Il Bene e il Male abburatto e distillo;
più che amicizia eleggo odio palese.Gian Pietro Lucini
Superbo ribelle animato da utopici e rivoluzionari ideali anarchico-democratici, e come tale intollerante alla tirannide borghese, con i suoi guerrafondai celodurismi coloniali, con i suoi ipocriti perbenismi sociali, nella solitudine fiera dell’uomo di Cultura, Gian Pietro Lucini premedita una strage. Ed ecco che, scelta «l’arme sicura», prende la mira e, «senza paura», spara, con il braccio fermo e la precisione del cecchino consumato spara, compiendo una carneficina. Le sue Revolverate, pubblicate nel 1909 nelle edizioni della rivista futurista «Poesia», con prefazione di Marinetti – futurista Lucini non lo è mai stato, ma con l’avanguardia condivide aspetti che Marinetti sottolinea con la consueta enfasi nella prefazione, e soprattutto gli odii sono i medesimi, con il “Líder Máximo” che dimostra di apprezzare in particolar modo l’innovativa teorizzazione del verso libero proposta dal poeta lombardo l’anno precedente [1] -, vanno tutte, chirurgicamente, a segno. I bersagli, abbattuti come sagome di cartone, sono i più beceri esponenti della tirannide borghese.
«La poesia di vendicazione di Lucini è mirata contro le carogne sociali, i lerci rappresentanti di una borghesia al potere tronfia e gaglioffa. Un colpo al borghese, conquistatore coloniale, esotico casanova, razzista impettito, e un altro al self made man, che nel denaro adora il suo dio. Un colpo al militarista, che fa dono galante di “liuto, spada e coraggio temprato come i cannoni Krupp”, e un colpo al dongiovanni, imberciatore da bordello. Un colpo alle dame di corte, che hanno occhi per vedere solo lo scandalo delle prostitute, e un colpo alle belle donne di buona società, eccitate dal nuovo eroe, il criminale in tribunale. Una pallottola per le barbe lombrosiane della scienza, che, discutendo di criminologia, sentenziano che pure il proletariato è categoria antropologica, e una pallottola al prete borghese, che ha rinnegato il Cristo esseno e rivoluzionario e nel chiuso del collegio pratica la sodomia. Una pallottola al mestierante politico democratico-progressista per suo tornaconto, gattopardesco sotto le date parole, e una pallottola per tutti gli dei e i miti, morti e aboliti. Ce n’è per ciascuno, per il re e per i suoi infanti, accolti dalla stupidità del tripudio nazionale; ce n’è per gli imbecilli canuti e astuti, efebi studentini e rapinose Arpie, Arpagoni sfrenati e moralisti corrotti: tutti stipati in una galleria grottesca, di molti si addita nome e cognome in una lirica che vuole essere d’occasione e di provocazione» [2].
Insomma, una mattanza. Ma in difesa di chi, Per chi?…, come si domanda Lucini stesso nel secondo componimento di Revolverate, successivo ad Autologia. Queste le sue domande-risposte:
Ed è per voi, acefale ed oscure falangi,
uscite da un limbo di nebbie e di fumi,
tra il vacillar di fiamme porporine, in sulla sera,
dai portici tozzi e sospetti di nere officine?
ed è per voi, pei quali non sorride il sole,
schiavi curvi alla terra, che vi porta,
e rinnovate al torneo dell’armata,
ma non vi nutre, vostra?
