Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace.
Personalmente reputo la nona novella della sesta giornata del Decameron, dedicata ai motti, la più grande – nel senso boiniano del termine – tra tutte quelle che compongono il capolavoro boccacciano, ineguagliabile per efficacia e profondità filosofica. Questo breve testo si impone come una delle supreme creazioni dell’intera storia della letteratura italiana, e non solo, lapidario omaggio a quella Cultura che nella vita di un uomo dovrebbe rappresentare un faro, e che oggi invece è ridotta a un cumulo di cenere in cui sono rimasti in pochi, pochissimi a soffiare sopra. Ma senza dilungarci oltre in inutili chiacchiere, leggiamo questo monumento letterario senza tempo.
«Dovete adunque sapere che ne’ tempi passati furono nella nostra cittá assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé dell’avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha discacciate; tra le quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportare potessono acconciamente le spese, ed oggi l’uno, doman l’altro, e cosí per ordine, tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata, ed in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, ed ancora de’ cittadini: e similmente si vestivano insieme almeno una volta l’anno, ed insieme i di piú notabili cavalcavano per la cittá, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella cittá. Tra le quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto ed i compagni s’erano molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de’ Cavalcanti, e non senza cagione, per ciò che, oltre a quello che egli fu un de’ miglior loici che avesse il mondo, ed ottimo filosofo naturale, delle quali cose poco la brigata curava, si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto, ed ogni cosa che far volle ed a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare: e con questo era ricchissimo, ed a chiedere a lingua, sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d’averlo, e credeva egli co’ suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta, speculando, molto astratto dagli uomini divenia: e per ciò che egli alquanto tenea dell’oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. Ora, avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino; essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono, e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era; messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido lá tra quelle sepolture, dissero: — Andiamo a dargli briga. — E spronati i cavalli, a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se n’avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire: — Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata: ma ecco, quando tu avrai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto? — A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: — Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace. — E posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sí come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò. Costoro rimaser tutti guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a fare piú che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro. Alli quali messer Betto rivolto, disse: — Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso: egli ci ha onestamente ed in poche parole detta la maggior villania del mondo, per ciò che, se voi riguarderete bene, queste arche sono le case de’ morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che son nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra. — Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire, e vergognossi, né mai piú gli diedero briga: e tennero per innanzi messer Betto sottile ed intendente cavaliere».

Nello sterminato universo decameroniano, Guido Cavalcanti si impone come l’uomo ideale: oratore eccezionale, generoso, onorevole, scaltro, dotato di una cultura straordinaria e di una altrettanto straordinaria vitalità fisica, condensata nell’agile balzo che gli permette di liberarsi dalla morsa della sciocca brigata, che consente di avvicinarlo a quell’ideale di bellezza e vigore fisico dominante nel Rinascimento, e in particolar modo nel suo più grande genio artistico – il più grande genio artistico di sempre in realtà -: Michelangelo.
Nella sua brevità, nella sua immediatezza fulminante, la novella sta tutta nella battuta e nel salto del protagonista. Battuta assolutamente geniale, ricercata e insieme aggressiva e scortese, che sta a messer Betto spiegare ai suoi stolidi compagni: «Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso: egli ci ha onestamente ed in poche parole detta la maggior villania del mondo, per ciò che, se voi riguarderete bene, queste arche sono le case de’ morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che son nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra». Contro la gretta logica dello spiro ergo sum Boccaccio, attraverso Cavalcanti, sostiene come sia la Cultura a distinguere un uomo vivo da un uomo morto, e non credo ci sia la necessità di aggiungere altro. Mi limito solamente a ricordare che questo tema dei vivi-morti nella letteratura italiana ha una grande e illustre tradizione. Prima di Boccaccio se ne era servito Petrarca, che in una lettera indirizzata a Giovanni Colonna e raccolta nelle Familiari, così definiva i suoi contemporanei:
«sono soltanto cadaveri che, sì, respirano, ma sono già putrefatti e deformi» [1].
Secoli dopo se ne servirà ancora Carlo Michelstaedter, nell’articolo Tolstoi [2], scritto in occasione degli ottant’anni del grande scrittore russo:
«Giovane è tutto ciò che diviene; vecchio non solo ma morto è ciò che è già divenuto. Guardiamo intorno a noi: noi viviamo in un mondo di cadaveri; cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano, ma non per ciò cessano di essere cadaveri» [3].
Petrarca, Boccaccio-Cavalcanti, Michelstaedter: vivi, loro, persino secoli dopo le loro morti; morti noi oggi, senza aver realmente vissuto neppure per un istante.
NOTE
[1] Francesco Petrarca, Le familiari, traduzione di U. Dotti, Argalia, Urbino 1974.
[2] Per la lettura e l’analisi dell’articolo rimando al capitolo secondo della terza parte dello studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter: Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj.
[3] Carlo Michelstaedter, Tolstoi, in Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, pp. 650-654.