Lorenzo Viani rappresenta e dà voce ai cani randagi, facendosi cane randagio egli stesso. Anche Viani, come molti, moltissimi altri artisti e scrittori dell’epoca, subisce il fascino di Parigi, aberintandovisi per la prima volta – non sarà l’unica – nel 1908. Del tutto alla ventura, come richiede l’ideale manuale del vàgero:
«Un bel giorno lasciai Viareggio diretto a Parigi, senza conoscenze, con poche lire e senza sapere una sola parola di francese. Tiriamo un velo sul resto, patimenti, fame, umiliazioni, freddo, disperazione, angoscia, la cronaca è inutile, sono mille i casi miei, la viltà borgese è grande nelle città, più grande della misericordia di Dio» [1].
Lorenzo Viani, Sulla Senna.
La metropoli, figlia del “progresso” – giustifico le virgolette ricorrendo a Carlo Michelstaedter: «Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» [2] -, il nuovo idolo moderno, sbatte dritto in faccia all’artista, con inaudita crudeltà, tutta la sua gratuità, tutta la sua inutilità – lui, l’essere socialmente improduttivo per eccellenza in una società dominata dal valore della produttività -, scaraventandolo ai margini, costringendolo a fare la fame in un luogo in cui regna sovrana l’indifferenza. E tutto questo a Viani, figlio di ben altra realtà, della provincia italiana, fa male come un pugno nello stomaco:
«Qui si può vivere ignorati come in un deserto, e se in questo esilio potrò compiere qualche piccola cosa che mi tenga ancora attaccato alla vita, sarà bene, lavoro molto molto molto… Quando sarò nell’altra vita diventerà una qualità aver mangiato pane secco per qualche settimana e saliva avvelenata tutti i giorni pur di lavorare a quello che la mia anima spingeva» [3].
Lorenzo Viani, Il cortile della Ruche.
A Parigi Viani si fa davvero vàgero: vivere diviene brutalmente sopravvivere. E della sua prima esperienza parigina il viareggino ne fa un romanzo, intitolato appunto Parigi e pubblicato nel 1925. Dall’opera emerge un ritratto impietoso della capitale francese; il mito di Parigi viene completamente ribaltato, distrutto. Altro che Ville Lumière, città tutta luci, colori e divertimenti – di cui ancora oggi siamo costretti a subire lo stereotipo (si pensi alla pellicola Midnight in Paris del seriale Allen) -, Parigi, attraverso il racconto di Viani, si impone come la patria dei diseredati, dei reietti, dei disperati, dei suicidi, ed è inevitabile che sia così essendo la città di Nerval, el desdichado impiccatosi in rue de la Vieille-Lanterne, e del suo caro amico Baudelaire, il primo poeta moderno cantore di paradisi artificiali e di muse venali [4]. Come scrive Viani in conclusione del romanzo, Parigi è un «immane ergastolo». Al suo sguardo stravolto di cane randagio senza un soldo bucato in tasca e affamato – in alcuni luoghi, nella sua intensità allucinata, l’opera di Viani ricorda Fame, il capolavoro di Knut Hamsun [5], come il viareggino lasciato precipitare nell’oblio per le sue idee politiche, senza dubbio biasimevoli, ma di cui non c’è la benché minima traccia nei loro libri [6]-, la Tour Eiffel non è che una «mostruosa siringa che buca il cielo col suo parafulmine», Notre-Dame un «vascello in perdizione», il Pantheon un «gran cisternone», il Musée du Luxembourg un «grande lavatoio». Viani abbatte con la sua penna-piccone il mito di Parigi e i suoi eroi: Picasso su tutti, che giudica severamente:
«La mia cartella era polpa d’acqua, i cartoni si erano qua e là sgallati, Sagot stesso sciolse i legaccioli; per esaminar meglio i miei lavori s’appinzò sul naso le lenti e nell’osservare i fogli sembrò un usciere quando legge la sentenza. Dopo poco il vecchietto friggeva gli occhi e dondolava il capo come quando una lucertola mastica il tabacco. Dopo l’esame dei primi schizzi abbassò la testa verso l’impiantito, le lenti si ribaltarono sul naso ed egli sembrò cercare un moscone che ronzava per la bottega: con questi più che con la voce chiese ausilio ad un giovane nero, cappello a torero, il quale, vanerello di sé stesso, ammirava in una parete dei dipinti che seppi poi essere suoi, ed egli chiamarsi Picasso. Quei saltimbanchi allupati, quei pagliacci dalla bocca larga e dal naso infiammato, coi loro figli biascicati dai patimenti, quei ventri delle lor madri mareggianti dentro le maglie nere lacca e arancione, la corte delle cagne dalle poppe frolle dondolanti i capezzoli per la terra, degli orsi ammenciti dal vomito verde, delle scimmie con le natiche sbruciacchiate, le piattelle, i tamburi, i cembali, caricati sul carretto insieme ai bimbi di fascia e ai topi d’India, non erano dipinti con la superiore indifferenza del creatore, che adegua le gemme alla lordura, la pestilenza