La coscienza di Zeno: originalità e malattia della vita

La vita non è né brutta né bella, ma è originale!

A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale.

Quando parliamo della Coscienza di Zeno parliamo di uno dei più grandi romanzi della storia della letteratura italiana, se non del più grande in assoluto – ma non è certo mia intenzione perdere tempo nella stesura d’inutili graduatorie (non che il resto sia meno inutile, naturalmente). All’interno del capolavoro sveviano, attorno al tema-madre dell’auto-analisi, dell’esplorazione approfondita della propria coscienza, ruota tutta una serie di temi-pianeti come la malattia, dunque la salute, poiché la seconda trova la sua ragione d’essere solo in funzione della prima, e viceversa, e dell’originalità della vita, che s’impone quale attributo esistenziale capace di superare i canonici criteri estetico-morali. Il tutto incastonato, diciamo così, in una prospettiva filosofico-letteraria – quella dell’autore ovviamente – che rifiuta alcune concezioni caratteristiche dell’epoca, convenzionali quasi, quali il superomismo di marca dannunziana, figlio d’una faziosa e superficiale rilettura del mito nietzschiano, la modernolatria, con l’entusiastica esaltazione della macchina, e la bellicolatria proprie del Futurismo, oramai nella sua fase terminale negli anni di composizione del romanzo, iniziato nel 1919 e pubblicato quattro anni più tardi, nel 1923. E se Svevo si scaglia con polemica ironia contro l’avanguardia soprattutto nelle formidabili righe conclusive della Coscienza – abbattendo i principi di automatizzazione dell’umana esistenza e della guerra come «sola igiene del mondo» -, una vivida manifestazione della sua avversione nei confronti del mito del superuomo la troviamo in un passo di una lettera del 10 dicembre 1927 indirizzata a Piero Jahier, altro grande protagonista di questa feconda stagione letteraria italiana [1]: «Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani)… Il primo che seppe di noi è anteriore al Nietzsche: Schopenhauer, e considerò il contemplatore come un prodotto della natura, finito quanto il lottatore» [2]. Ed è proprio sulla figura del contemplatore, dunque, fondamentalmente, dell’inetto, che Svevo fonda la propria attività letteraria, incentrando su di essa i suoi tre romanzi: Una vita, Senilità La coscienza di Zeno appunto.

Dunque anche Zeno Cosini, l’uomo senza qualità della nostra letteratura – sono numerosi gli aspetti in comune tra il personaggio sveviano ed Ulrich, il matematico trentaduenne protagonista dell’enorme, monumentale capolavoro di Musil [3] -, è un contemplatore, nello specifico un sognatore, perché, come annota Svevo, «Il fumatore è prima di tutto un sognatore» [4]. Il fumo è un altro fondamentale tema-pianeta del romanzo, al quale Zeno, da buon fumatore incallito – il fumatore par excellence della letteratura italiana -, dedica numerose e spesso illuminanti riflessioni, la più significativa delle quali è probabilmente anche la più celebre:

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente [5].

Quest’ultima frase compendia il senso dell’esperienza esistenziale del contemplatore, la cui atavica inclinazione all’illusione, alla fantasia, al sogno è vissuta come uno straordinario conforto. Quando non ironizza sull’altro, e in particolar modo sulle manifestazioni dell’altro da lui più distanti, quale ad esempio il mito del superuomo, il contemplatore si getta in se stesso, sogna, fantastica, ma senza prendersi troppo – o affatto – sul serio, indirizzando l’affilata arma dell’ironia anche contro se stesso. E infatti l’ironia e l’autoironia sono due degli aspetti peculiari della personalità di Zeno, tra quelli in comune con l’Ulrich musiliano.

