
Tra i tanti micro-generi, definiamoli così, in cui Boccaccio nel Decameron articola il macro-genere della novella, spicca quello comico, che caratterizza alcuni dei più celebri racconti della raccolta. E il Decameron si apre proprio, emblematicamente, all’insegna del comico, con la novella dedicata all’ultima, memorabile impresa del famigerato ser Ciappelletto, «il piggiore uomo forse che mai nascesse». Leggiamo.
Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascuna cosa la quale l’uomo fa, dall’ammirabile e santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le déa principio; per che, dovendo io al nostro novellare, sí come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui si come in cosa impermutabile si fermi, e sempre sia da noi il suo nome lodato.
Manifesta cosa è che, sí come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, cosí in sé e fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica, e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza niun fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio forza ed avvedimento non ci prestasse. La quale a noi ed in noi non è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla sua propria benignitá mossa e da’ prieghi di coloro impetrata che, sí come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono in vita seguendo, ora con lui eterni son divenuti e beati; alli quali noi medesimi, sí come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilitá, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli porgiamo. Ed ancor piú lui verso noi di pietosa liberalitá pieno discerniamo: ché, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avvien forse talvolta che, da falsa oppinione ingannati, tale dinanzi alla sua maestá facciamo procuratore che da quella con eterno esilio è scacciato: e nondimeno esso, al quale niuna cosa è occulta, piú alla puritá del pregator riguardando che alla sua ignoranza o all’esilio del pregato, cosí come se quegli fosse nel suo cospetto beato esaudisce coloro che il priegano. Il che manifestamente potrá apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando.
Ragionasi adunque che, essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato ed al venir promosso; sentendo egli li fatti suoi, sí come le piú volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua ed in lá, e non potersi di leggeri né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a piú persone, ed a tutti trovò modo: fuor solamente in dubbio gli rimase, cui lasciar potesse sufficiente a riscuoter suoi crediti fatti a piú borgognoni. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali: ed a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza avere, che opporre alla loro malvagitá si potesse. E sopra questa esaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato il quale molto alla sua casa in Parigi si riparava, il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse dir Cepparello, credendo che «cappello», cioè «ghirlanda», secondo il lor volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era, come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto il chiamavano: e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, lá dove pochi per ser Cepparello il conoscieno. Era questo Ciappelletto di questa vita. Egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando un de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti, di quanti fosse stato richesto, e quegli piú volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto: e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea, a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali ed inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire, tanto piú d’allegrezza prendea. Invitato ad uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volonterosamente v’andava, e piú volte a fedire e ad uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sí come colui che piú che alcuno altro era iracondo. A chiesa non usava giá mai, ed i sagramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e cosí in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri ed usavagli. Delle femine era cosí vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario piú che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia; giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo, forse, che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenza e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato. Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto, costui dovere esser tale quale la malvagitá de’ borgognoni il richiedea; e per ciò, fattolsi chiamare, gli disse cosí: — Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, ed avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro piú convenevole di te: e per ciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai, che convenevole sia. — Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo, e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessitá costretto si diliberò, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna, dove quasi niuno il conoscea: e quivi fuori di sua natura benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo. E cosí faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti che il servissero ed ogni cosa opportuna alla sua sanitá racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che il buono uomo, il quale giá era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui che aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte, ed un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono a ragionare. — Che farem noi — diceva l’uno all’altro — di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra cosí infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare cosí sollecitamente, ed ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacerci debba, cosí subitamente di casa nostra, ed infermo a morte, vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sí malvagio uomo, che egli non si vorrá confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa, e morendo senza confessione, niuna chiesa vorrá il suo corpo ricevere, anzi sará gittato a’ fossi a guisa d’un cane; e se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e si orribili, che il simigliante n’avverrá, per ciò che frate né prete ci sará che il voglia né possa assolvere; per che, non assoluto, anche sará gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sí per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto il giorno ne dicon male, e sí per la volontá che hanno di rubarci, veggendo ciò si leverá a romore e griderá: «Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si voglion piú sostenere!», e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore. — Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea lá dove costoro cosí ragionavano, avendo l’udire sottile, sí come le piú volte veggiamo aver gl’infermi, udí ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: — Io non voglio che voi d’alcuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno; io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che cosí n’avverrebbe come voi dite, dove cosí andasse la bisogna come avvisate: ma ella andrá altramenti. Io ho vivendo tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né piú né meno ne fará. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate il piú che aver potete, se alcun ce n’è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri ed i miei in maniera che stará bene e che dovrete esser contenti. — I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono ad una religione di frati e domandarono alcun santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo: e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita, e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e lui menarono. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea ed allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare ed appresso il domandò, quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: — Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta: senza che, assai sono di quelle che io mi confesso piú; è il vero che, poi che io infermai, che son passati da otto dí, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la ’nfermitá m’ha data. — Disse allora il frate: — Figliuol mio, bene hai fatto, e cosí si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di domandare. — Disse ser Ciappelletto: — Messer lo frate, non dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal di che io nacqui infino a quello che confessato mi sono: e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntalmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi, e non mi riguardate perché io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue. — Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al quale ser Ciappelletto sospirando rispose: — Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria. — Al quale il santo frate disse: — Di’ sicuramente, ché il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giá mai. — Disse allora ser Ciappelletto: — Poi che voi di questo mi fate sicuro, ed io il vi dirò: io son cosí vergine come io uscii del corpo della mamma mia. — O benedetto sii tu da Dio! — disse il frate — come bene hai fatto! E faccendolo hai tanto piú meritato, quanto, volendo, avevi piú d’arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola son costretti. — Ed appresso questo, il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sí, e molte volte: per ciò che, con ciò fosse cosa che egli, oltre alli digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dí fosse uso di digiunare in pane ed in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa, ed alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli. Al quale il frate disse: — Figliuol mio, questi peccati sono naturali, e sono assai leggeri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi piú la coscienza tua che bisogni. Ad ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli, dopo lungo digiuno, buono il manicare, e dopo la fatica, il bere. — Oh! — disse ser Ciappelletto — padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca. — Il frate, contentissimo, disse: — Ed io son contento che così ti cappia nell’animo, e piacemi forte la tua pura e buona coscienza in ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando piú che il convenevole o tenendo quello che tu tener non dovesti? — Al quale ser Ciappelletto disse: — Padre mio, non vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla, anzi c’era venuto per dovergli ammonire e gastigare e tôrgli da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m’avesse cosí visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie ed in quelle ho disiderato di guadagnare, e sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo, la mia metá convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metá dando loro: e di ciò m’ha sí bene il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei. — Bene hai fatto, — disse il frate — ma come ti se’ tu spesso adirato? — Oh! — disse ser Ciappelletto — cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dí gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai volte il dí che io vorrei piú tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andar dietro alle vanitá ed udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir piú tosto le vie del mondo che quella di Dio. — Disse allora il frate: — Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenza imporre. Ma per alcun caso avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra ingiuria? — A cui ser Ciappelletto rispose: — Oimè! messere, o voi mi parete uomo di Dio: come dite voi coteste parole? O se io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Iddio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani ed i rei uomini, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: «Va’, che Iddio ti converta». — Allora disse il frate: — Or mi di’, figliuol mio, che benedetto sii tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contra alcuno o detto mal d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacere di colui di cui sono? — Mai messer sí, — rispose ser Ciappelletto — che io ho detto male d’altrui, per ciò che io ebbi giá un mio vicino che al maggior torto del mondo non faceva altro che batter la moglie, sí che io dissi una volta male di lui alli parenti della moglie, sí gran pietá mi venne di quella cattivella la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Iddio vel dica. — Disse allora il frate: — Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona cosí come fanno i mercatanti? — Gnaffe, — disse ser Ciappelletto — messer sí, ma io non so chi egli si fu: se non che uno avendomi recati denari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea venduto, ed io messigli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai che egli erano quattro piccioli piú che esser non doveano; per che, non riveggendo colui ed avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l’amor di Dio. — Disse il frate: — Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene a farne quello che ne facesti. — Ed oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo. E volendo egli giá procedere all’assoluzione, disse ser Ciappelletto: — Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto. — Il frate il domandò quale, ed egli disse: — Io mi ricordo che io feci al fante mio, un sabato dopo nona, spazzare la casa e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea. — Oh! — disse il frate — figliuol mio, cotesta è leggèr cosa. — No, — disse ser Ciappelletto — non dite leggèr cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in cosí fatto dí risuscitò da morte a vita il nostro Signore. — Disse allora il frate: — O altro hai tu fatto? — Messer sí, — rispose ser Ciappelletto — che io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio. — Il frate cominciò a sorridere, e disse: — Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dí vi sputiamo. — Disse allora ser Ciappelletto: — E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio. — Ed in brieve de’ cosí fatti ne gli disse molti: ed ultimamente cominciò a sospirare ed appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea. Disse il santo frate: — Figliuol mio, che hai tu? — Rispose ser Ciappelletto: — Oimè! messere, che un peccato m’è rimaso del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire, ed ogni volta che io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto certo che Iddio mai non avrá misericordia di me per questo peccato. — Allora il santo frate disse: — Va’ via, figliuolo, che è ciò che tu di’? