Giovanni Costetti, Ritratto di Dino Campana.

I «Canti Orfici» di Dino Campana: nella poesia, come nella vita, il trionfo dell’irregolarità

Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione.

Dino Campana

I. «Irregolarità»: risponderei così se mi domandassero di racchiudere in un solo termine il senso dell’esperienza umana e letteraria di Dino Campana [1]. Parlando dell’ultimo Germano in Italia («des letzen Germanen in Italien»), com’egli stesso si definisce nel sottotitolo dei Canti Orfici, la sua unica opera, non è possibile scindere vita e poesia, perché è proprio sul totale accordo tra vita e poesia che Campana fonda la propria attività letteraria. Una vita tormentata, all’insegna dell’erranza, dell’infrazione, dell’irregolarità appunto, drammaticamente sintetizzabile in poche, pochissime righe:

La sua arte poetica è il frutto di viaggi a piedi attraverso l’Italia e l’Europa, ognuno concluso con uno scontro con la legge e un forzato ritorno alla sua città natale di Marradi, a nord di Firenze. Lo schema si ripete dozzine di volte, persino in luoghi lontani come l’Argentina, e ogni volta Campana è incriminato come alienato mentale; alla fine, durante gli ultimi quattordici anni della sua vita, è rinchiuso in un manicomio (1918-1932) [2].

Tale irregolarità esistenziale si riversa prepotentemente nei Canti Orfici – insieme a La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter, terminata dal filosofo, scrittore e poeta goriziano nel 1910, quattro anni prima della pubblicazione dell’opera di Campana, le due più grandi esperienze-limite della storia della letteratura italiana [3] -, e senza troppe mediazioni. Nei temi ovviamente, e ricordo i due grandi temi dell’emarginazione e dell’erranza, e nelle forme:

I Canti Orfici, tra spunti espressionistici, dinamiche allegoriche e semantiche di contraddizione, insediano una scrittura instabile e insofferente, concitata ai limiti dell’afasia, eccessiva e inquietante, mai accomodata su livelli di normalità ideologico-linguistica, che, sublimando la tradizione, la sperpera e traduce e sopporta il suo essere di passaggio e affonda nelle sue stesse carni la lama di una feconda negazione [4].

Poche, pochissime scritture hanno una forza d’attrazione paragonabile a quella che sprigiona la penna martellante di Dino Campana: leggendo i Canti Orfici si è astretti.

II. Irregolare socialmente, Campana lo è anche letterariamente. La sua poesia non è merce in vendita nel «bazar Giolitti», formula che nel Prospectus I, una delle pagine più drammatiche dei Taccuini, Campana utilizza per definire l’Italia dell’epoca. Del proprio tempo, come Michelstaedter, Campana rifiuta tutto – egli è un uomo-contro, e come ogni uomo-contro la sua visione della vita e del mondo finisce per sfociare in un nichilismo che distrugge ogni presunta certezza -, anche e soprattutto i prodotti letterari:

Come testimonia Ravagli, Campana «ostentava […] un sovrano disinteresse per tutto ciò che allora si andava pubblicando in Italia». Aperte sono le sue critiche alla «commedia» della poesia italiana del suo tempo, alla «gretta e taccagna arte italiana», a «quei cretini dei futuristi e quei superidioti dei fiorentino-napoletani [che] non hanno capito nulla dell’Italia». Insomma alla mancanza della vera poesia: «Il popolo d’Italia non canta più. Non vi sembra questa la più grande sciagura nazionale?» [5].

Dino Campana è il poeta irregolare per eccellenza, non rientra in nessuna delle scuole e delle tendenze letterarie italiane primonovecentesche: Dino Campana fa scuola e tendenza a sé.

