Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, La nona onda, 1850.

Il dominio della Fortuna nella novella di Landolfo Rufolo

Tra i maggiori protagonisti del Decameron, la Fortuna compare in molte delle novelle che compongono la celebre raccolta di Giovanni Boccaccio. Di fatto sostituendo la Provvidenza divina – in quel processo di laicizzazione della società imposto dalla borghesia fiorentina nel corso del XIV secolo, e di cui Boccaccio è il più illustre cantore -, essa è quella forza incontrollabile che condiziona le azioni dell’uomo e rende così infelice la condizione della donna – si ricordi l’ammenda al «peccato della fortuna» nel Proemio dell’opera -. Ora, tra le cento novelle che compongono il Decameron ce n’è una in particolare in cui la Fortuna si mostra in tutto il suo incontrastato e incontrastabile dominio, la quarta della seconda giornata, che ha per protagonista umano il multiforme Landolfo Rufolo. Leggiamo.

«Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la piú dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno è una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la Costa d’Amalfi, piena di piccole cittá, di giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantía sí come alcuni altri. Tra le quali cittadette n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe giá uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di raddoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella se stesso. Costui adunque, sí come usanza suole esser de’ mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo legno e quello tutto, di suoi denari, caricò di varie mercatantíe ed andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle qualitá medesime di mercatantíe che egli aveva portate, trovò essere piú altri legni venuti; per la qual cagione non solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via, laonde egli fu vicino al disertarsi. E portando egli di questa cosa seco grandissima noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che lá onde ricco partito s’era povero non tornasse. E trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantía avuti avea comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d’ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guerní ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo, e massimamente sopra i turchi. Al qual servigio gli fu molto piú la fortuna benivola che alla mercatantía stata non era. Egli, forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantía avea perduto, ma di gran lunga quello aver raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai, per non incappar nel secondo, a se medesimo dimostrò, quello che aveva, senza voler piú, dovergli bastare, e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua: e pauroso della mercatantía, non s’impacciò d’investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli avea, dato de’ remi in acqua, si mise al ritornare. E giá nell’Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco il quale non solamente era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo piccolo legno non avrebbe bene potuto comportare, in un seno di mare il quale una piccola isoletta faceva, da quel vento coperto si raccolse, quivi proponendo d’aspettarlo migliore. Nel quale seno poco stante due gran cocche di genovesi le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero; le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e giá per fama conoscendol ricchissimo, sí come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci, a doverlo aver si disposero. E messa in terra parte della lor gente con balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del legnetto niuna persona, se saettato esser non volea, poteva discendere: ed essi, fattisi tirare a’ paliscalmi ed aiutati dal mare, s’accostarono al piccol legno di Landolfo, e quello con piccola fatica in piccolo spazio, con tutta la ciurma senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l’una delle lor cocche Landolfo ed ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono, lui in un povero farsettino ritenendo. Il dí seguente, mutatosi il vento, le cocche ver’ Ponente venendo fêr vela, e tutto quel di prosperamente vennero al lor viaggio: ma nel fare della sera si mise un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi divise le due cocche l’una dall’altra. E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e povero Landolfo con grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia percosse in una secca, e non altramenti che un vetro percosso ad un muro tutta s’aperse e si stritolò; di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo giá il mare tutto pieno di mercatantíe che notavano e di casse e di tavole, come in cosí fatti casi suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse ed il mare grossissimo e gonfiato, notando quegli che notar sapevano, s’incominciarono ad appiccare a quelle cose che per ventura lor si paravan davanti. Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dí davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla piú tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, veggendola presta n’ebbe paura, e come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella s’appiccò, se forse Iddio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo: ed a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua ed ora in lá, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi egli da torno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, ed una cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s’appressava, temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse: e sempre che presso gli venia, quando potea, con la mano, come che poca forza n’avesse, l’allontanava. Ma come che il fatto s’andasse, addivenne che, solutosi subitamente nell’aere un groppo di vento e percosso nel mare, sí grande in questa cassa diede, e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo, lasciatala, andò sotto l’onde e ritornò suso notando, piú da paura che da forza aiutato, e vide da sé molto dilungata la tavola; per che, temendo non potere ad essa pervenire, s’appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva, con le braccia la reggeva diritta. Ed in questa maniera, gittato dal mare ora in qua ed ora in lá, senza mangiare, sí come colui che non aveva che, e bevendo piú che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente. Il dí seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che il facesse, costui, divenuto quasi una spugna, tenendo forte con ammendune le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono quando prendono alcuna cosa, pervenne al lito dell’isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli con la rena e con l’acqua salsa lavava e facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma, dubitando e gridando si trasse indietro. Questi non potea favellare e poco vedea, e per ciò niente le disse: ma pur, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e piú sottilmente guardando e veggendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravvisò la faccia, e quello esser che era s’imaginò. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare che giá era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa il tirò in terra, e quivi con fatica le mani dalla cassa sviluppatogli, e quella posta in capo ad una sua figlioletta che con lei era, lui come un piccol fanciullo ne portò nella terra, ed in una stufa messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavò, che in lui ritornò lo smarrito calore ed alquante delle perdute forze: e quando tempo le parve trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconfortò, ed alcun giorno come poté il meglio il tenne, tanto che esso, le forze recuperate, conobbe lá dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la qual salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura; e cosí fece. Costui, che di cassa non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì poco valere, che alcun dí non gli facesse le spese; e trovandola molto leggera, assai mancò della sua speranza: nondimeno, non essendo la buona femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse, e trovò in quella molte preziose pietre, e legate e sciolte, delle quali egli alquanto s’intendea. Le quali veggendo e di gran valor conoscendole, lodando Iddio che ancora abbandonare non l’aveva voluto, tutto si riconfortò: ma sí come colui che in piccol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere a casa sua; per che in alcuni stracci come meglio potè ravvoltele, disse alla buona femina che piú di cassa non aveva bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse ed avessesi quella. La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì: e montato sopra una barca, passò a Brandizio e di quindi marina marina si condusse infino a Trani, dove trovati de’ suoi cittadini li quali eran drappieri, quasi per l’amor di Dio fu da lor rivestito, avendo esso giá loro tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; ed oltre a questo, prestatogli cavallo e datagli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto diceva di voler tornare, il rimandarono. Quivi parendogli esser sicuro, ringraziando Iddio che condotto ve l’avea, sciolse il suo sacchetto, e con piú diligenza cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e sì fatte pietre, che, a convenevole pregio vendendole ed ancor meno, egli era il doppio piú ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spacciar le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantitá di denari, per merito del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l’avea tratto, ed il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; ed il rimanente, senza piú voler mercatare, si ritenne, ed onorevolemente visse infino alla fine».