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerá, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignitá e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente: e per ciò dillo sicuramente. — Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte: — Oimè! padre mio, il mio è troppo gran peccato, ed appena posso credere, se i vostri prieghi non ci s’adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato. — A cui il frate disse: — Dillo sicuramente, che io ti prometto di pregare Iddio per te. — Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, ed il frate pure il confortava a dire. Ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe una grandissima pezza tenuto il frate cosí sospeso, ed egli gittò un gran sospiro e disse: — Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Iddio per me, ed io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia. — E cosí detto, rincominciò a piagner forte. Disse il frate: — O figliuol mio, or párti questo cosí gran peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto il giorno Iddio, e si perdona egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato: e tu non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione che io ti veggio, sí ti perdonerebbe egli. — Disse allora ser Ciappelletto: — Oimè! padre mio, che dite voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dí e la notte, e portommi in collo piú di cento volte! Troppo feci male a bestemmiarla, e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sará perdonato. — Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’assoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sí come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir cosí? E poi, dopo tutto questo, gli disse: — Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano: ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sè, piácevi egli che il vostro corpo sia sepellito al nostro luogo? — Al quale ser Ciappelletto rispose: — Messer sí, anzi non vorrei io essere altrove, poscia che voi m’avete promesso di pregare Iddio per me: senza che, io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine; e per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me venga quel veracissimo corpo di Cristo il quale voi la mattina sopra l’altare consecrate, per ciò che, come che io degno non ne sia, io intendo con la vostra licenza di prenderlo, ed appresso la santa ed ultima unzione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano. — Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli diceva bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato; e cosí fu. Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso ad un tavolato il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra, ed ascoltando, leggermente udivano ed intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva: ed aveano alcuna volta sí gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano, e tra sè talora dicevano: — Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermitá né paura di morte alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a piccola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagitá l’hanno potuto rimuovere, né far che egli cosí non voglia morire come egli è vivuto? — Ma pur, veggendo che sí aveva detto, che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò, e peggiorando senza modo, ebbe l’ultima unzione: e poco passato vespro, quel dí stesso che la buona confessione fatta avea, si morí. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse onorevolemente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna disposero. Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea: e sperando per lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenza e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati, creduli, s’accordarono: e la sera, andati tutti lá dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopra esso fecero una grande e solenne vigilia, e la mattina, tutti vestiti co’ cámisci e co’ pieviali, con li libri in mano e con le croci innanzi, cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennitá il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della cittá, uomini e donne; e nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l’avea, salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginitá, della sua simplicitá ed innocenza e santitá maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto metter nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: — E voi, maladetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Iddio e la Madre e tutta la corte di paradiso! — Ed oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtá e della sua puritá, ed in brieve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, si il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato a basciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere: e convenne che tutto il giorno cosí fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in un’arca di marmo sepellito fu onorevolemente in una cappella, ed a mano a mano il dí seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini della cera secondo la promession fatta. Ed intanto crebbe la fama della sua santitá e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversitá fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto, ed affermano, molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui. Cosí adunque visse e morí ser Cepparello da Prato e santo divenne, come avete udito; il quale negar non voglio, esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli potè in su lo stremo aver sí fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico, costui piú tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso. E se cosí è, grandissima si può la benignitá di Dio conoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla puritá della fèri guardando, cosí faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversitá ed in questa compagnia cosí lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, lui in reverenza avendo, ne’ nostri bisogni gli ci raccomanderemo, sicurissimi d’essere uditi. — E qui si tacque.