ed è per voi, pallide teorie impietosite
di giovani, di vecchie e di bambine
inquiete tra la fede e i desiderii,
tra la tentazione della ricca città
e il pudor permaloso della verginità?Per chi, per chi, questa lirica nuova,
che bestemia, sorride, condanna e sogghigna,
accento sonoro e composto dall’anima mia,
contro a tutti, ribelle e superbo,
in codesto rifiuto imperiale d’astrusa prosodia?… (vv. 23-40)
Lucini, e lo dichiara programmaticamente, a scanso di equivoci, afferra il revolver e semina il terrore in nome delle vittime senza nome e senza voce della tirannide della borghesia – della Storia, verrebbe la tentazione di dire, assolutizzando i termini -: «prostitute, prima sognanti sartine e poi sfatte larve sui marciapiedi del trivio; operai avvolti dal fumo di mostruose officine; contadini curvi su una terra ostile e non loro; e tutti i traditi della storia, vecchi, giovani e bambini stritolati dalla morsa della opulenta società borghese» [3]. Il rettorico benessere della borghesia non è innocente, non è pacifico, ma costa un prezzo altissimo, eccezionalmente spropositato, disumanamente spropositato: il sudore e il sangue di una moltitudine muta destinata ad una misera fine senza riscatto. È nel nome di questa moltitudine della consistenza, o meglio inconsistenza di un esercito di spettri – al cospetto dell’indifferenza borghese, perché un corpo c’è, eccome, e soffre -, che Lucini «modella uno dei pochissimi esempi significativi di poesia civile, democratica e rivoluzionaria, che il Novecento italiano conosca» [4]. Ma non solo, perché Lucini sa fin troppo bene che il suo messaggio sovversivo ed egualitario non può raggiungere le «masse oscure degli umili», citando l’incipit dell’articolo di Carlo Michelstaedter, altro grande, grandissimo ribelle superbo di quegli anni critici e al tempo stesso fecondi, dedicato a Tolstoj [5]: «Il “per chi” delle Revolverate, allora, si sdoppia. Il vero destinatario è da venire, indefinitamente futuro; e il fruitore, il “per chi” immediato di una letteratura che si consuma entro un apparato di produzione e di trasmissione detenuto dalle classi dominanti, si identifica in colui, borghese, che voglia rinnegare ideologicamente la sua stessa estrazione sociale e rivolgere su di sé, maschera smascherata, il ghigno satanico, le saette intossicate della poesia» [6].
Lucini parla al futuro borghese penitente dunque, e qui mi sento chiamato in causa – sperando che si sentano chiamati in causa anche alcuni di voi -. Ma consideriamo il nostro tempo, per concludere, consideriamo la nostra epoca, questo nostro nuovo millennio – già vecchio in realtà, già morto, o forse mai nato, o forse addirittura nato morto -. Cosa vediamo? Che la tirannide borghese ha raggiunto la sua forma più perfetta, ideale, avvelenando anche le «masse oscure degli umili», fagocitandole, assimilandole, annichilendole, cancellandole in definitiva; che la letteratura italiana è morta e la Cultura distrutta. Allora sorge spontaneo il dubbio se più che rivolgere il revolver contro il mondo, andandosi a infrangere contro un muro di gomma, non sia più opportuno rivolgerlo contro se stessi, e farla per sempre finita. Come dei due superbi ribelli della letteratura italiana del primo Novecento – tre, aggiungendo Dino Campana – uno ha già fatto: Carlo Michelstaedter, sparandosene due di colpi di pistola alla testa, tanto per essere sicuro di morire.
NOTE
[1] Scrive Marinetti nella Prefazione futurista:
«Del Futurismo, G. P. Lucini è il più strano avversario, ma anche, involontariamente, il più strenuo difensore.
Il suo spirito socratico, la sua cultura enorme, il suo isolamento doloroso dagli esseri e dai frangenti reali ne fanno un uomo che serba tenace gli amori per molte varie propaggini del Passato. Egli ha dichiarato di non essere un settatore del Futurismo. E sia. Ma se non tali i suoi amori, tutti i suoi odî sono i nostri. L’intera sua mirabile azione letteraria si risolve in un’avversione implacabile delle formule cieche ed impure onde cosí spesso la Poesia italiana, anche celebratissima, è andata rivestendosi, specie in questi ultimi anni di equivoca fortuna, e il Lucini ha strenuamente combattuto queste viete forme consunte, nella sua opera magistrale: Il Verso libero, che è senza dubbio una delle più alte, delle più sfolgoranti vette del pensiero umano».
[2] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, NIS, Roma 1986, pp. 82-83.
[3] Ivi, p. 83.
[4] Ibidem.
[5] Per la lettura e l’analisi dell’articolo del filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando all’articolo Michelstaedter e Tolstoj, «l’apostolo del popolo».
[6] Marcello Carlino, Francesco Muzzioli, La letteratura italiana del primo Novecento, cit., p. 83.