“[…] Finii con le stesse terre,
finii con un violino spaccato —
e un ridere rauco e ricordi,
e nemmeno un rimpianto.”
ll violinista Jones, Edgar Lee Masters
Sulla mia scrivania giace da qualche settimana l’Antologia di Spoon River, schiacciata come un pezzo di formaggio morbido tra due fette di pane duro, di cui per l’esattezza fanno le veci rispettivamente “Il segreto del Bosco Vecchio” e “Parole nel vuoto”. A parte il sandwich mal assortito, credo che la parola Antologia – dal greco “anthología”, letteralmente “raccolta di fiori” – sia un meraviglioso manifesto introduttivo ad una delle più belle epopee in cui ci si possa imbattere.
Effusioni a parte, se oggi possiamo leggere questi epitaffi rivoluzionari dobbiamo ringraziare Fernanda Pivano e Cesare Pavese: quando la giovane traduttrice chiese al piemontese espatriato quali fossero le differenze tra la letteratura inglese e quella americana, Pavese le portò l’antologia di Edgar Lee Masters come risposta. Lei ne rimase folgorata tanto che cominciò a tradurre poesia per poesia, tutte quelle piccole vite umane raccolte nelle poche parole che ogni abitante del camposanto di Spoon River ha raccontato tramite la penna dello scrittore americano.
Un approccio post-Pivano fu quello decisamente più poetico, in alcuni passaggi persino più elevato di E.L.Masters stesso, concepito da Fabrizio De André nel 1971. Il cantautore genovese arrangiò 9 poesie/tracce estrapolate dall’Antologia, partorendo “Non al denaro non all’amore né al cielo”, album che ricostruisce un coro di voci sincere, che si permettono di parlare con la libertà che in vita non avrebbero potuto avere, trasudando vizi e difetti dalle lapidi impolverate.
A tal proposito, tra i tanti volti che l’Antologia raccoglie ce ne è uno che mi ha destabilizzato a tal punto da costringermi a rileggere compulsivamente le righe a lui dedicate, senza però capacitarmi dell’epifania che mi ha regalato: si tratta del violinista Jones.
Su questo ambiguo personaggio libero ha voluto insistere anche Fernanda Pivano nella breve intervista a De André raccolta sul libretto dell’album dedicato alle voci di Spoon River. Data la sensibilità della scrittrice fu subito chiara la difficoltà che aveva potuto provare De André nell’immedesimarsi ad un personaggio così simile a lui, almeno apparentemente. La risposta è a mio avviso sorprendente:
Pivano: “Comunque sono certa che non deluderai i tuoi ammiratori, perché le poesie le hai proprio scritte tu, con quella tua imprevedibile, patetica inventiva nelle rime e nelle assonanze, proprio come nelle poesie dell’antica tradizione popolare. Ma fino a che punto, per esempio, ti sei identificato col suonatore di violino (Jones, che nel ’71 suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino”.
De André: “Non c’è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per puro divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt’altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un’alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio“.
ll violinista Jones
La terra ti suscita,
vibrazioni nel cuore: sei tu.
E se la gente sa che sai suonare,
suonare ti tocca, per tutta la vita.
Che cosa vedi, una messe di trifoglio?
O un largo prato tra te e il fiume?
Nella meliga è il vento; ti freghi le mani
perché i buoi saran pronti al mercato
o ti accade di udire un fuscìo di gonnelle
come al Boschetto quando ballano le ragazze.
Per Cooney Potter una pila di polvere
o un vortice di foglie volevan dire siccità;
a me pareva fosse Sammy Testa-rossa
quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor.
Come potevo coltivare le mie terre,
— non parliamo di ingrandirle —
con la ridda di corni, fagotti e ottavini
che cornacchie e pettirossi mi muovevano in testa,
e il cigolìo di un molino a vento — solo questo?
Mai una volta diedi mani all’aratro,
che qualcuno non si fermasse nella strada
e mi chiamasse per un ballo o una merenda.
Finii con le stesse terre,
finii con un violino spaccato —
e un ridere rauco e ricordi,
e nemmeno un rimpianto.
Fiddler Jones
The earth keeps some vibration going
There in your heart, and that is you.
And if the people find you can fiddle,
Why, fiddle you must, for all your life.
What do you see, a harvest of clover?
Or a meadow to walk through to the river?
The wind’s in the corn; you rub your hands
For beeves hereafter ready for market;
Or else you hear the rustle of skirts.
Like the girls when dancing at Little Grove.
To Cooney Potter a pillar of dust
Or whirling leaves meant ruinous drouth;
They looked to me like Red-Head Sammy
Stepping it off, to Toor-a-Loor.
How could I till my forty acres
not to speak of getting more,
With a medley of horns, bassoons and piccolos
Stirred in my brain by crows and robins
And the creak of a wind-mill – only these?
And I never started to plow in my life
That some one did not stop in the road
And take me away to a dance or picnic.
I ended up with forty acres;
I ended up with a broken fiddle –
And a broken laugh, and a thousand memories,
And not a single regret.
Così come De André riuscì a cogliere, il violinista Jones è “disponibile” alla vita, la lasci scorrere e non relega il suo amore ad un mestiere, poiché vorrebbe dire privarlo della libertà che lo rende speciale. Per questo morì senza rimpianti.
Chiudo solo ricordandovi che per far si che noi oggi leggessimo questi versi di libertà, Fernanda Pivano fece il carcere (nel 1943 venne pubblicata la prima edizione, considerata degna di censura per il Ministero della Cultura Popolare fascista). Salvò le idee, attraverso un gesto.