III. Campana prova una profonda avversione per l’epoca che gli è toccata in sorte, per la sua società borghese calcolatrice, freddamente razionale, dominata dalla «rettorica» – ricorrendo all’efficacissima terminologia michelstaedteriana -, votata ad una sterile e inutile produttività. Il poeta di Marradi ne rifiuta le convenzioni e i nuovi, vuoti valori, non lasciandosene contaminare, abbandonandosi al proprio destino d’erranza, decretatogli dal Caso. Con l’avvento della Modernità, questo terribile spettro d’acciaio fondato sul mito del “progresso” – ma si ricordi ciò che scrive Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica: «Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» [6], e noi oggi lo sappiamo fin troppo bene, pur facendo finta di niente, pur distogliendo lo sguardo dall’altra parte, illudendoci colpevolmente che tutto vada bene e abbronzandoci alla luce accecante di questo sole nero -, a partire dalla metà del XIX secolo, il poeta è relegato ai margini della società, privato all’improvviso di privilegi secolari, è un diseredato, un desdichado, servendoci del titolo della più celebre poesia di Nerval, si ritrova a far parte dell’altra, oscura faccia dell’umanità, popolata di reietti, di esclusi: ubriachi, vagabondi, folli, prostitute, assassini, suicidi. Questa nuova condizione, straniante e dolorosa, di cronica alterità, descritta per la prima volta eccezionalmente da Baudelaire, il primo vero poeta moderno [7], nel primo quindicennio del Novecento trova in Italia in Dino Campana il suo massimo cantore: insofferente alle convenzionali, ipocrite, benpensanti regole sociali borghesi e alle astuzie mercantili di D’Annunzio e di Marinetti, il poeta di Marradi si consegna alla sua atavica smania di viaggiare, di vivere e di poetare irregolarmente, liberamente dunque. Campana si mette sulla strada e cammina, cammina, riconoscendo in quegli scarti sociali che incontra dei suoi simili, dei suoi fratelli.

E povero, ignudo, felice di essere povero ignudo, di riflettere un istante il paesaggio quale un ricordo incantevole ed orrido in fondo al mio cuore salivo: e giunsi giunsi là fino dove le nevi delle Alpi mi sbarravano il cammino. Una fanciulla nel torrente lavava, lavava e cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi accolse, nella notte mi amò. E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato mistero, nel mio ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la luce della sera d’amore [8].

IV. «La fanciulla che lavava e mi amò, son tutte fantasie», confessa Campana al dottor Pariani [9]. Perché salvo Sibilla Aleramo [10], è nelle prostitute che il poeta trova amore, in un sodalizio d’emarginazione che trascende il mero aspetto sessuale, imponendosi come comunione solidale nell’esistenziale Via Crucis. Le prostitute affollano i Canti Orfici come imponenti vessilli di questa porzione d’umanità drammaticamente esclusa, notturna (nella celebre Chimera Campana si definisce «poeta notturno», evidenziando poi nel Canto della tenebra come «agli inquieti spiriti è dolce la tenebra» [11]):

Salivano voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle al colle. A l’ombra dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludii erano taciuti oramai. La notte, la gioia più quieta della notte era calata. Le porte moresche si caricavano e si attorcevano di mostruosi portenti neri nel mentre sullo sfondo il cupo azzurro si insenava di stelle. Solitaria troneggiava ora la notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e di fiamme. Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso poggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del colle vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero su di una duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore [12].

Campana dona umana dignità alla figura emarginata, condannata della prostituta (come del resto fanno i coevi espressionisti): anche lei, a dispetto del giudizio moralista e perbenista della società borghese, anche lei è una donna come tutte le altre, anche lei sogna. Quando si condanna, quando si punta il dito e si scuote il capo, con ipocrita indignazione peraltro, perché non esiste – non può esistere – uomo illibato, innocente a tal punto da potersi arrogare il diritto di giudicare e biasimare un suo simile, ci si dimentica troppo facilmente della tragedia umana che si cela dietro una tale condizione esistenziale, spesso forzata dalla Necessità (invece di rampognare pedantemente, si dovrebbe piuttosto riflettere su quanto sia disgustosa una società che costringe un essere umano a vendersi, o meglio svendersi, per tirare avanti, no?). E non solo Campana riabilita la prostituta, ma la innalza, conferendole un maestoso fascino attico.

