettorica», a cascata, si rifletta su ogni altro aspetto dell’essere, e soprattutto sull’aspetto linguistico, perché per Michelstaedter è proprio attraverso la parola che l’uomo costituisce ed afferma se stesso. Riguardo questo aspetto linguistico – che ricollega in un certo senso la parola «rettorica» al suo senso vulgato – scrive la Taviani che ad essere rettorico «è anzitutto il linguaggio attraverso cui viene veicolato un insieme inautentico di valori, volto ad addomesticare l’esistenza dell’umanità» [12]. Ma anche l’aspetto sociale è interessato, e sottolinea Camerino come il concetto di «rettorica» nel goriziano finisca per investire «gli artifici e i meccanismi a vuoto di ogni aspetto dell’attività produttiva, economica, materiale o anche psicologica, con la quale l’uomo cosiddetto socializzato s’illude di realizzare il movimento della vita e il suo stesso progresso» [13]. Linguaggio e società: è innanzitutto in questi due ambiti che si riflette l’inautenticità esistenziale della «rettorica»; ed è per questo che l’aspra critica michelstaedteriana, nella tesi di laurea come anche nel Dialogo della salute e nelle Poesie, riguarda soprattutto questi due ambiti. Perché, come evidenzia la Taviani, «Michelstaedter intuisce che i valori dominanti di un’epoca sono connessi all’impalcatura rettorica di una società; che a veicolarli sono le stesse abitudini linguistiche di un paese» [14]. E il goriziano, che contro i valori dominanti della propria epoca è in trincea – Michelstaedter il suo conflitto mondiale lo vive in anticipo, dichiarando «Con le parole guerra alle parole», come recita il primo dei quattro versi posti in epigrafe alle Appendici critiche [15] -, si scaglia contro le abitudini linguistiche, le sovverte.
Se la «rettorica» rappresenta il polo negativo della filosofia michelstaedteriana, la «persuasione» rappresenta il polo positivo, configurandosi come adeguata affermazione d’individualità, e indicando quindi, ontologicamente, l’autenticità esistenziale. In particolar modo, come sottolinea Harrison, nel goriziano la parola «è, di norma, sinonimo di autodeterminazione» [16]. «La persuasione è il possesso presente della propria vita» [17], scrive Michelstaedter in un appunto. Dal punto di vista linguistico, la «persuasione» rappresenta «un modo diverso di usare la parola» [18], spingendosi al di là dei significati convenuti; la parola del persuaso è «luminosa» e «crea la presenza di ciò che è lontano». Il persuaso deve creare da zero la propria lingua: «non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c’è ma devi crearla, devi creare il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la tua vita» [19]. Dal punto di vista sociale invece, come scrive Muzzioli, la «persuasione» si impone innanzitutto come «resistenza» alla «rettorica» [20].
Ebbene, tutti i pensatori, gli artisti e gli scrittori alternativi del primo Novecento si impegnano in questa resistenza, «concentrano i loro sforzi nella liberazione della “persuasione” dalla “rettorica”, della necessità soggettiva dall’esteriorità contingente e oggettiva» [21].
3. Pulsioni e nozioni dell’alternativa
Nel Piccolo dizionario dell’alternativa letteraria Muzzioli, domandandosi quali siano le pulsioni dell’alternativa, risponde: «La prima e più elementare è l’insoddisfazione, il fatto che la produzione corrente non fa sviluppare in pieno le facoltà e finisce per atrofizzare gli organi intellettivi. La seconda è la facoltà critica che consiglia di sospendere la naturalezza dell’esistente e di procedere alla demistificazione dei miti, quelle che sono in ogni epoca le verità indubitabili, compresa l’essenza della letteratura sancita dal senso comune. La terza, infine, è il desiderio di libertà: le forme concrezionate dall’abitudine diventano una camicia di forza in cui si sta stretti, si soffre, non si progredisce; un’autentica ricerca di libertà esige che si strappino, che si deformino, che modifichino in qualche modo» [22]. Muzzioli individua poi, come suggerisce il titolo stesso del libro, varie nozioni, che vanno a costituire i tratti fondamentali, caratteristici dell’alternativa letteraria: «allegoria», «avanguardia», «comico», «crudeltà», «espressionismo», «non-sense», «onirismo», «plurilinguismo», «straniamento». Sono queste le coordinate da seguire nella ricostruzione di una storia dell’alternativa letteraria italiana del primo Novecento, con gli scrittori sopracitati che ricorrono tutti almeno ad uno di questi vocaboli. Ancora una volta emblematico il caso di Michelstaedter, nella cui scrittura sono riscontrabili praticamente tutti questi aspetti.
Potrei indagare singolarmente ognuna di queste nozioni, con sintetici riferimenti ai vari scrittori, ma ciò significherebbe andare oltre la proposta. Basti dunque per ora questo disegno progettuale, in attesa di una storia dell’alternativa letteraria italiana del primo Novecento vera e propria, nel nome di Michelstaedter e della sua antitesi «persuasione»-«rettorica», con la consapevolezza che tertium non datur.
NOTE
[1] Francesco Muzzioli, Piccolo dizionario dell’alternativa letteraria, ABEditore, Milano 2014, p. 10.
[2] Ivi, p. 9.
[3] Ricordo il celebre incipit del saggio di Kant Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo».
[4] Per un approfondimento sul romanzo di Mann rimando all’articolo L’evoluzione di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann.
[5] Per un approfondimento su alcuni di questi scrittori, riporto di seguito i link ai rispettivi articoli e studi a loro dedicati:
Gian Pietro Lucini: «Revolverate»: la strage – premeditata – di Gian Pietro Lucini.
Guido Gozzano: Totò Merùmeni ovvero l’anti-dannunziano.
Clemente Rebora: I «Frammenti lirici» di Clemente Rebora: versi nati in odio alla poesia.
Camillo Sbarbaro: Camillo Sbarbaro: «Pianissimo», fino al silenzio.
Carlo Michelstaedter: Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.
Dino Campana: I «Canti Orfici» di Dino Campana: nella poesia, come nella vita, il trionfo dell’irregolarità.
[6] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 88.
[7] Ivi, p. 156.
[8] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, traduzione di Marco Codebò e Fedeico Lopiparo, Castelvecchi, Roma 2017, p. 95.
[9] Alberto Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV, Il Novecento, I. L’età della crisi, Einaudi, Torino 1995, p. 265.
[10] Luigi Pirandello, Il guardaroba dell’eloquenza, in Id., Novelle per un anno, a cura di Sergio Campailla, Newton Compton editori, Roma 2016.
[11] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 98.
[12] Giovanna Taviani, Michelstaedter, G.B. Palumbo & C. Editore, Palermo 2002, pp. 30-31.
[13] Giuseppe Antonio Camerino, La “rettorica” di Michelstaedter e la “Sprachkritik” viennese, in id., La persuasione e i simboli. Michelstaedter e Slataper, Liguori, Napoli 2005, pp. 11-12.
[14] Giovanna Taviani, Michelstaedter, cit., p. 30.
[15] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1995, p. 134.
[16] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, cit., p. 72.
[17] Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 728.
[18] Giovanni Taviani, Michelstaedter, cit., p. 43.
[19] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 103.
[20] Francesco Muzzioli, Michelstaedter, Milella, Lecce 1987, p. 23.
[21] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, cit., p. 20.
[22] Francesco Muzzioli, Piccolo dizionario dell’alternativa letteraria, cit., p. 23.