«Lavoriamo senza ragionare» disse Martin; è l’unico modo di render la vita tollerabile».

Come il Dizionario filosofico [1], anche il Candide, ou l’Optimisme di Voltaire, scritto tra il gennaio 1757 e il settembre 1758 e pubblicato anonimo nel 1759, fu immediatamente condannato alla distruzione dal Consiglio di Ginevra. La sentenza non impedì però al romanzo di ottenere un grande e subitaneo successo, dimostrato dalle ben tredici edizioni che l’opera conobbe nello stesso anno di pubblicazione.
Il Candide narra delle mirabolanti dis-avventure dell’omonimo protagonista e dei vari personaggi che gli ruotano attorno, in un turbinio narrativo decisamente ariostesco, caratterizzato da una velocità folle: in poche pagine Voltaire fa sì che i personaggi del romanzo attraversino mezzo mondo, e dall’originaria Vestfalia si ritrovino infine a Costantinopoli, passando per Amsterdam, Lisbona, Cadice, Buenos Aires, Eldorado, Parigi, Londra, Venezia – come scrive Calvino, «la grande trovata del Voltaire umorista è quella che diventerà uno degli effetti più sicuri del cinema comico: l’accumularsi di disastri a grande velocità. E non mancano le improvvise accelerazioni di ritmo che portano al parossismo il senso dell’assurdo: quando la serie delle disavventure già velocemente narrate nella loro esposizione “per disteso” viene ripetuta in un riassunto a rotta di collo. È un gran cinematografo mondiale che Voltaire proietta nei suoi fulminei fotogrammi, è il giro del mondo in ottanta pagine» [2] -. Personaggi che si caratterizzano per una straordinaria, indefessa, di fatto disumana vitalità: nonostante le innumerevoli avversità, nonostante le innumerevoli offese subite dal caso, dalla natura e dal prossimo nel corso della narrazione, nessuno di loro demorde, nessuno di loro dimentica o abbandona il proprio scopo; altro elemento che ricorda moltissimo Ariosto e i suoi eroi nel Furioso. Ma ripercorriamo le tappe fondamentali dell’ariostesca odissea di Candide e dei suoi bizzarri compagni.

Nel castello di Thunder-ten-tronckh, in Vestfalia, il precettore Pangloss – dal greco pan, «tutto», e glossa, «lingua» – inizia il giovane Candide alle teorie e massime cosmoteologo-scemologiche di Leibniz, il principale bersaglio polemico della tagliente ironia di Voltaire, secondo il quale tutto va nel migliore dei modi nel migliore dei mondi possibili. Compagna di studi di Candide è la bella, o meglio, «appetitosa» Cunegonde, figlia del castellano. Nel giovane protagonista nasce l’amore per l’avvenente fanciulla, un amore platonico, ideale, che Cunegonde trasforma in rapporto fisico, baciando Candide, ispirata dall’inconsapevole lezione di Pangloss, sorpreso dietro un cespuglio in compagnia della cameriera Paquette. Ma i due giovani vengono scoperti, e Candide cacciato dal castello. È l’inizio della sua odissea.

Arruolato a forza nell’esercito di Federico II di Prussia, Candide partecipa alla guerra tra Bulgari e Avari, dietro la quale si cela la contesa tra Prussiani e Francesi; scampa fortunosamente alla morte e fugge ad Amsterdam, dove ritrova il maestro, sfigurato dalla sifilide, che lo informa del saccheggio subito dal castello, raso al suolo, gli abitanti sterminati, compresa l’«appetitosa» Cunegonde. Candide e Pangloss si imbarcano alla volta di Lisbona, rasa al suolo dal terribile terremoto del 1755 – l’evento che ispirò a Voltaire il romanzo -. I due finiscono tra le grinfie dell’Inquisizione, impegnata nella ricerca dei presunti responsabili della catastrofe: Candide viene condannato alla fustigazione (cento frustate a cadenza musicale), Pangloss invece a morte, per impiccagione. Il giovane viene salvato da una vecchia, inviata da Cunegonde, che non è affatto morta, ma si trova proprio a Lisbona, contesa da un ebreo e dal Grande accusatore. Uccisi i due rivali, Candide e i suoi salpano, da Cadice, in direzione del Sud America. Cunegonde diviene l’amante del governatore di Buenos Aires, mentre Candide è costretto di nuovo alla fuga, a causa dell’uccisione del Grande accusatore. Lo accompagna Cacambo, fedele meticcio spagnolo. I due incontrano il fratello di Cunegonde, scampato anch’egli al massacro del castello. Quest’ultimo, venuto a conoscenza della volontà del protagonista di sposare la sorella, si oppone, in difesa del prestigio familiare. Ne nasce un aspro dissidio, che si conclude con l’uccisione del fratello di Cunegonde da parte di Candide. Travestiti da gesuiti, Candide e Cacambo finiscono prigionieri di una tribù di cannibali ostile all’ordine religioso, ma anche in questo caso, e proprio sul filo di lana, riescono a salvare la pelle. Giungono quindi nella mitica città di Eldorado, patria ideale della felicità e della pace: l’oro, che pure scorre in enorme quantità, viene ignorato dagli abitanti, come anche la religione e il potere. Candide e Cacambo lasciano Eldorado carichi d’oro, con l’intenzione di riscattare la mano di Cunegonde, ma il protagonista viene derubato, e decide allora di partire alla volta di Venezia, in compagnia di Martin, filosofo pessimista ideale alter ego dell’ottimista Pangloss. Il protagonista visita Parigi, dove si ammala e viene derubato di nuovo, da un abate, e Londra – le due metropoli costituiscono un compendio degli umani vizi -, quindi raggiunge finalmente Venezia. Qui ritrova Paquette, da cameriera divenuta prostituta, ma non Cacambo e Cunegonde. Scoperta, grazie all’azione persuasiva di Martin, l’infedeltà di un servitore a cui affida le proprie ricchezze, Candide, incontrato il meticcio spagnolo, parte con Cacambo e Martin per Costantinopoli, dove Cunegonde, oramai vecchia e brutta, è tenuta prigioniera. Sulla nave si imbatte in Pangloss, ridotto in schiavitù. Candide libera il maestro e Cunegonde. La compagnia, al completo, e arricchita da fra Giroflée, frate teatino convertitosi all’islamismo, si stabilisce in una fattoria sulle sponde del Bosforo: la folle spirale picaresca finalmente si arresta. Ma leggiamo l’ultimo capitolo del romanzo, il trentesimo.