V. Il «poeta notturno» passeggia di notte nella notte come un cane randagio per il porto di Genova. E coglie l’effetto musicale dei suoi passi e del perpetuo andirivieni del mare. Ne scaturisce un ritmo poetico battente, martellante:

BATTE BOTTE

Ne la nave
Che si scuote,
Con le navi che percuote
Di un’aurora
Sulla prora
Splende un occhio
Incandescente:
(Il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il Quais)
Ne la luce
Uniforme
Da le navi
A la città
Solo il passo
Che a la notte
Solitario
Si percuote
Per la notte
Dalle navi
Solitario
Ripercuote:
Così vasta
Così ambigua
Per la notte
Così pura!
L’acqua (il mare
Che n’esala?)
A le rotte
Ne la notte
Batte: cieco
Per le rotte
Dentro l’occhio
Disumano
De la notte
Di un destino
Ne la notte
Più lontano
Per le rotte
De la notte
Il mio passo
Batte botte [13].

Quando la penna di Campana si fa martello e batte un colpo dopo l’altro, ostinatamente, testardamente, ossessionatamente, e ricordo l’omaggio a Campana di Giorgio Caproni [14], intitolato emblematicamente Batteva e contenuto nella raccolta Il muro della terra:

Batteva il nome (proprio
lo batteva, come
si batte una moneta) e il conio
(ma quello ostinatamente
batteva) il senso
(il valore) nel vento
(nel soffio di pandemonio
su Oregina) a strappate
si perdeva col mare
d’alluminio – col morto
fumo della ciminiera
della cisterna, nel lampo
fermo che fermo scuoteva
la lamiera – che ancora,
quello, ostinatamente
batteva (e batteva) (come
si batte una medaglia) nel nome
vuoto che si perdeva
nel vento che, Quello, batteva [15].

VI. Dino Campana odia. Odia il proprio mondo, odia il proprio paese, odia la propria società, odia se stesso. E nei Canti Orfici ci sono luoghi in cui questo odio profondo, irriducibile, innato e dunque invincibile, erompe inondando le pagine, disossandole come un aratro la terra.  Emblematica in tal senso la straordinaria sezione intitolata La giornata di un nevrastenico (Bologna). Una sezione in cui domina l’emarginazione atavica del poeta marradese, una sezione che sprizza giovinezza, freschezza, concludendosi con quell’implorazione a Satana in cui riecheggia evidentemente Baudelaire [16].

1. La vecchia città dotta e sacerdotale era avvolta di nebbie nel pomeriggio di dicembre. I colli trasparivano più lontani sulla pianura percossa di strepiti. Sulla linea ferroviaria si scorgeva vicino, in uno scorcio falso di luce plumbea lo scalo delle merci. Lungo la linea di circonvallazione passavano pomposamente sfumate figure femminili, avvolte in pelliccie, i cappelli copiosamente romantici, avvicinandosi a piccole scosse automatiche, rialzando la gorgiera carnosa come volativili di bassa corte. Dei colpi sordi, dei fischi dallo scalo accentuavano la monotonia diffusa nell’aria. Il vapore delle macchine si confondeva colla nebbia: i fili si appendevano e si riappendevano ai grappoli di campanelle dei pali telegrafici che si susseguivano automaticamente.

***

2. Dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio. Delle ragazze tutte piccole, tutte scure, artifiziosamente avvolte nella sciarpa traversano saltellando le vie, rendendole più vuote ancora. E nell’incubo della nebbia, in quel cimitero, esse mi sembrano a un tratto tanti piccoli animali, tutte uguali, saltellanti, tutte nere, che vadano a covare in un lungo letargo un loro malefico sogno.

***

3. Numerose le studentesse sotto i portici. Si vede subito che siamo in un centro di cultura. Guardano a volte coll’ingenuità di Ofelia, tre a tre, parlando a fior di labbra. Formano sotto i portici il corteo pallido e interessante delle grazie moderne, le mie colleghe, che vanno a lezione! Non hanno l’arduo sorriso d’Annunziano palpitante nella gola come le letterate, ma più raro un sorriso e più severo, intento e masticato, di prognosi riservata, le scienziate.