Concentrando l’attenzione sulla tematica dell’originalità della vita, essa segna il romanzo di Svevo dall’inizio alla fine, ben prima dunque della sua teorizzazione, diciamo così, da parte del protagonista – altra grande dimostrazione della sua ironia – posta in epigrafe. Vi sono poi determinate circostanze, determinati eventi della cosiniana biografia, in cui l’originalità si manifesta in modo così chiaro e beffardo da disarmare, laddove di tale originalità non si è capaci di ridere. Mi riferisco alla rocambolesca storia del matrimonio di Zeno, rifiutato da Ada, da Alberta e infine accettato da Augusta – tra i personaggi femminili più belli, nel senso dostoevskiano del termine, più luminosi dell’intera storia della letteratura italiana -; alla malattia che colpisce e sfigura la più bella delle sorelle Malfenti, Ada, con la salute che benedice invece la più brutta, Augusta; al suicidio involontario di Guido Speier, con il seguente, clamoroso errore di Zeno, che sbaglia funerale, e la seguente ingratitudine di Ada nei confronti del cognato, impegnato a salvare la reputazione di Guido. Si tratta ovviamente solo di alcuni casi, i più evidenti ed emblematici.

A proposito della malattia di Ada, ella contrae il morbo di Basedow. Zeno si getta nel suo studio con interesse, interesse che sfocia in passione ed infine in ossessione, imponendosi anche nella dimensione onirica della sua esistenza. Ed è proprio alla luce di questa malattia che Zeno fornisce la propria originalissima interpretazione della vita e della società.

Ma di Basedow vissi sol io! Mi parve ch’egli avesse portate alla luce le radici della vita la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all’altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro ed un’estremità – quella di Basedow – stanno tutti coloro che s’esasperano e consumano la vita in grandi desiderii, ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall’altra parte quelli che appariscono quale un peso per la società. Pare che questo peso sia anch’esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la rattengono. Io sono convinto che volendo costituire una società, si poteva farlo più semplicemente, ma è fatta così, col gozzo ad uno dei suoi capi e l’edema all’altro, e non c’è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l’umanità, la salute assoluta manca [6].

Significativo, anzi, sintomatico che Zeno fornisca la propria interpretazione della vita e della società ricorrendo alla malattia, assolutizzandola, facendone metafora totalizzante della dimensione umana, adombrando già in queste righe l’ipotesi negativa, pessimistica, o meglio nichilistica dell’impossibilità di una salute piena, completa. Ipotesi che diviene di fatto certezza nella celebre conclusione della Coscienza, in cui la gradevolezza – una gradevolezza che ricorda quella del tepore casalingo in inverno, che ci avvolge e distende i nostri muscoli intirizziti quando rincasiamo dopo aver trascorso molte ore fuori, al freddo e magari anche alla pioggia – del romanzo, dovuta certo alla personalità di Zeno, uomo amabile e piacevole, arguto ed intelligentemente autoironico, ma anche a quella di sua moglie Augusta, sorta di nume tutelare, si schianta di colpo, va in pezzi per non ricomporsi più, concludendosi con questo schianto il libro. Perché sulle ultime pagine della Coscienza, come accade nella Montagna incantata di Mann [7], si allunga l’ombra funesta della guerra, e Zeno, mostrandosi ora sotto una luce nuova, nuova ed inquietante, quella dello speculatore, si abbandona ad un’utopia al rovescio, un’utopia nichilistica che colpisce e frastorna il lettore come un’improvvisa randellata tra capo e collo, lasciandolo riverso a terra privo persino di quelle poche forze necessarie a sussurrare aiuto.

La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà della mancanza di aria e di spazio? Solamente a pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la sua salute.
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: Sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie [8].

Si tratta di un passo davvero straordinario, di uno degli explicit più esplosivi della nostra letteratura e non solo, con la sua clamorosa portata profetica. Sono diversi gli spunti particolarmente interessanti offerti dalla conclusione della Coscienza. Innanzitutto, procedendo con ordine, la considerazione della vita come malattia mortale, in una sorta di processo di radicalizzazione del pensiero di Kierkegaard, verso il quale si è portati naturalmente a pensare. Se per il filosofo danese è la disperazione la malattia mortale, ecco che per Zeno-Svevo è la vita tout court. E non esiste cura, perché l’esito scontato della morte cancella automaticamente ogni possibilità di guarigione. La vita è dunque un morbo incurabile; non solo, il dominio della macchina, nuovo mito moderno esaltato dal Futurismo, e soprattutto dal suo Lider Maximo, F.T. Marinetti, fino al parossismo, priva l’uomo della possibilità della salute: «La vita attuale è inquinata alle radici». Svevo si unisce dunque a quel moto letterario, artistico, filosofico di protesta che si solleva nella prima metà del Novecento contro la macchina, dal quale scaturisce l’Espressionismo – secondo l’interpretazione del suo principale esegeta, Hermann Bahr [9] – e che trova in Italia un altro illustre esponente in Luigi Pirandello, nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore organicamente, ma già nel Fu Mattia Pascal [10], sebbene solo per rapidi accenni. Ma, rispetto alla stragrande maggioranza di quest’impeto critico, che imposta la polemica sul punto di vista dell’umana spersonalizzazione e dell’umana reificazione, Svevo si concentra su un altro aspetto, quello dell’evoluzione, della «selezione salutare». Le macchine arrestano il processo evolutivo dell’uomo, rendendo certamente la sua vita più agevole, ma, proporzionalmente, indebolendolo. Il genere umano prolifera come mai prima nella sua storia, ma è un’umanità debole e malata che affolla il mondo, sovraccaricandolo [11]. E ormai il punto di non ritorno è stato varcato, tanto che solo la distruzione della specie umana e del suo unico habitat può condurlo alla salute. Il termine conclusivo della Coscienza – «malattie» – suggella il romanzo come una pietra tombale. L’opera si conclude nel più nero, negativo, nichilistico dei modi, spazzando via, polverizzando ogni minima, residua traccia di speranza.

M’abbandono con voluttà alla fantasia – del resto sono anch’io un fumatore – che sia io quell’uomo fatto come tutti gli altri, ma degli altri più ammalato, che ruberà l’«esplosivo incomparabile» e s’arrampicherà fino al centro della terra per collocarlo nel punto in cui il suo effetto sarà massimo, causando quella silenziosa – dunque indolore – esplosione che riporterà la terra alla forma di nebulosa, errante «nei cieli priva di parassiti e di malattie». Mi sembra di tenerlo stretto nel pugno questo straordinario esplosivo, e godo dell’opportunità di poter davvero distruggere tutto. Ma un’ideuccia maligna si fa pian piano strada nel mio cervelletto, sghignazzando: rifiutare all’umanità un tale favore.

NOTE

[1] Per un approfondimento sullo scrittore vociano rimando all’articolo Piero Jahier – Un uomo. Un soldato. Uno scrittore.

[2] Citato in Franco Gavazzeni, Introduzione a Italo Svevo, Romanzi, Mondadori, Milano 1985, p. XVI.

[3] Per un approfondimento sul protagonista del capolavoro musiliano rimando agli articoli Ulrich, l’uomo senza qualità. Prima parte, Ulrich, l’uomo senza qualità. Seconda parte.

[4] Citato in Pietro Sarzana, Nota introduttiva a Italo Svevo, La coscienza di Zeno, in Id., Romanzi, cit., p. 643.

[5] Italo Svevo, La coscienza di Zeno, cit., p. 657.

[6] Ivi, pp. 986-987.

[7] Per un approfondimento sul romanzo di Mann rimando all’articolo L’evoluzione di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann.

[8] Italo Svevo, La coscienza di Zeno, cit., pp. 1116-1117.

[9] Per un approfondimento sul saggio di Bahr rimando agli articoli L’Espressionismo è un grido – I, L’Espressionismo è un grido – II.

[10] Per un approfondimento sul romanzo di Pirandello rimando all’articolo Vivo morto, morto vivo… insomma, Mattia Pascal.

[11] È in buona sostanza quanto sostiene anche Carlo Michelstaedter quando, ne La persuasione e la rettorica, scrive: «Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» (Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 156). Inoltre mi permetto di ricordare come Michelstaedter al tema salute-malattia abbia dedicato il suo più celebre dialogo, Il dialogo della salute appunto, giungendo anch’egli alla conclusione dell’impossibilità di una completa sanità – sebbene la riflessione michelstaedteriana, rispetto a quella sveviana, sia inserita all’interno di un contesto prettamente filosofico-morale -. Per un approfondimento sullo scrittore, filosofo e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

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