« Géricault mi permise di vedere La zattera della Medusa quando ancora ci stava lavorando. Fece una tremenda impressione su di me tanto che quando uscii dal suo studio cominciai a correre come un pazzo e non mi fermai finché non raggiunsi la mia stanza. »
Eugène Delacroix
Qualche giorno fa osservando “Le Radeau de la Méduse”, dipinta da Théodore Géricault giusto due secoli fa (1818-19), tutto ad un tratto è esploso in me, nitido come il cielo di maggio, il concetto circolare della frase che cela il pensiero esteso di Giambattista Vico, “corsi e ricorsi storici”.
Ho compreso una volta di più che la storia è un anziano e non si stancherà mai di ripetere le vicende chiave della sua vita.
Il quadro credo che sia noto a tutti, ma per chi non fosse a conoscenza delle vicende dietro la tela cercherò di sintetizzarle, senza tediarvi troppo.
La tela maestosa è ispirata ai fatti di cronaca che hanno sconvolto la Francia in piena restaurazione borbonica: la fregata “Méduse”, guidata da Hugues Duroy de Chaumareys, naufraga a largo della Mauritania. Diretta in Senegal per controllare se gli inglesi abbiano effettivamente lasciato “libero il passaggio” sulla colonia francese, rimase vittima della negligenza del comandante, il quale non viaggiava da 25 anni e non conosceva quelle acque, rimanendo impantanati in una secca. Le persone più importanti abbandonarono la fregata con le scialuppe di salvataggio, mentre la ciurma rimase sulla “zattera”, in preda alla fame e alla follia che scoppiò nei giorni successivi all’abbandono, morendo un po’ alla volta, chi annegato, chi di fame e chi mangiato dai suoi stessi compagni.
Poche settimane dopo il naufragio la notizia arrivò a Parigi, facendo il giro d’Europa, diventando il simbolo dell’inefficienza post-napoleonica e convincendo Géricault a dipingere in versione magnum i volti di un disastro annunciato.
Per sintetizzare artisticamente cosa ha rappresentato l’opera mi limiterei a ricordare Dostoevskij, il quale una volta disse “siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol”: probabilmente Delacroix e figli sono scesi dalla zattera di Géricault.
Ma arriviamo ai giorni nostri, o ai giorni passati?
La prima assoluta certezza è che l’inesperienza e soprattutto la vaga conoscenza dei terreni da battere porta dritti verso un naufragio: è forse questo il caso della nostra classe politica attuale, inesperta e alla deriva. Il nostro capo fregata, Hugues Duroy de Chaumareys, oggi risponde al nome di Conte, Salvini o Di Maio, ed è pronto a bruciarsi perché la pelle che si ustionerà non sarà la sua bensì la nostra.
La seconda, ben più drammatica, constatazione è che su quella zattera ci siamo e ci saremo sempre noi: e non voglio cadere nella retorica dei migranti – abusata e stuprata da tutti ultimamente – bensì parlare di tutte quelle persone le quali nel momento del naufragio non avranno una scialuppa di salvataggio ad aspettarle, alle giornate in attesa di aiuto che non arriverà, al cannibalismo che ci costringerà a mangiare i nostri fratelli pur di superare una nottata in più, pur di vincere la morte, mentre i comandanti e gli alti funzionari avranno già raggiunto un porto calmo.
La metafora della zattera quindi, avvalorata dalle cause umane che hanno reso possibile l’avvenimento tragico, è purtroppo ripetibile. È solo questione di tempo.