Candide, Martin e Pangloss qualche volta discutevan di metafisica e di morale. Spesso passavano sotto le finestre della masseria barche cariche di effendì, di pascià, di cadì che portavano in esilio a Lemno, a Mitilene, a Erzerum. Si vedevan venire altri cadì, altri pascià, altri effendì che pigliavano il posto degli esiliati e che erano esiliati a loro volta. Si vedevan passare teste accuratamente impagliate da presentare alla Sublime Porta. Tali spettacoli raddoppiavano le dissertazioni; e quando non discutevano la noia era talmente intollerabile che un giorno la vecchia ardì dire:
«Mi piacerebbe sapere cosa è peggio, se esser violentata cento volte dai pirati negri, se avere una chiappa tagliata, se passar per le verghe dei bulgari, se esser fustigato e impiccato in un autodafé, se esser notomizzato, se remare sulle galere, se insomma provar tutte le sciagure attraverso le quali siam passati tutti, oppure star qui a non far nulla».
«È un gran problema» disse Candide.
Quel discorso fece nascere nuove riflessioni, e Martin concluse che l’uomo è fatto per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della noia. Candide non era d’accordo, ma non affermava nulla. Pangloss ammetteva di aver sempre e orrendamente patito; ma siccome una volta aveva sostenuto che tutto andava benissimo, lo sosteneva ancora senza tuttavia crederci. […]
C’era nei dintorni un dervì famosissimo, riputato il miglior filosofo di Turchia; andarono a consultarlo. Pangloss prese la parola e disse:
«Maestro, veniamo a pregarti di dirci perché un animale strano come l’uomo è stato creato».
«Di che ti impicci?» disse il dervì «forse che ti riguarda?»
«Ma, reverendo padre» disse Candide «è orribile il male che c’è al mondo».
«Cos’importa» disse il dervì «che ci sia male o bene? Quando Sua Altezza spedisce un vascello in Egitto, forse che s’inquieta se i topi che son sul vascello stanno bene o male?»
«Cosa bisogna fare, allora?» disse Pangloss.
«Tacere» disse il dervì.
«Speravo» disse Pangloss «di ragionare un poco con te degli effetti e delle cause, del migliore dei mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita».
A quelle parole il dervì gli sbatté la porta in faccia.
Durante la conversazione si sparse la notizia che a Costantinopoli avevan strozzato due visir del banco e muftì, e che avevano impalato vari loro amici. Quella catastrofe fece gran rumore per ogni dove durante qualche ora. Pangloss, Candide e Martin, tornando alla loro piccola masseria, incontrarono un buon vecchio che pigliava il fresco sulla porta di casa, sotto una pergola d’aranci. Pangloss, che non era meno curioso di quanto fosse ragionatore, gli domandò come si chiamava il muftì appena strozzato.
«Non ne so nulla» disse il buon vecchio «non ho mai saputo il nome di nessun muftì né di nessun visir. Ignoro affatto il caso di cui parlate; suppongo che generalmente quelli che si immischiano nelle cose pubbliche a volte periscono miseramente, e che gli sta bene; ma non mi interesso mai di quello che fanno a Costantinopoli; mi contento di mandarci a vendere i frutti del giardino che coltivo».
Detto questo, fece entrare gli stranieri in casa: due delle sue figlie e due figlioli presentaron loro varie qualità di sorbetti preparati in casa, caimac punteggiato di scorze di cedro candito, poi arance, limoni, melàngole, ananassi, pistacchi, e caffè di Moka non mescolato col cattivo caffè di Batavia e delle isole. Dopo di che le due figliole del buon musulmano profumaron le barbe di Candide, di Pangloss e di Martin.