A mettere in moto il comico è innanzitutto il sistematico processo di rovesciamento – che ritroveremo anche nelle altre due novelle sulle quali concentreremo oggi la nostra attenzione -: rovesciamento che si manifesta dapprima nella memorabile confessione di ser Ciappelletto, e infine nella sua santificazione. Ser Ciappelletto ha qualcosa di mefistofelico, o meglio, risulta ancor più mefistofelico di Mefistofele stesso, perché se il celebre personaggio goethiano si definisce «una parte di quella forza che vuole sempre il Male ed opera sempre il Bene» [1], accantonando per un istante la carica fortemente ironica di queste parole e limitandoci ad accogliere il loro senso letterale, il personaggio boccaccesco vuole e opera il Male, e in ciò trova persino «allegrezza». E un simile individuo, «il piggiore uomo forse che mai nascesse», falsario, assassino, bestemmiatore e sodomita, dopo la sua morte – di certo salutare per il mondo intero – viene persino santificato! Un epilogo davvero geniale, comicamente geniale. Questa straordinaria novella va letta alla luce del processo di redenzione che Boccaccio inscena nel Decameron: dal peggiore uomo mai nato alla santa Griselda, la cui imponente figura suggella il libro [2]. La critica ha discusso moltissimo sulle motivazioni che spingono ser Ciappelletto alla falsa confessione, fornendo svariate interpretazioni: Croce (1933) e Russo (1939) la reputano un’azione del tutto gratuita, Branca (1956) e Getto (1957) un atto di solidarietà nei confronti degli usurai, Baratto (1970) accoglie l’ipotesi precedente aggiungendovi l’innata predisposizione del protagonista alla recitazione, diciamo così. Personalmente credo che nella falsa confessione ser Ciappelletto raggiunga l’apice della sua malvagità, soprattutto alla luce della conclusione della novella: la celebrazione del Male trasformato in sommo Bene. La sapienza divina è certamente infallibile, come sottolineato nella conclusione della novella, ma in terra ha le sue clamorose, comiche falle.
Il comico boccaccesco trionfa in un’altra celebre novella del Decameron, la decima della sesta giornata, che ha per protagonista l’indimenticabile frate Cipolla.
Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Valdelsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, giá di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volentieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso, ed il miglior brigante del mondo; ed oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tullio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benvogliente. Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto tra l’altre v’andò una volta, ed una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da torno venuti alla messa nella calonica, quando tempo gli parve, fattosi innanzi, disse: — Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno a’ poveri del baron messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò che il beato santo Antonio vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre; ed oltre a ciò, solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l’abate, stato mandato: e per ciò, con la benedizion di Dio, dopo nona, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa, lá dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bascerete la croce; ed oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo giá recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare in Nazarette. — E questo detto, si tacque e ritornossi alla messa. Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini, li quali poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa. Ed avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello con un suo amico, come a tavola il sentirono, cosí se ne scesero alla strada, ed all’albergo dove il frate era smontato se n’andarono, con questo proponimento, che Biagio dovesse tenere a parole il fante di frate Cipolla, e Giovanni dovesse tra le cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e tôrgliele, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire. Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena ed altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco; il quale era tanto cattivo, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire: — Il fante mio ha in sé nove cose tali, che, se qualunque è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertú, ogni lor senno, ogni lor santitá. Pensate adunque che uom dèe essere egli, nel quale né vertú né senno né santitá alcuna è, avendone nove! — Ed essendo alcuna volta domandato, quali fossero queste nove cose, ed egli avendole in rima messe, rispondeva: — Dirolvi. Egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato: senza che, egli ha alcune altre teccherelle con queste, che si taccion per lo migliore. E quello che sommamente è da rider de’ fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tôr casa a pigione, ed avendo la barba grande e nera ed unta, gli par sí forte esser bello e piacevole, che egli s’avvisa che quante femine il veggiono tutte di lui s’innamorino, ed essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia. È il vero che egli m’è d’un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol si segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire, e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sí gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sí e no, come giudica si convenga. — A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre: ma Guccio Imbratta, il quale era piú vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de’ Baronci, tutta sudata, unta ed affumicata, non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, lá si calò: ed ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva nome, ad entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore e che egli aveva de’ fiorini piú di millantanove, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi piú che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche. E senza riguardare ad un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio, e ad un suo farsetto rotto e ripezzato, ed intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume, con piú macchie e di piú colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani, ed alle sue scarpette tutte rotte ed alle calze sdruscite, le disse, quasi stato fosse il siri di Ciastiglione, che rivestirla voleva e rimetterla in arnese e trarla di quella cattivitá di star con altrui, e senza gran possession d’avere, ridurla in isperanza di miglior fortuna, ed altre cose assai, le quali, quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite, come le piú delle sue imprese facevano, tornarono in niente. Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contraddicendolo alcuno, nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna, la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata una piccola cassettina, la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d’un pappagallo, la quale avvisarono, dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare a’ certaldesi. E certo egli il poteva a que’ tempi leggermente far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze d’Egitto se non in piccola quantitá trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate: e dove che elle poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in niente erano dagli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestá degli antichi, non che veduti avessero pappagalli, ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli avea ricordare. Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata, quella tolsero, e per non lasciare la cassetta vòta, veggendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono: e richiusala ed ogni cosa racconcia come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono ad aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire. Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell’agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con disidèro aspettando di veder questa penna. Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a Guccio Imbratta che lá su con le campanelle venisse e recasse le sue bisacce. Il quale poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto, con le cose addomandate con fatica lá su n’andò, dove ansando giunto, per ciò che il ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla, andatone in su la porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare. Dove poi che tutto il popolo fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica, ed in acconcio de’ fatti suoi disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell’agnol Gabriello, fatta prima con gran solennitá la confessione, fece accender due torchi, e soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse: e dette primieramente alcune parolette a laude ed a commendazione dell’agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come piena di carboni vide, non suspicò che ciò Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che noi conosceva da tanto, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non facesse: ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva, negligente, disubidente, trascutato e smemorato; ma nonpertanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì forte, che da tutti fu udito: — O Iddio, lodata sia sempre la tua potenza! — Poi, richiusa la cassetta ed al popolo rivolto, disse: — Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto piú utili sono ad altrui che a noi; per la qual cosa, messomi io in cammino, di Vinegia partendomi ed andandomene per lo Borgo de’ greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il Braccio di san Giorgio, in Truffia ed in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli, e di quindi pervenni in Terra di menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi dove la loro utilitá vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio per que’ paesi; e quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime, e poco piú lá trovai gente che portano il pan nelle mazze ed il vin nelle sacca, da’ quali alle montagne de’ baschi pervenni, dove tutte l’acque corrono alla ’ngiú. Ed in brieve tanto andai addentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, lá dove io vi giuro per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti: ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran mercatante io trovai lá, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, per ciò che da indi in lá si va per acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state vi vale il pan freddo quattro denari ed il caldo v’è per niente; e quivi trovai il venerabile padre messer Non-mi-blasmate-se-voi piace, degnissimo patriarca di Ierusalem, il quale, per reverenza dell’abito che io ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante, che, se io le vi volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia: ma pure per non lasciarvi sconsolate, ve ne dirò alquante. Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito santo cosí intero e saldo come fu mai, ed il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, ed una dell’unghie de’ gherubini, ed una delle coste del Verbum-carofátti-alle-finestre, e de’ vestimenti della santa fé catolica, ed alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in Oriente, ed un’ampolla del sudore di san Michele quando combattè col diavolo, e la mascella della morte di san Lazzero ed altre. E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Montemorello in volgare e d’alquanti capitoli del Caprezio li quali egli lungamente era andato cercando, mi fece egli partefice delle sue sante reliquie, e donommi un de’ denti della santa croce ed in un’ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salamone e la penna deH’agnol Gabriello, della quale giá detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna, il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo de’ Bonsi, il quale in lui ha grandissima divozione: e diedemi de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, ed holle tutte. È il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non s’è se desse sono o no, ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal patriarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenza che io le mostri: ma io, temendo di fidarle altrui, sempre le porto meco. Vera cosa è che io porto la penna dell’agnolo Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta, ed i carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali son si simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi vien presa l’una per l’altra, ed al presente m’è avvenuto: per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni. Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontá sia stata di Dio e che egli stesso la cassetta de’ carboni ponesse nelle mie mani, ricordandomi io pur testé che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì: e per ciò, volendo Iddio che io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor di quel santissimo corpo mi fe’ pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tócco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerá che non si senta. — E poi che cosí detto ebbe, cantando una lauda di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni, li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla, e migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno. Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camiscion bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sí come egli molte volte aveva provato. Ed in cotal guisa, non senza sua grandissima utilitá avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire. Li quali stati alla sua predica ed avendo udito il nuovo riparo preso da lui, e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole, avevan tanto riso, che s’eran creduti smascellare; e poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono ed appresso gli renderono la sua penna, la quale l’anno seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.