***

4. (Caffè) È passata la Russa. La piaga delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido. È venuta ed è passata portando il fiore e la piaga delle sue labbra. Con un passo elegante, troppo semplice troppo conscio è passata. La neve seguita a cadere e si scioglie indifferente nel fango della via. La sartina e l’avvocato ridono e chiacchierano. I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal bavero come bestie stupite. Tutto mi è indifferente. Oggi risalta tutto il grigio monotono e sporco della città. Tutto fonde come la neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo dileguarsi di tutto quello che ci ha fatto soffrire. Tanto più dolce che presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo bianco e allora potremo riposare in sogni bianchi ancora.
C’è uno specchio avanti a me e l’orologio batte: la luce mi giunge dai portici a traverso le cortine della vetrata. Prendo la penna: Scrivo: cosa, non so: ho il sangue alle dita: scrivo: «l’amante nella penombra si aggraffia al viso dell’amante per scarnificare il suo sogno….. ecc.»
(Ancora per la via) Tristezza acuta. Mi ferma il mio antico compagno di scuola, già allora bravissimo ed ora di già in belle lettere guercio professor purulento: mi tenta, mi confessa con un sorriso sempre più lercio. Conclude: potresti provare a mandare qualcosa all’Amore Illustrato (Via). Ecco inevitabile sotto i portici lo sciame aereoplanante delle signorine intellettuali, che ride e fa glu glu mostrando i denti, in caccia, sembra, di tutti i nemici della scienza e della cultura, che va a frangere ai piedi della cattedra. Già è l’ora! vado a infangarmi in mezzo alla via: l’ora che illustre somiero rampa con il suo carico di nera scienza catalogale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sull’uscio di casa mi volgo e vedo il classico, baffuto, colossale emissario. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ah! i diritti della vecchiezza! Ah! quanti maramaldi!

***

5. (Notte) Davanti al fuoco lo specchio. Nella fantasmagoria profonda dello specchio i corpi ignudi avvicendano muti: e i corpi lassi e vinti nelle fiamme inestinte e mute, e come fuori del tempo i corpi bianchi stupiti inerti nella fornace opaca: bianca, dal mio spirito esausto silenzioso si sciolse, Eva si sciolse e mi risvegliò.
Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia di luce sanguigna, poi l’ombra, poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vicolo ma dall’ombra sotto un lampione s’imbianca un’ombra che ha le labbra tinte. O Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, o tu che dall’ombra mostri l’infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga miseria! [17]

VII. Nella sezione Pampa riecheggia l’avventurosa esperienza sudamericana di Campana. Il poeta assurge qui «all’illusione universale» e sente nascere infine «l’uomo nuovo». Anche Campana assorbe dunque la nietzschiana teoria del superuomo, ne è affascinato, ma a differenza di D’Annunzio – la cui semplicistica rivisitazione di questo mito, sbeffeggiata dal grande ironista Guido Gozzano [18], fa più danni della grandine, sviando da una giusta valutazione del filosofo di Röcken -, e come Gian Pietro Lucini [19], «l’imprendibilità di quel mito nietzschiano, la sua refrattarietà ad essere coniugato nel presente o per il futuro immediato, innescano un nichilismo fecondo, che fa tabula rasa di ogni certezza» [20].

La luce delle stelle ora impasibili era più misteriosa sulla terra infinitamente deserta: una più vasta patria il destino ci aveva dato: un più dolce calor naturale era nel mistero della terra selvaggia e buona. Ora assopito io seguivo degli echi di un’emozione meravigliosa, echi di vibrazioni sempre più lontane: fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si spense. E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito.
Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio» [21].

Non c’è più alcuna distanza tra l’uomo, «l’uomo nuovo», finalmente libero, e il cielo infinito, non più sfigurato dalla presenza malsana di Dio, supremo emblema della tirannia violenta, dei dogmi arbitrari. La libertà umana porta all’abbattimento della dimensione divina, trascendentale, «l’uomo nuovo» si scopre tutto in se stesso, sufficiente a se stesso, in una concezione filosofica che ricorda molto quella della «persuasione» michelstaedteriana. Se la «rettorica» rappresenta una diffusa e colpevole inautenticità esistenziale – il «Nessun Dio», o il Dio Nessun, di Campana -, è una «inadeguata affermazione d’individualità» [22], la «persuasione» si configura al contrario come adeguata affermazione d’individualità, indicando l’autenticità esistenziale: «La persuasione è il possesso presente della propria vita» [23], è «autodeterminazione» [24], come «l’uomo nuovo» campaniano. E per l’uno come per l’altro, per Michelstaedter come per Campana: tertium non datur.

