Combattere anche bendati, ma combattere: è il nostro destino.
La prima guerra mondiale sembra offrire finalmente a tutti quegli spiriti combattivi e rivoluzionari come Lorenzo Viani, l’occasione per cambiare davvero le cose. E Viani si arruola, impegnato come molti altri colleghi in prima linea. Il viareggino tiene un diario, pubblicato postumo con il titolo Il romito di Aquileia. Pagine dense, in cui emerge con violenza tutto l’orrore bestiale e gratuito della guerra, e tutta la disillusione dell’autore. Altro che «rivoluzione», la guerra non è altro che massacro, un mattatoio a cielo aperto in cui si tritura a ritmi folli carne umana. E la scrittura si adegua alla terribile circostanza:
«Io qua scrivo come si fa la guerra, a ondate confuse come l’ondate del mare nei giorni di libeccio. E le mie parole sono come una folla, che va lo stesso al suo destino, senza comando e senza disciplina, verso la morte, termine estremo della poesia» [1].

Nei quaderni e nei fogli sparsi, occasionali, svolazzanti dove fissa la propria testimonianza dell’incubo bellico, il tono di Viani non è uniforme, ma oscilla, tra il delicato lirismo, che ricorda certi luoghi ungarettiani, e il brutale espressionismo, che scaraventa la realtà sulla pagina così com’è, terribile, disgustosa, orrorifica, assurda, ma assurdamente vera:
«Puzzo di piedi e di carne sudicia
centomila mosche fra la merda e la carne congelata
migliaia di giacchette pidocchiose, mutande merdose, calze inzuppate di sudore marcio.
Soldati nudi che si spidocchiano, schiene morsicate spellate con le unghie.
Piedi lessi di sudore, sbiancati e rossi di sangue.
Lettere care sporche di sterco.
Elmetti con cotenna e ciuffi di capelli
Barelle nere di sangue fratello» [2].
La guerra mostra il suo vero volto e arriva persino a mettere in dubbio l’ideale anarchico, nel nome del quale ci si è messi in marcia e ci si è gettati in trincea:
«Per essere anarchici bisogna credere nella bontà dell’uomo. Nell’uomo che, bontà di Dio, nasce buono. Ma quando s’è fatta, vissuta, veduta, toccata la guerra e gli uomini in guerra, chi può credere più nella bontà dell’uomo?» [3].
La guerra distrugge dunque quella fiducia nel genere umano che è premessa necessaria, fondamentale dell’anarchia. Lorenzo Viani sopravvive, riesce a riportare a casa la propria pellaccia dura, e dopo qualche anno dalla conclusione della guerra trova un nuovo sbocco artistico nella scrittura: nel 1922 esce la biografia sui generis del Generalissimo del Manipolo d’Apua, Ceccardo, nel 1923 Gli ubriachi, nel 1925 Parigi, nel 1926 I vàgeri, nel 1929 Ritorno alla patria. In quest’ultimo romanzo Viani racconta proprio la drammatica esperienza bellica, rielaborando molti degli spunti fissati a caldo nei diari. Protagonista è l’anarchico Tarmito, il volto «crivellato, accapponito dal vaiolo», il quale, dopo un viaggio d’iniziazione – molto campaniano – in Sud America, parte volontario per il fronte, illuso anch’egli della portata rivoluzionaria della guerra:
«Rivoluzione! A questa parola il cielo gravido di presentimenti, si oscurò e tacque: incendio che purifica e illumina. Questa parola, eruttata per tanti anni dall’anima come da un cratere, di cui s’era visto soltanto i bagliori nelle ore di allucinazione, che aveva spaventato il dogmatismo codardo dei sedentari, strozzata la circolazione ai timorati, aveva, finalmente, trovato delle baionette. Essa, cinta di tutte le fiamme, ardeva sui confini della Patria, non più espressione di dogane, ma luogo ove si combatte e si muore.
Guerra: parola grande e terribile. Egli ha detto:
– Combattere anche bendati, ma combattere: è il nostro destino» [4].
In Ritorno alla patria non può mancare una delle associazioni più ricorrenti e toccanti di Viani nei diari, l’associazione soldati-Cristo, guerra-Calvario:
«Da un camminamento s’udì dialogare con affanno, quattro portatori soppesavano un soldato morto, il morto era ravvolto in un telo da tenda piombato, e giaceva su quattro rami di faggio tagliati nelle selve di Santa Gendra, i ratei mondati essendo in succhio, pareva gemessero lacrime, dei ramelli mettevano foglie verdi sul morto. I portatori lo soppesavano con amore, quasi dovesse dolersi per i trabalzi, pareva che nel camminamento passasse il catafalco del venerdì santo con Cristo piagato e sanguinante.
– Stanotte una scheggia.
– S’è dissanguato adagio adagio.
– Non ha sofferto niente.
– Sempre più diventa peso.
I cristiani si fecero il segno della Santa Croce e pensarono alla lanciata del costato e ognuno sentì un rivolo caldo di sangue sgorgare dal cuore.
– Di dove scendete?
– Dal Calvario» [5].