Altro personaggio tutt’altro che positivo – ma in Boccaccio il gusto della narrazione supera sempre il giudizio morale -, frate Cipolla riesce a trarsi d’impaccio da una situazione scomoda: creando una vera e propria realtà parallela – riecco il rovesciamento -, in cui le attività più ordinarie ed insignificanti divengono mirabolanti prodigi, supera con slancio atletico la burla ordita dai due giovani, mettendo in atto la truffa programmata. Ed è significativo che proprio questa novella concluda la giornata – sesta – dedicata ai motti; alla fine a trionfare è proprio il comico, nella figura di frate Cipolla – ma guai a sottovalutare il servo Guccio, anch’egli comicamente pregevolissimo -, a cui viene concessa l’ultima parola, preferito persino a quel meraviglioso Guido Cavalcanti protagonista della novella precedente. Insomma, alla fine di questa giornata vince il riso, quel riso nel segno del quale si è aperto il Decameron e che costituisce uno degli esiti più riusciti dell’attività letteraria di Boccaccio. Nel Piccolo dizionario dell’alternativa letteraria, Muzzioli sottolinea come il riso del comico rovini il rito [3], e le novelle di ser Ciappelletto e frate Cipolla ne sono degli esempi straordinari. In particolar modo, Boccaccio prende di mira i riti religiosi, che vanno in pezzi sotto i colpi inferti dalla sua irriverente penna.
Come ultima novella propongo la terza dell’ottava giornata, che vede protagonista il pittore credulone Calandrino, alle prese con la magica pietra chiamata elitropia.
Nella nostra cittá, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abbondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il piú del tempo con due altri dipintori usava chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicitá sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto ed avvenevole, chiamato Maso del Saggio, il quale, udendo alcune cose della simplicitá di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa o fargli credere alcuna nuova cosa: e per ventura trovandolo un dí nella chiesa di San Giovanni e veggendolo stare attento a riguardare le dipinture e gl’intagli del tabernáculo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione. Ed informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono lá dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme incominciarono a ragionare delle vertú di diverse pietre, delle quali Maso cosí efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario; a’ quali ragionamenti Calandrino posto orecchi, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro, il che forte piacque a Maso. Il quale seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre cosí virtuose si trovassero. Maso rispose che le piú si trovavano in Berlinzone, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, ed avevavisi una oca a denaio ed un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú: e chi piú ne pigliava piú se n’aveva; ed ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. — Oh! — disse Calandrino — cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro? — Rispose Maso: — Mangianglisi i baschi tutti. — Disse allora Calandrino: — Fostivi tu mai? — A cui Maso rispose: — Di’ tu se io vi fu’ mai? Si, vi sono stato cosí una volta come mille! — Disse allora Calandrino: — E quante miglia ci ha? — Maso rispose: — Daccene piú di millanta, che tutta notte canta. — Disse Calandrino: — Adunque dèe egli essere piú lá che Abruzzi. — Sí bene, — rispose Maso — si è cavelle. — Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque veritá è piú manifesta, e cosí l’aveva per vere; e disse: — Troppo c’è di lungi a’ fatti miei: ma se piú presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco pur per veder fare il tomo a que’ maccheroni e tórmene una satolla. Ma dimmi, che lieto sii tu: in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre cosí virtuose? — A cui Maso rispose: — Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima vertú. L’una sono i macigni da Settignano e da Montisci, per vertú de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina, e per ciò si dice egli in que’ paesi di lá che da Dio vengon le grazie e da Montisci le macine: ma ècci di questi macigni sì gran quantitá, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de’ quali v’ha maggior montagne che Montemorello, che rilucon di mezzanotte vatti con Dio; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella prima che elle si forassero, e portassele al soldano, n’avrebbe ciò che volesse. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran vertú, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è. — Allora Calandrin disse: — Gran vertú son queste; ma questa seconda dove si truova? — A cui Maso rispose che nel Mugnone se ne solevan trovare. Disse Calandrino: — Di che grossezza è questa pietra o che colore è il suo? — Rispose Maso: — Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è piú, alcuna meno: ma tutte son di colore quasi come nero. — Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembianti d’avere altro a fare, si partì da Maso, e seco propose di volere cercare di questa pietra: ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli. Ultimamente, essendo giá l’ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro, e chiamatigli, cosí disse loro: — Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i piú ricchi uomini di Firenze, per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niuna altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercare. Noi la