ai fiori, l’albero di Giuda alla croce di Cristo. Ma erano dipinte con il deprecato torbido affettivo. I segni mai esasperati ed estremi, la pittura mai dominata dalla costante unità di visione; assente il senso di misura, norma incorruttibile della grande arte, quella tenaglia a bande piatte, la poesia che travolge, la scienza che esamina e disciplina. Venne dopo, il lavorìo del cervello! L’ossatura del Sansone cieco spuntò sotto l’esile corpo di Picasso, la mostruosa mascella d’asino fe’ guasto: crollarono tradizione, compostezza, disciplina e i dipinti furon costretti in tavole d’algebra, di ragion dura di calcolo, di calcolo gelido. L’omettino segaligno fe’ il resto. Il nome di Picasso fu palleggiato, tirato, rimbalzato. Le gretole delle persiane, i cartocci di fumo, i pentagoni, le mattonelle smaltate, i numeri della tombola, le sezioni coscienti, le scomposizioni liriche, valicaron l’Alpi e andarono di là dal mare. Il frate cercatore, testa rapata, aspetto sornione di gatto che fa le fusa, ordiva la sua tela nel Boulevard Clichy. In quello studio il matematico si levava da dosso la pelle del passato. Dove si è rivoltolato il ciuco, ci rimane il pelo. Udite! Fui introdotto nell’Areopago. L’uomo era slavato, così almeno lo intravedevo dall’anticamera mentre egli, di là chiariva le sue conclusioni a dei neofiti: chiome stoppose, carne di cera, occhi di vetro: “C’est épetant.” Un uomo rapato come lui stava nell’anticamera con la dimessa cera di un comprimario: custode, cugino, corniciaio? Al muro erano appesi dipinti di una sorprendente normalità, teste fatte dal vero impastate col carnicino, lo stil grais, la lacca carminiata, i lustri negli occhi, e tondeggianti come fossero state tirate al tornio, né mancava il colpetto carnoso sulla punta del naso. “O questa roba?” “Opere giovanili del Maestro” rispose il comprimario. “Dove si è rivoltolato il ciuco ci rimane il pelo.” Con questa massima che mi calò nel cranio, fui introdotto nel tempio. Luce a mezzogiorno, velario bianco sulle vetriate, ampie poltrone; la Venere di Milo di questa singolar setta – un manichino col ventre di cencio, le gambe, la testa e le braccia di legno verniciato color rosa, le giunture di gomma – era sopra a un basamento di castagno; una noce di cocco barbuta con due pezzi di legno santo per occhi, era collocata sulla cimasa di un armadio. – Da ragazzo io svuotavo i cocomeri e, praticando sulla verde sfera due fori e una bocca a sega e accesavi sotto una candela per collocar lo spauracchio ai quadrivii, e spaventar le donne che ritornavano dalla novena, – non sospettavo mai di avere la statura di questo eresiarca. “Regardez en haut, Messieurs.” Dei dipinti erano collocati sui cavalletti: un occhio nero concluso in un triangolo torbo, reciso da un foglio accartocciato, in cima al quale un altro triangolo si bilanciava con delle sezioni di stufa, dei numeri, dei solidi e una varata di coni, un violino sezionato, dei pioli, delle corde, il ponticello, erano intarsiati su dei piani monocroni; altrove degli scheggioni d’ardesia, delle parole e dei segni cabalistici, l’interpretazione disinteressata delle forme. Mentre osservavo questi dipinti avulsi dalla descrittiva, dalla aneddotica, dalla psicologia, pittura né morale, né sentimentale, né pedagogica, né decorativa, pensavo a noi miserabili, speculatori avidi e venali che col frutto della nostra interessata interpretazione delle forme avevamo riempito una calza di napoleoni e rimpiattata poi nel fondo del saccone di sfogli, mentre Lui, il Francescanello dell’arabesco decorativo… Il confonditore di crisi, lo spauracchio dei filistei, lo sconcertatore, lì in pantofole, pijama e mestichino, mi fissava mentro io scrutavo i suoi quadri. “Voi non avete una preparazione spirituale per penetrare questi dipinti” mi disse. “Sì” gli risposi. Dopo degli anni, ripassai da Parigi: “Sai, Picasso copia Ingres” mi disse un amico. “Non cercherà mica il pelo che gli cascò dalla groppa quando era giovane?” Signor disinteressato interprete di forme, se avessi avuto la fortuna vostra di essere della patria di Sancio e di Chisciotte, dopo una capatina a Parigi sarei andato al Campo del Montiello e cibandomi di cacio pecorino, di quel che arsiona la bocca e invoglia alla bevuta, e di cipolle, avrei fatto a piedi tutte le stazioni dell’eroica via Crucis del Cavaliere, dormendo sotto ai larici, in riva ai fiumi e in mezzo alla tenera erba dei prati. A che o incantatore, stare nella città che è luce, tra Apollinaire e Jacob? Perché non a fianco di Galeone e Amadigi, ombre che si cibano disinteressatamente d’aria? Picasso rivaleggia ora con la pittura dell’età alessandrina» [7].