Il Calvario diviene l’ideale immagine rappresentativa del destino drammatico dei soldati: in ognuno di essi Viani vede un Cristo. Ed è così che le migliaia e migliaia di vittime ignote di «questa mondiale sagra della morte», ricordando Mann e la conclusione drammaticamente bellica della Montagna incantata [6], si affiancano ai vagabondi, ai vàgeri già protagonisti dell’opera artistica e letteraria di Viani, in un sodalizio di disperati a cui ogni riscatto è negato.
La scrittura espressionista di Viani si esalta in questo inferno, in queste Malebolge in superficie, e soprattutto quando la sua penna acuminata si getta nella mischia, nel caos della battaglia:
«Fuoco d’interdizione. I cannoni come bestie che avessero incendiato il capo e bruciata l’anima spurgano, schizzano boccate di fuoco. Denti verticali spezzano l’armatura delle trincee. Furie avvolte nella fumacea schiantano barbe di alberi e scentano la paniccia della terra grumata. Piove terriccio sugli occhi e sul collo. Il mondo pare incenerito, il pensiero non ha ricetto sicuro nel teschio bollente, il mondo si concentra nella tazza d’osso. Lo spazio è interdetto. Grandina pietrame. Le mitragliatrici colte dal tremito macinano sassi, le bombarde orribili bodde squacquerano gargarismi, reciono a strosci, si dirombano sui reticolati. Sito d’aglio. Campane di naufragio. I soldati si trasformano in piccoli elefanti che si piantano la proboscide nel petto e camminano a zampe ritte. Sotto il mostro dagli occhi verdi e la testa di ferro c’è chi cerca disperato Iddio.
Spaventosi uccelli di rapina. Ombrelli giganteschi rovesciati dal temporale. Trapani d’aria al trivello dei teschi. Sibilo che fischi sulla volta del cranio aggelandola. Pacca di monte sul pietrame, spicinìo di una fiancata. Testa che diaccia il cervello in nero e assidera il pensiero, capelli freschi come la ruta che marmano la cotenna.
– Voglio sentire se sono vivo.
Una tazza di latta ruggine manda il sangue in acqua; dopo un lavaggio al cuore scende a bozzigliare nei piedi, trasuda nelle scarpe. Gli anaci fanno pensare a una selva fiorita al di là del parapetto, ogni soldato sente un rametto in bocca.
Il temporale torba sull’Isonzo, il fiume alita nebbia tufata che si scioglie nel cielo, pioviggina fuligine. Nuvole dense soffiano sul pietrame, la terra ingorga uno schianto e lo schizza in pietrisco. Ranocchiaie mostruose sorseggiano l’acqua marcia. I soldati mettono fuori una mano, la tendono: piove. La trincea si ripopola. Le granate s’appozzano nella melma.
Il soldato Pieroni, un buttero sanguigno con un cecio paonazzo sul naso ciccioso, glabro, coperto di pel gattino, dice: – Ci siamo.
– E nessuno ci si leva!
– La morte» [7].
Anche il Tarmito viene colpito, un colpo gli sfascia la faccia già crivellata. Sono le righe conclusive del romanzo:
«Il Tarmito si sentì nelle vestimenta come in uno stampo sotto il voltone rovente di una mattonaia. Il Calvario s’aspettava che si rovesciasse su gli uomini. La terra su cui il Tarmito posava i piedi parve alzarsi ed abbassarsi non altrimenti che il ventre di un animale che palpita nel morire.
Gli schizzi dell’acqua piovana, il pietrisco, il pietrame, la terra impalpa, il boddume volastro dei sacchetti sbudellati battevano sui visi come placente mostruose. La tenebra inghiottì i chiarori. Tutti accecarono. Nei lampi i pensieri abbagliati s’occultarono nell’ossa forate, dettero al teschio la ròsa dei pidocchi pollini: sciolti dal sangue, colarono dal naso.
Il fiume straripato portava le paure annegate a sbattere contro le ripe. La canna diaccia d’una pistola sigillò a freddo la tempia del Tarmito. I pensieri gli appinzarono il viso come vespe. Egli soppesò le bombe. Si sentì il capo macinato tra le pietre, s’alzò accecato, una mandibola ciondolava come un morso. Egli la tenne su con un pugno. Le cavità del teschio, turbinate dal vento, a guisa di enorme conchiglia marina, risoffiarono il fragore della tempesta. Il dissanguamento rattrappò l’arto potato, la bocca, ridotta una voragine, abbaiò:
– Ma. Ma… mma!» [8].
Ma anche il Tarmito, come Viani – lui per sua fortuna tutt’intero -, riesce a salvarsi e tornare in patria. Viani, scampato al macello, decide di afferrare con continuità la penna, decide di dedicarsi alla letteratura oltreché all’arte, dando la voce a tutti quei poveri disgraziati nei quali si è imbattuto durante la sua Via Crucis, che avrà fine nel 1936, sul litorale romano, a Ostia, a causa di un collasso cardiaco.
NOTE
[1] Lorenzo Viani, Il romito di Aquileia.
[2] Ivi.
[3] Citato in Ida Cardellini Signorini, Lorenzo Viani: disegni e xilografie, La nuova Italia, Firenze 1975, p. 331.
[4] Lorenzo Viani, Ritorno alla patria, Alpes, Milano 1929.
[5] Ivi.
[6] Per un approfondimento sul celebre romanzo di Mann rimando all’articolo L’evoluzione di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann.
[7] Lorenzo Viani, Ritorno alla patria, op. cit.
[8] Ivi.