Di fatto l’intera seconda giornata del Decameron è dedicata al contrasto tra l’uomo e la Fortuna – e lo vedremo in un prossimo articolo dedicato alla novella di formazione con Andreuccio da Perugia protagonista -. In particolar modo qui l’uomo, Landolfo Rufolo, è un illustre rappresentante del mondo dei mercanti, di quella «epopea mercantile» che, secondo Branca, Boccaccio celebra nel Decameron. In effetti il protagonista racchiude in sé tutti gli aspetti caratteristici del mercante e della mentalità mercantile: innanzitutto l’intraprendenza, che lo porta a tentare di incrementare le sue già grandi ricchezze; il calcolo, secondo il quale agisce, non lasciandosi trasportare dall’istinto, ma facendosi guidare dalla logica; la totale assenza di scrupoli e rimorsi, che lo spinge a farsi persino pirata, secondo quel fine supremo proprio di ogni mercante, il denaro, che non ammette la presenza ingombrante della morale. Questi aspetti compongono la virtù umana alla quale si contrappone la Fortuna, come già ricordato scevra da qualunque influsso divino, come invece nella cultura medievale, ma forza casuale del tutto priva di una volontà trascendente. Fortuna nella fattispecie simbolizzata dal mare, che nella sua fluttuante irrazionalità meglio di qualunque altro elemento naturale rappresenta questa forza indomabile e incontrollabile, contro la quale il mercante, e più in generale l’uomo, deve misurarsi stabilmente, con alterni risultati. Ora, in molte novelle del Decameron l’umana prontezza finisce per agire sulla Fortuna, per indirizzarla, in un senso o nell’altro, positivo o negativo. Non qui, dove la Fortuna domina incontrastata. Landolfo Rufolo appare come un burattino diretto casualmente dalla Fortuna: egli addirittura rifiuta, sul momento, la cassa che gli permetterà di rifondare la sua ricchezza, come se nulla fosse accaduto. Ma la dimostrazione più evidente del totale strapotere della Fortuna in questa novella è la conclusiva resa del protagonista, che rinuncia all’attività mercantile. Insomma, Boccaccio mostra tutti i limiti di quell’«epopea mercantile» sempre messa a dura prova dall’azione capricciosa della Fortuna.

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