Camillo Sbarbaro: «Pianissimo», fino al silenzio

Estraneo all’imperioso e ruggente attivismo ideologico e culturale del primo Novecento italiano, Camillo Sbarbaro rivolge il suo scabro sguardo, con quegli occhi «implacabili» e «crudelmente asciutti» – due pozze secche e polverose, ideali habitat del cigno baudelairiano -, dentro se stesso, osservandosi nudo «come quando nacqui». Una atavica necessità di esplorazione della propria interiorità, mossa dall’inattuale ricerca di autenticità, caratterizza i versi del poeta ligure raccolti in Pianissimo, volume pubblicato nel 1911 presso le edizioni della «Voce». Ma questo profondo e accurato scandaglio della propria coscienza non porta affatto all’esclusione della dimensione reale; perché è proprio attraverso il rapporto – inevitabilmente conflittuale – con l’esterno che l’Io poetico può misurare, valutare, conoscere se stesso. Così in Pianissimo Sbarbaro realizza e fornisce un ritratto straordinario della città moderna, luogo per eccellenza della solitudine e dell’alienazione, dell’abbandono e della separazione. Emblematici i versi di Esco dalla lussuria. M’incammino:

Che la città mi pare
sia fatta immensamente vasta e vuota,
una città di pietra che nessuno
abiti, dove la Necessità
sola conduca i carri e suoni l’ore.
A queste vie simmetriche e deserte
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità.

Vagabondo nell’impero della «Necessità», in questa sorta di simmetrico panopticon petroso dominato dal vuoto, il poeta si scopre simile a ciò che lo circonda, ciò nel quale svagatamente si muove, immobile e indifferente. Sulla scia di Baudelaire [1], il poeta concentra l’attenzione sui reietti, sui diseredati, ubriaconi e prostitute, di cui godere senza trasporto, senza orgasmo, ma solo per inerzia. È questa ora la compagnia del poeta, relegato dalla tirannide borghese ai margini della società, lasciato marcire nella sua improduttività, nella sua inutilità.

Nella poesia di Sbarbaro, contrariamente ad alcuni dei suoi colleghi illustri animati, come lui, dall’avversione per la letteratura istituzionalmente borghese – Michelstaedter [2], Lucini [3], Rebora [4] -, non c’è spazio per la morale, per l’impegno. Sbarbaro non impugna la penna come fosse un revolver, ma si abbandona alla sua «rassegnazione disperata». Un solo invito, sussurrato pianissimo, al silenzio, collocato in apertura di entrambe le sezioni della raccolta, con quel «Taci» che «comprime l’espressione e tronca il canale comunicativo. Proprio sulla “voce” – termine emblematico, qui – si riversa la sfiducia: l’uso consueto del linguaggio tendente a creare legami artificiosi e fittizi, schermi e falsi scopi, ad occultare gli “abissi” dell’estraneità, fa sì che la parola si riduca a “buccia” vuota e a “rumore” fastidente (insomma, protesta Sbarbaro, “ogni voce m’importuna”). L’armonia verbale è ormai una “sirena” perduta. Se ancora il suono vale a produrre propulsioni vitali o ebrezze dionisiache, è soltanto un suono povero e insensato: o la “facile melodia” del “motivo di ballo” che gira sull’organetto; oppure lo sgolato “canto d’ubriachi” – nell’ebrezza tuttavia “amara”, le lacrime che si producono sono “scarse” e “sciocche”» [5].

Disumano e blasfemo – si ricordi il primo verso del Prologo del Vangelo giovanneo: «In principio era il Verbo» – questo «Taci», che elimina la primaria fonte di comunicazione umana e divina.

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.

Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo,
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con occhi asciutti me stesso.

Indifferente, insensibile al piacere e al dolore, il poeta si abbandona alla sua «rassegnazione disperata». Non c’è spazio per nessun sentimento: né rimpianto né ira né speranza né tedio. Niente di niente. Ci si trova in una sorta di stato comatoso in cui ogni differenza tra vita e morte è annullata. Si cammina per inerzia – si copula per inerzia -, in uno stato d’incoscienza che riduce l’essere ad automa, in un inquietante processo di reificazione dell’individuo che è tra i temi dominanti della letteratura italiana primonovecentesca: tratto tipico dei crepuscolari [6], lo ritroviamo anche in Michelstaedter e in molti altri scrittori dell’epoca. E teatro di tutto ciò non può che essere il «deserto», il mondo, il mondo intero ridotto a deserto, dove «tutto è quello / che è» – non c’è margine neppure per la consolazione del sogno, dell’illusione, della rêverie -, luogo inospitale per eccellenza, nel quale al poeta è concesso solo rivoltare lo sguardo, ribaltare gli occhi e puntarli dentro se stesso. Non troverà niente di particolare, ma solo un uomo vermescamente nudo come alla nascita.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul poeta francese rimando all’articolo Charles Baudelaire, il primo poeta moderno.

[2] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

[3] Per un approfondimento su Lucini rimando all’articolo «Revolverate»: la strage – premeditata – di Gian Pietro Lucini.

[4] Per un approfondimento su Rebora rimando all’articolo I «Frammenti lirici» di Clemente Rebora: versi nati in odio alla poesia.

[5] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, NIS, Roma 1986, p. 198.

[6] Sanguineti definisce l’umana reificazione «il più scoperto simbolo della sensibilità crepuscolare e del suo linguaggio poetico» (Edoardo Sanguineti, La poesia di Carlo Vallini, in Carlo Vallini, Un giorno e altre poesie, a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1967, p. 19).

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: