È il più classico dei giorni estivi romani, di quelli in cui nelle prime ore pomeridiane tutto sembra attardarsi, e l’attesa di una luce più favorevole si fa sentire come un’atmosfera immobile che sembra essere sospesa appena sopra l’asfalto di Corso Vittorio Emanuele II. L’aria fa sentire il tempo che la Città Eterna deve portarsi dietro, un bagaglio pesante che ormai trascina con indolente naturalezza, ma che puoi scansare per un attimo cercando l’ombra di Palazzo Braschi: Via della Cuccagna, appunto una di quelle spiritose profezie toponomastiche che solo i romani sanno regalare, chi gironzola per Roma lo sa.
Il tempo di affacciarsi appena a Piazza Navona e siamo già dentro il Palazzo che ospita la mostra di Canaletto, voluta in occasione del 250° anniversario della morte del Maestro veneziano. A questo punto l’attesa per gli autobus e l’evidente spaesamento allegrotto dei pochi turisti in giro a quell’ora è già più lontano, quel tanto che basta per farti sentire un confidente all’orecchio della Città; al contrario loro, che speri riusciranno ad apprezzarla con occhi il meno turistici possibile. Che siano fortunati e intraprendenti il giusto.
Saliamo al primo piano, e ci attende dunque una mostra dall’allestimento spazioso e molto arioso; una felice sorpresa se abituati agli spazi ormai decisamente più blockbuster del Complesso del Vittoriano o del Chiostro del Bramante. Data la natura della ricorrenza, lo sforzo di raccogliere un buon numero di capolavori ha fatto sì che si sia portato nel Palazzo romano il più grande nucleo di opere del Canaletto mai esposte insieme in Italia: sono sessantasette fra dipinti, disegni, incisioni e documenti originali. Tuttavia non si ha mai l’impressione di un percorso stancante e visivamente asfissiante, carico, e questo rende la mostra un’occasione effettivamente preziosa che l’amatore non dovrebbe mancare. La qualità dei documenti portati a sostegno del percorso espositivo è calibrata e non distrae mai il visitatore per più del necessario in favore di argomentazioni che, spesso, sono ormai pertinenti ai soli dati statistici degli espositori (si legga: troppo spesso si ha la vaga impressione che servano a fare numero). Gli olii provengono in prestito dai Musei e dalle Collezioni private più importanti del mondo, tra cui il Museo Pushkin di Mosca, la National Gallery di Londra e il Kunsthistorisches Museum di Vienna, da Boston, Kansas City e Cincinnati, e non mancano ovviamente i numerosi prestatori italiani.
Le diverse sezioni narrano il percorso artistico del Canaletto sin dagli esordi troppo poco conosciuti in qualità di scenografo teatrale, per poi arrivare tramite i capricci architettonici e il rovinismo romani alle celebri vedute veneziane, romane e inglesi. Sobri, immediati ed efficacissimi i paragoni col nipote Bellotto, pure presente in mostra con tre ottime tele.
Momento saliente di questa passeggiata sospesa è forse l’incontro col trittico che vede esposti insieme “Il Canal Grande, verso nord, da palazzo Civran“, “Il Ponte di Rialto da Nord” e “Il Ponte di Rialto da Sud“, dipinti questi di una potenza coloristica particolarmente eccezionale che catturano lo sguardo nell’immediato e vogliono trattenerlo. L’eloquenza relativamente muta del vedutismo trova poi la sua eccezione in “Piazza San Marco e Piazzetta, verso sud“, dove le figure sapientemente distribuite sulla scena invogliano l’osservatore, in quello che sembra uno scatto istantaneo, a raccogliere le voci, ricostruire i dialoghi domenicali, amicali. Un viaggio a ritroso per ritrovare la memoria di un momento mai vissuto, il desiderio che solo un Maestro può evocare, e che riesce in tutti gli olii veneziani e una buona parte di quelli romani. È inevitabile avvicinarsi alle tele, osservare il particolare e ripercorrere le calli e i campi della laguna che amiamo, rimanere sempre nuovamente stupiti dalla incommensurabile tecnica del Canaletto, che forse complice la Camera Obscura, ci mette davanti alla percezione di un assurdo tecnico quasi fotografico. Ogni particolare della tela persino più piccola potrebbe essere un quadro a sé, altrove, e li vedi i visitatori fotografare di nascosto una carrozza, una gondola, una dama.
E mentre fra le stanze alle nostre spalle risuona leggero Vivaldi, di cui pure sono presenti due libretti coevi, usciamo così come siamo entrati. E giù di nuovo per Campo de’ Fiori portandoci appresso un po’ di Laguna, un saluto al Giordano Bruno, cercando nella calura estiva qualche frammento di architettura che conosciamo coi nostri occhi e che abbiamo ritrovato nelle vedute di una Roma che ora non esiste più, se non mutata.
Con Roma ci si riesce sempre.

«Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, nasce a Venezia il 18 ottobre 1697. Scenografo nei teatri veneziani, tra il 1719 e il 1720 è a Roma dove allestisce due spettacoli al Teatro Capranica per il Carnevale. Nel ’22 inizia il sodalizio con Joseph Smith per il quale realizzerà, in quarant’anni, 50 dipinti e circa 140 disegni. Nel ’23 dipinge due grandi capricci architettonici per i fratelli Giovanelli. È del ’27 il suo primo dipinto storico: l’Ingresso al Palazzo Ducale dell’ambasciatore francese Languet. Del 1729, invece,il pendant: Il Bucintoro di ritorno al Molo il giorno dell’Ascensione. Tra il ’32 e il ’36 realizza 24 dipinti per il Duca di Bedford. Negli anni Trenta Smith invia in Inghilterra serie intere di dipinti di Canaletto destinati ai nobili britannici del Grand Tour. Del ’35 è il suo capolavoro Riva degli Schiavoni, verso ovest, pagato ben 120 zecchini. Tra il ’46 e il ’55 lavora in Inghilterra, dove dipinge vedute del Tamigi e residenze di campagna della nobiltà inglese. Tra il ’54 e il ’55 realizza sei dipinti commissionati da Thomas Hollis, tra cui La cattedrale di San Paolo. Nel ’55 torna a Venezia. Nel ’62 Re Giorgio III d’Inghilterra acquista da Smith la collezione delle opere di Canaletto. Nel ’63 diventa professore dell’Accademia di Pittura; disegna la magnifica serie di Dodici solennità dogali, la sua ultima importante commissione. Il 20 aprile del 1768 Canaletto muore a Venezia, nella sua casa in corte Perina, e viene sepolto nella chiesa di San Lio. Della sua tomba non c’è traccia.»*
Articolo a cura di Marco Zindato.
*Fonte aggiuntiva tratta dal materiale cartaceo in dotazione al visitatore.