VIII. La Chimera, ovvero la poesia, e l’Io del poeta sono i due grandi protagonisti dei Canti Orfici. Attorno a loro si muove poi tutta una serie di personaggi senza nome, come la «donatrice d’amore dei porti», come il Russo, violinista e compagno di prigionia di Campana a Bruxelles, la cui penna, così simile a quella del poeta, «scorreva strideva spasmodica». Nella penna del Russo Campana piazza una cospicua quantità di tritolo: ne risultano parole esplosive, devastanti, che abbattono le quattro mura entro le quali i due compagni di sventura sono costretti, rinchiusi come bestie, e proiettandoli nella dostoevskiana grande madre Russia.

Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla sua porta una donna, morta assiderata. E si uccide» [25].

Il Russo e il Regolo sono gli unici due personaggi maschili dei Canti Orfici. E la sezione dedicata all’incontro con Regolo assume un’importanza fondamentale all’interno del libro, perché in essa Campana approfondisce e chiarisce il tema della sua atavica vocazione all’erranza, così importante all’interno della sua esperienza esistenziale e letteraria. Regolo e il poeta non si piegano «a sacrificare alla mostruosa assurda ragione», che tutto livella, uniforma e conforma, sono uomini che prediligono l’istinto, uomini barbari – nell’accezione positiva del termine -, quasi primordiali, autentici e spontanei, immuni al morbo dell’«amorfismo», che de-caratterizza e spersonalizza gli individui schiavi del conformismo borghese, reificandoli di fatto (l’inquietante reificazione dell’essere umano è tra gli aspetti caratteristici della letteratura e dell’arte d’inizio Novecento, la ritroviamo ad esempio in Michelstaedter e nei crepuscolari, che rappresentano gli uomini come cose tra le cose). Insomma, questa irriducibilità all’omologazione sociale di stampo borghese rendono Regolo e il poeta «puri come due iddii […] liberi».

1. Ci incontrammo nella circonvallazione a mare. La strada era deserta nel calore pomeridiano. Guardava con occhio abbarbagliato il mare. Quella faccia, l’occhio strabico! Si volse: ci riconoscemmo immediatamente. Ci abbracciammo. Come va? Come va? A braccetto lui voleva condurmi in campagna: poi io lo decisi invece a calare sulla riva del mare. Stesi sui ciottoli della spiaggia seguitavamo le nostre confidenze calmi. Era tornato d’America. Tutto pareva naturale ed atteso. Ricordavamo l’incontro di quattro anni fa laggiù in America: e il primo, per la strada di Pavia, lui scalcagnato, col collettone alle orecchie! Ancora il diavolo ci aveva riuniti: per quale perché? Cuori leggeri noi non pensammo a chiedercelo. Parlammo, parlammo, finché sentimmo chiaramente il rumore delle onde che si frangevano sui ciottoli della spiaggia. Alzammo la faccia alla luce cruda del sole. La superficie del mare era tutta abbagliante. Bisognava mangiare. Andiamo!

***

2. Avevo accettato di partire. Andiamo! Senza entusiasmo e senza esitazione. Andiamo. L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente. Ci sentiamo puri. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione. Il paese natale: quattro giorni di sguattero, pasto di rifiuti tra i miasmi della lavatura grassa. Andiamo!

***

3. Impestato a più riprese, sifilitico alla fine, bevitore, scialacquatore, con in cuore il demone della novità che lo gettava a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre, quella mattina i suoi nervi saturi l’avevano tradito ed era restato per un quarto d’ora paralizzato dalla parte destra, l’occhio strabico fisso sul fenomeno, toccando con mano irritata la parte immota. Si era riavuto, era venuto da me e voleva partire.