Lorenzo Viani, Fuori della Ruche.
Di tutti i luoghi di Parigi, Viani uno lo conosce bene come le sue tasche, vuote: il Louvre, dove si rifugia nei giorni di pioggia e di gelo, perché la miseria della stanzetta della Ruche, l’alveare, dove alloggia insieme a decine di altri poveri disgraziati, è intollerabile:
«Conoscevo il Louvre come casa mia. Per molti mesi era stata la casa mia; nei giorni di temporale e di freddo mi rintanavo sempre nel Louvre, quei giorni tetri, quando i celesti delle deposizioni di Tiziano diventano bleu di Prussia e le carnagioni ingialliscono e i panneggiamenti bianchi diacciano; quando Leonardo sembra un litografo e Ingres un ritoccatore di fotografie, Delacroix un illustratore, Rembrandt uno strafalcione, Ribera un preparatore di tavole d’anatomia, Mantegna un ritagliatore di figure con la forbice; quando verrebbe voglia di accatastare i quadroni del Rubens e dargli fuoco in mezzo alla sala, frantumare i Prigioni di Michelangelo, ribaltare la Nike di Samotracia e impiccare tutta la progenie dei Breughel; quando mi rintanavo nella sala dei primitivi spagnuoli, tra costati di Cristo vergolati a sangue, occhi di giudei sgusciati, con i cavalli che ridono ai piedi del calvario. Quelle sale che quando ci si esce, anche Goya coi suoi ritratti pulimentati sembra normale e il Greco diventa proporzionato e carnoso. Quando il tanfo delle resine e degli olii che esala dagli impiantiti e la tappezzeria delle pareti danno alle sale l’aspetto di camere ardenti preparate per esporvi tre giorni: Cima da Conegliano, il Carpaccio, Antonello da Messina, Reynolds, Constable, Bonington, Velasquez, Daniele da Volterra, Dürer, per fargli cantare a tutti una messa in suffragio serviva dai becchini che eran lì in ogni sala, vestiti di nero. Quando ero pieno uscivo fuori e andavo a sedermi sui gradini del monumento a Gambetta per riordinare nel cervello il bailamme dei dipinti» [8].
Lorenzo Viani, Il cortile del dormitorio (cortile della Ruche).
Ma Viani non è solamente espressionismo spigoloso, Viani è anche espressionismo lirico, che sgorga purissimo nelle pagine dedicate all’incontro con Moammed Sceab, l’amico arabo di Ungaretti morto suicida senza lasciare che il proprio nome e il proprio ricordo [9] – perché in quegli anni a Parigi non confluivano solamente artisti e scrittori, ma anche individui comuni cui era negato il conforto del fuoco creativo e finivano per sprofondare ignoti nel nulla -:
«Alla Rue Corvisart dov’io mi recavo per trovare un minuto di quiete, c’era gente di manica larga; era una colonia di orientali, russi, egiziani, arabi, capitati a Parigi come la farfalla capita sulla fiamma. Là ero accolto con grande espansione. Percas, un corvo del Nilo spennato a Parigi; Ceab, malinconico come una pecora, impoveriva il suo gagliardo sangue arabo a Parigi; Luisa Varon, un’ebrea di Gerusalemme vuotata come una canna, ed Emma, una levantina scaltra come una gazza, ed un certo Kromeka, scampato dal capestro. Quando noi si parlava, egli a passetti piccoli piccoli misurava la stanza per delle migliaia di volte, con gli occhi appannati era lontano da noi, cantava una musica facile che diventava funebre e incomprensibile intonata da lui, e ogni tanto s’interrompeva per chiedere con altra voce: “Cosa? Eh!” come se alcuno di noi lo avesse interrogato, poi si metteva un filo di granata fra i denti come fanno i vagabondi per evitare l’arsura di un lungo cammino e riprendeva la terribile spola. Quella sera che io entrai, quella gente cenava con un’aringa tagliata a pezzetti, con il contorno di una cipolla tritata in un piatto condita con qualche lacrima d’olio che una delle donne faceva gemere dal collo d’una bottiglia, qualche pezzetto di pane era sparso per la tavola, e una brocca d’acqua era nel mezzo. Più che sdigiunarsi, quella gente pareva si comunicasse, e il lume d’una candela li trasfigurava