troverem per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella ed andare alle tavole de’ cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e tôrcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrá: e cosí potremo arricchire subitamente, senza avere tuttodí a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca. — Bruno e Buffalmacco, udendo costui, tra se medesimi cominciarono a ridere; e guatando l’un verso l’altro, fecer sembianti di maravigliarsi forte e lodarono il consiglio di Calandrino: ma domandò Buffalmacco come questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta, era giá il nome uscito di niente; per che egli rispose: — Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiamo la vertú? A me parrebbe che noi andassimo a cercare senza star piú. — Or ben, — disse Bruno — come è ella fatta? — Calandrin disse: — Egli ne son d’ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vedrem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa: e per ciò non perdiam tempo, andiamo. — A cui Bruno disse: — Or t’aspetta. — E vólto a Buffalmacco, disse: — A me pare che Calandrino dica bene: ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dá per lo Mugnone entro ed ha tutte le pietre rasciutte; per che tali paion testé bianche, delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l’abbia rasciutte, paion nere: ed oltre a ciò, molta gente per diverse cagioni è oggi, che è di da lavorare, per lo Mugnone, li quali, veggendoci, si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo e forse farlo essi altressi: e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l’ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover far da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, ed in dì di festa, che non vi sará persona che ci veggia. — Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s’accordò, ed ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra: ma sopra ogni altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che cosí era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono tra se medesimi. Calandrino con disidèro aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare ingiú, della pietra cercando. Calandrino andava, come piú volenteroso, avanti, e prestamente or qua ed or lá saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un’altra ne ricoglievano: ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n’ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all’analda non era, e faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla coreggia attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empiè, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empiè. Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avvicinava, secondo l’ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco: — Calandrino dove è? — Buffalmacco, che ivi presso sei vedea, volgendosi intorno ed or qua ed or lá riguardando, rispose: — Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi. — Disse Bruno: — Benché fa poco, a me pare egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d’andar cercando le pietre nere giú per lo Mugnone. — Deh! come egli ha ben fatto — disse allor Buffalmacco — d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo si sciocchi, che noi gli credemmo. Sappi chi sarebbe stato sì stolto, che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una cosí virtuosa pietra, altri che noi! — Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la vertú d’essa coloro, ancor che loro fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa: e vòlti i passi indietro, se ne cominciò a venire. Veggendo ciò Buffalmacco, disse a Bruno: — Noi che faremo? Ché non ce n’andiam noi? — A cui Bruno rispose: —Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne fará piú niuna: e se io gli fossi presso come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa! — Ed il dir le parole e l’aprirsi ed il dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque ed andò oltre. Buffalmacco, recatosi in mano un de’ codoli che raccolti avea, disse a Bruno: — Deh! vedi bel codolo: cosí giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! — E lasciato andare, gli die’ con esso nelle reni una gran percossa: ed in brieve, in cotal guisa, or con una parola ed or con un’altra, su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando; quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri si ristettero, le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla macina; ed intanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la cittá, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi a desinare era ciascuno. Entrossene adunque Calandrino cosí carico in casa sua. Era per ventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala: ed alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: — Mai, frate, il diavol ti ci reca! Ogni gente ha giá desinato quando tu torni a desinare. — Il che udendo Calandrino e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: — Oimè! malvagia femina, o eri tu costi? Tu m’hai diserto: ma in fé di Dio io te ne pagherò! — E salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le trecce, la si gittò a’ piedi, e quivi, quanto egli potè menar le braccia ed i piedi, tanto le die’ per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce. Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino; e giunti a piè dell’uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso ed affannato si fece alla finestra e pregògli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell’un de’ canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso, dolorosamente piagnere: e d’altra parte, Calandrino, scinto ed ansando a guisa d’uom lasso, sedersi. Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: — Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare, ché noi veggiamo qui tante pietre? — Ed oltre a questo, soggiunsero: — E monna Tessa che ha? El par che tu l’abbi battuta; che novelle son queste? — Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccoglier lo spirito a formare intera la parola alla risposta; per che soprastando, Buffalmacco rincominciò: — Calandrino, se tu avevi altra ira, tu non ci dovevi per ciò straziare come fatto hai; ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti e venistitene, il che noi abbiamo forte per male: ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai. — A queste parole Calandrino, sforzandosi, rispose: — Compagni, non vi turbate: l’opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato, aveva quella pietra trovata: e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro, io v’era presso a men di diece braccia, e veggendo che voi ve ne venivate e non mi vedevate, v’entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto. — E cominciandosi dall’un de’ capi, infino alla fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’avessero, e poi seguitò: — E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que’ guardiani a volere ogni cosa vedere; ed oltre a questo, ho trovati per la via piú miei compari ed amici, li quali sempre mi soglion far motto ed invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sí come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la vertú ad ogni cosa; di che io, che mi poteva dire il piú avventurato uom di Firenze, sono rimaso il piú sventurato: e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni, che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quando ella mai venne in questa casa! — E raccesosi nell’ira, si voleva levare per tornare a batterla da capo. Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, ed avevano sí gran voglia di ridere, che quasi scoppiavano: ma veggendolo furioso levare per battere un’altra volta la moglie, levatiglisi alla ’ncontro, il ritennero, dicendo, di queste cose niuna colpa aver la donna ma egli, che sapeva che le femine facevano perdere la vertú alle cose, e non l’aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno; il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua o perché egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il dovea palesare. E dopo molte parole, non senza gran fatica la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso con la casa piena di pietre, si partirono.
A dare il via alla beffa è Maso del Saggio, che, proprio come frate Cipolla, crea una vera e propria realtà parallela, adescando così il credulone Calandrino, il quale non esita un istante a rinnegare la nobile arte della pittura in favore di un facile e immediato guadagno: «e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare [insudiciare] le mura a modo che fa la lumaca». Oltre alla capacità di creare un’altra realtà – ennesimo esempio di rovesciamento -, spicca inoltre il ricorso di Maso del Saggio al nonsense nelle sue risposte a Calandrino: «Di’ tu se io vi fu’ mai? Sì vi sono stato così una volta come mille»; «Haccene più di millanta, che tutta notte canta»; «Sì bene […] sì è cavelle [ovvero di certo, è proprio un bel niente]». La trovata di Maso del Saggio dà vita alla divertente beffa, ma in questa novella sul comico si allunga un’ombra sinistra, allorquando deluso Calandrino pesta a sangue la moglie. Durante il racconto Boccaccio ce lo presenta come un uomo sciocco, credulone e fannullone, alla fine come un uomo oltremodo violento e malvagio, misogino fino al midollo. Ora, considerando il ruolo primario della donna nel Decameron e, più in generale, nell’intera produzione boccaccesca [4], la volontà dell’autore di esaltare la figura femminile, a cui dedica il suo capolavoro, ecco che Calandrino si impone come uno dei personaggi più negativi creati da Boccaccio. La condanna resta di certo implicita, tra le righe, ma emerge comunque, e nel modo in cui Bruno e Buffalmacco antepongono al riso l’incolumità della povera moglie di Calandrino, monna Tessa, «bella e valente donna» vittima della Fortuna, che gli ha destinato per marito un uomo tanto abbietto. È soprattutto per le donne sfortunate come monna Tessa che Boccaccio ha scritto il Decameron, nel tentativo di donare loro almeno un minimo conforto. E al cospetto della grandezza della donna anche il comico finisce in secondo piano.
NOTE
[1] Johann Wolfgang Goethe, Faust, traduzione di Guido Manacorda, Rizzoli, Milano 2005, p. 99.
[2] Per la lettura e l’analisi dell’ultima novella del Decameron rimando all’articolo Giovanni Boccaccio, uno scrittore al servizio delle donne. Decameron.
[3] Francesco Muzzioli, Piccolo dizionario dell’alternativa letteraria, ABEditore, Milano 2014, p. 53.
[4] Per un approfondimento sull’attenzione di Boccaccio all’universo femminile rimando agli articoli Giovanni Boccaccio, uno scrittore al servizio delle donne. Elegia di Madonna Fiammetta, Giovanni Boccaccio, uno scrittore al servizio delle donne. Decameron.
[5] Buonamico di Martino, detto Buffalmacco (1290 circa – 1340), pittore straordinario, di cui si ricorda, tra le altre opere, il monumentale affresco raffigurante il Trionfo della Morte (1336-1341), collocato presso il Campo Santo di Pisa.