«Dovete possedere» disse Candide al turco «una vasta e magnifica terra».
«Non posseggo che venti jugeri» rispose il turco; «li coltivo coi miei figli; il lavoro ci tien lontani tre grandi mali: la noia, il vizio e la miseria».
Tornando alla masseria Candide fece grandi riflessioni sul discorso del turco. Disse a Pangloss e a Martin:
«Quel buon vecchio mi pare si sia fatto una vita di gran lunga preferibile a quella dei sei re coi quali ebbimo l’onore di cenare».
«Le grandezze» disse Pangloss «sono assai pericolose, secondo riferiscono tutti i filosofi: perché insomma Eglon, re dei moabiti, fu assassinato ad Aod; Assalone fu appeso per i capelli e trafitto da tre lance; il re Nadab, fliglio di Geroboamo, fu ucciso da Baasa; il re Ela, da Zambri; Ocosia da Geo; Atalia da Gioad; i re Gioachino, Ieconia, Sedecia furon schiavi. Sapete come perirono Creso, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Giugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo II d’Inghilterra, Edoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrichi di Francia, l’imperatore Enrico IV. Sapete…»
«So anche», disse Candide «che bisogna coltivare il proprio giardino».
«Hai ragione» disse Pangloss; «perché quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden, ci fu posto ut operaretur eum, perché lo coltivasse; il che dimostra che l’uomo non è fatto per il riposo».
«Lavoriamo senza ragionare» disse Martin; «è l’unico modo di render la vita tollerabile».
Tutta la minuscola compagnia condivise quel lodevole disegno; ciascuno si mise a esercitare i propri talenti. La poca terra fruttò molto. Cunegonde in verità era ben brutta, ma divenne un’ottima cuoca; Paquette ricamò; la vecchia badò alla biancheria. Persino fra Giroflée si rese utile; fu ottimo falegname e divenne addirittura galantuomo; e a volte Pangloss diceva a Candide:
«Tutti gli eventi sono concatenati nel migliore dei mondi possibili perché insomma, non t’avessero cacciato da un bel castello a pedate nel sedere per amore di madamigella Cunegonde, non fossi caduto nelle mani dell’Inquisizione, non avessi percorso l’America a piedi, non avessi dato un bel colpo di spada al barone, non avessi perduto tutte le pecore del buon paese di Eldorado, non saresti qui a mangiar cedro candido e pistacchi…»
«Ben detto» rispose Candide «ma dobbiamo coltivare il nostro orto» [3].
Dopo aver sperimentato in prima persona l’insensata e cieca violenza del caso, della natura e dell’uomo, che distrugge il dogmatico ottimismo di Pangloss, Candide e i suoi trovano finalmente pace. Ma l’immobilismo improvviso li turba, e riecheggia prepotente in queste pagine del romanzo l’insegnamento di Pascal [4]: «Niente è insopportabile all’uomo quanto l’essere in pieno riposo, senza passioni, senza occupazioni, senza divertimenti, senza faccende. Sente allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua indipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno dal fondo della sua anima la noia, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione»; e ancora: «ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non sapersene restare in una camera» [5]. Ma Voltaire offre la soluzione, sintetizzata dalla battuta di Martin: «Lavoriamo senza ragionare[…]; è l’unico modo di render la vita tollerabile». Il lavoro dunque, come soluzione agli umani affanni. Nella sua feroce e brillantemente ironica critica all’ottimismo leibniziano, al panglossismo, di cui smaschera l’assurdità, l’insensatezza, la stupidità, Voltaire non si lascia andare ad un facile pessimismo, ma, al contrario, esalta l’attivismo laborioso, produttivo, invitando a recuperare un rapporto autentico con la terra che ci è toccata in sorte. Ma il Candide rappresenta anche una coraggiosa e onesta autocritica, soprattutto in relazione a quella ragione posta al vertice del valori umani dall’Illuminismo. Autocritica che raggiunge il culmine proprio in questo ultimo capitolo e, in particolar modo, ancora una volta, nelle parole di Martin. Perché la ragione è certo una risorsa, un patrimonio eccezionale, ma può rappresentare talvolta anche un pericolo, una caduta nell’inquietudine e nell’angoscia. Per questo motivo, in conclusione del romanzo, l’incorreggibile Pangloss viene stoppato da Candide: «Ben detto […] ma dobbiamo coltivare il nostro orto. Come fece lo stesso Voltaire, a Ferney, zappa in mano fino a settant’anni suonati.
NOTE
[1] Per un approfondimento rimando all’articolo Voltaire nei cieli: la non-definizione di «Dogmi» nel Dizionario filosofico.
[2] Italo Calvino, Candide o la velocità, in Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991.
[3] Voltaire, Candido, traduzione di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1974.
[4] Per un approfondimento sul filosofo francese rimando agli articoli Blaise Pascal – Il senso della vita come problema fondamentale, Il divertissement come fuga dai problemi esistenziali, Esprit de géométrie ed esprit de finesse.
[5] Blaise Pascal, Pensieri, traduzione di F. De Poli, Rizzoli, Milano 1996.