in asceti gialli e li ingigantiva neri sulla parete. Non potevo pensare senza tristezza a questa gente delle terre arse dal sole che moriva di fame e di freddo a Parigi. Mentre essi si sdigiunavano, io guardavo la stanza: le pareti erano vuote, sul quadrato della finestra era calata una stoffa di percalle rosso perché gli inquilini della casa dirimpetto non potessero vedere dentro; degli strapunti di vegetale erano arrotolati in un canto come in una prua di bastimenti; sopra un tavolinetto di giunco c’era un samovar, il calice delle bevande amare. Nel centro della parete che rimaneva davanti alla finestra c’era appesa la fotografia di uno strano tipo, che se non avesse avuto il colletto lo si sarebbe detto un apostolo: la fronte modellata con bozze quadrate avea il comando sul resto del viso, gli occhi si vedeva che erano usati alla contemplazione dei deserti, dilatati per aver fissato quelle spelonche aperte dentro il ventre di montagne inaccessibili, avevano la tempra dell’acciaio, e la luminosità del diamante. La bocca sembrava un sigillo di fuoco, la barba arsa radeggiava come la pagliola. Lo guardavo come si guarda il mare in una giornata di libeccio, quando l’ondate risucchiano la sabbia dei fondali, tritolano i tuoni e spengono le saette: quel ritratto era Dostoevskij. Mi offrirono una tazza di thè lungo e amaro. L’arabo Ceab si offerse di accompagnarmi al Pantheon. Uscimmo, egli taceva come tutti i mortificati e guardava in terra come i vinti. Quella testa arsa come la noce del cocco, smaltata di due occhi bianchi e morelli, colorata dalle labbra violette e dalla barba d’ebano, mi muoveva a pietà: quel corpo così bene attagliato nelle rivolte del barracano, umiliato nella tragedia di quei vestiti di bordatino e il capo in cui un tempo aveva rosseggiato il tarbuscio rosso, ora ricalcato dentro lo chapeau Melon, mi fecero dirgli disperato: “Ma perché sei venuto a Parigi?”. Egli mi guardò stupito, vidi ne’ suoi occhi di mussulmano che la Mecca era stata sostituita da questa città dove singhiozzano i violini. “Vous savez, monsieur Viani, Paris est Paris.” Il vento faceva svettare le rame degli alberi e parevano tante verghe di metallo, la gente rincasava infreddolita, delle nuvole cariche di verde poggiavano sui tetti; mentre s’andava là là pensosi, sentii che sul mio viso si scioglievano degli stracci di neve. “Ci mancavi anche te” dissi e scossi i ciuffi dei capelli. Ceab guardò il cielo con lo stupore di un giudeo quando vide che Cristo avea scoperchiato l’avello. Ceab guardò la terra, si scosse le maniche della giubba: “Che cos’è questo?” e gli tremava il cuore e le mani. “Che cos’è questo?” richiese supplichevole. “È neve” gli risposi. “Viani,” mi disse timido “sono venuto a Parigi per vedere la neve: sì, la neve, la neve: scusatemi, gradirei godere da solo questo spettacolo.” S’inchinò rispettosamente e s’avviò passo passo verso i giardini del Lussemburgo. Ceab sparì sotto un viale di tigli, sfaldato dalla neve che cadeva dal cielo. Dopo qualche mese ricevei un biglietto: “Una brutta notizia. Ceab si è sparato un colpo di pistola fracassandosi il cranio. È stato trovato stamani sopra una panchina del Lussemburgo, coperto dalla neve”» [10].
Si tratta di uno dei passi più intensi, efficaci e al tempo stesso poetici del romanzo, che dimostra, come i precedenti del resto, quale ingiustizia è stata commessa dalla critica dimenticando Lorenzo Viani, lasciandolo precipitare in un oblio dal quale sarebbe doveroso – e soprattutto oggi, che abbiamo conosciuto la morte della letteratura italiana – recuperarlo e riportarlo alla luce.
NOTE
[1] Lorenzo Viani, Lettera autobiografica, in «Giornale di bordo», Firenze 1913.
[2] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p.156.
[3] Citato in Ida Cardellini Signorini, Lorenzo Viani: disegni e xilografie, La nuova Italia, Firenze 1975, pp. 302-303.