***

4. Ma come partire? La mia pazzia tranquilla quel giorno lo irritava. La paralisi lo aveva esacerbato. Lo osservavo. Aveva ancora la faccia a destra atona e contratta e sulla guancia destra il solco di una lacrima ma di una lagrima sola, involontaria, caduta dall’occhio restato fisso: voleva partire.

***

5. Camminavo, camminavo nell’amorfismo della gente. Ogni tanto rivedevo il suo sguardo strabico fisso sul fenomeno, sulla parte immota che sembrava attrarlo irresistibilmente: vedevo la mano irritata che toccava la parte immota. Ogni fenomeno è per sé sereno.

***

6. Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione e ci lasciammo stringendoci semplicemente la mano: in quel breve gesto noi ci lasciammo, senza accorgercene ci lasciammo: così puri come due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all’irreparabile [26].

IX. Dino Campana ha pagato a caro, carissimo prezzo la sua irregolarità, a livello umano con continui arresti e internamenti forzati in manicomio, fino a quello definitivo del 1918, a livello letterario con l’impossibilità di incanalare la sua ispirazione sovraccarica, vulcanica, abnorme in più opere unitarie, organiche. Considerando la grandezza di Campana, il suo genio poetico, capace di fondere più arti – la letteratura, la pittura, la musica -, si prova quasi stupore dinanzi al fatto che egli, estroso demiurgo, sia riuscito a creare un solo libro. Ma sono considerazioni sciocche e inutili le mie, perché al cospetto dei Canti Orfici – che Campana, come testimonia Sbarbaro [27], «portava addosso come un certificato di nascita» (e torniamo dunque all’inizio, alla fusione di vita e poesia) – si resta incantati dal talento visionario del loro autore, e non si può che giudicare l’opera come una delle più grandi dell’intera storia della letteratura italiana, dunque mondiale, e la più eccezionale, insieme alla tesi di laurea mai discussa di Carlo Michelstaedter.

NOTE

[1] Per un approfondimento sulla rocambolesca vita del poeta di Marradi rimando all’articolo L’anticristo. La tormentata esistenza di Dino Campana.

[2] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, traduzione di Marco Codebò e Federico Lopiparo, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 34-35.

[3] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[4] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, NIS, Roma 1986.

[5] Renato Martinoni, Introduzione a Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, Einaudi, Torino 2014, p. XXX.

[6] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 156.

[7] Per un approfondimento sul poeta francese rimando all’articolo Charles Baudelaire, il primo poeta moderno.

[8] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, cit., pp. 17-18.

[9] Carlo Pariani, Vite non romanzate, di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, SE, Milano 2002.

[10] Per un approfondimento sulla tormentata storia d’amore tra i due scrittori rimando all’articolo Dino Campana e Sibilla Aleramo, un amore devastante. Su «iMalpensanti» è inoltre possibile leggere una scelta dell’ampio carteggio tra i due amanti.

[11] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, cit., pp. 25 e 30.

[12] Ivi, pp. 19-20.

[13] Ivi, pp. 60-61.

[14] Per un approfondimento sul poeta nato a Livorno rimando alla serie di articoli Caproni in itinere.

[15] Giorgio Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti, Milano 1989, p. 318.

[16] Per la lettura e l’analisi della poesia raccolta all’interno dei Fiori del Male rimando all’articolo Charles Baudelaire – Rivolta – Le litanie di Satana.

[17] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, cit., pp. 84-86.

[18] Per un approfondimento sull’ironica critica di Gozzano a D’Annunzio e al suo mondano superomismo rimando all’articolo Totò Merùmeni ovvero l’anti-dannunziano.

[19] Per un approfondimento sul poeta milanese rimando all’articolo «Revolverate»: la strage – premeditata – di Gian Pietro Lucini.

[20] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, cit.

[21] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, cit., pp. 95-96.

[22] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 98.

[23] Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 728.

[24] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, cit., p. 72.

[25] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, cit., p. 100.

[26] Ivi, pp. 111-112.

[27] Per un approfondimento sul poeta ligure rimando all’articolo Camillo Sbarbaro: «Pianissimo», fino al silenzio.

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