Massimo Bontempelli (1878-1960) fu tra gli intellettuali più importanti, influenti, prolifici e poliedrici del XX secolo italiano. Di lui si ricordano opere narrative come Gente nel tempo (1937) e Giro del sole (1941), drammi teatrali, musiche e saggi. Fu inoltre il fondatore e direttore della rivista «900», e il creatore della corrente letteraria definita Novecentismo. Proponiamo quest’oggi un focus su tale tendenza, particolarmente interessante, particolarmente indicativa della letteratura dell’epoca.
Il Novecentismo nasce in reazione, e dunque in opposizione al patriottismo provinciale proprio dello Strapaese, movimento piuttosto sviluppato in quegli anni, complice del regime fascista e con l’obiettivo primario di difendere i territori e le produzioni artistiche nazionali. Lo scopo di Bontempelli è, al contrario, di più ampio respiro. Egli anela alla formazione di una cultura della modernità dalla vocazione europeista. L’immaginazione ricopre un ruolo fondamentale, rappresenta la base sulla quale ergere il “realismo magico”, che ha il compito di scoprire, di smascherare la “magia” che si cela dietro la nuova realtà.
Se il Decadentismo privilegiava come arte la musica classica, il Novecentismo preferisce dare risalto al jazz, alla pittura metafisica, al cinema muto e all’architettura, capace di modellare, ricreare sensibilmente, fisicamente il paesaggio umano.
Per quel che concerne specificatamente la letteratura, la corrente bontempelliana rifiuta l’idea ottocentesca della ricerca psicologica, proponendo una narrativa d’azione, d’avventura e d’intrigo. Le opere novecentiste strizzano l’occhio al romanzo popolare e d’appendice. Si accantona l’accademismo in favore di un’arte popolare, “applicata”, che vada incontro ad un pubblico sempre più ampio ed eterogeneo, che ascolti le esigenze dei destinatari.
Bontempelli non si sottrae dal confronto inevitabile con il Futurismo. Pur riconoscendo l’importanza storica dell’avanguardia, egli sostiene il bisogno di andare oltre. Marinetti e compagni furono i protagonisti di ricerche e rielaborazioni artistico-letterarie considerevoli, ma che devono essere superate per non perdere il passo dell’inarrestabile evoluzione umana che non conosce sosta.
Di seguito, alcuni passaggi estratti da tre dei cosiddetti quattro preamboli, interventi programmatici di Massimo Bontempelli usciti sui primi numeri della rivista «900»: Giustificazione (n. 1, 1926), Fondamenti (n. 2, 1926) e Analogie (n. 4, 1927). Scritti e pubblicati tutti in lingua francese, furono tradotti dallo stesso autore nel volume intitolato L’avventura novecentista, dato alle stampe nel 1938.
Unico strumento del nostro lavoro sarà l’immaginazione. Occorre riimparare l’arte di costruire, per inventare i miti freschi onde possa scaturire la nuova atmosfera di cui abbiamo bisogno per respirare. La smetteremo di stare ad afferrare con la reticella da farfalle i nostri più lievi sospiri, di ballare in giro continuamente agitandoci intorno le fosforescenti sciarpe delle nostre espressioni più labili: quando avremo collocato un nuovo solido mondo davanti a noi, la nostra più solerte occupazione sarà passeggiarlo ed esplorarcelo; tagliarne blocchi di pietra e porli uno sopra l’altro per metter su fabbricati pesanti, e modificare senza tregua la crosta della terra riconquistata. La aspirazione femminile alla musica, farà luogo alle leggi virili dell’architettura. La musica, che nasce entro noi, potrà sgorgare continuamente a innaffiare e avvivare la geometria solidamente campata di fuori. Il mondo immaginario si verserà in perpetuo a fecondare e arricchire il mondo reale. Perché non per niente l’arte del Novecento avrà fatto lo sforzo di ricostruire e mettere in fase un mondo reale esterno all’uomo. Lo scopo è di imparare a dominarlo, fino a poterne sconvolgere a piacere le leggi. Ora, il dominio dell’uomo sulla natura è la magia. Ed ecco spiegati certi caratteri e certe velleità magiche che vediamo spuntare qua e là in quella «atmosfera di formazione» che non ho inventata io, no no, ma che questo «900» si lusinga di poter rappresentare e favorire. […]
Se è vero che l’arte vede risplendere oggi davanti a sé nuove possibilità, queste dovranno tenersi ugualmente lontane dalla bellezza e dall’interiorità. Non si tratta più di far fremere la pelle e far risaltare i muscoli, né di esplorare la propria anima. L’importante è creare oggetti, da collocare fuori di noi, bene staccati da noi; e con essi modificare il mondo. […] È lo spirito dell’architettura. L’architettura diventa assai rapidamente anonima. L’architettura rifoggia a suo modo la superficie del mondo: sa continuarsi e compiersi con le forme della natura. Lo stesso deve fare la poesia, foggiando favole e personaggi che possano correre il mondo come giovani liberati che hanno saputo dimenticare la casa ove nacquero e ove hanno compiuto la loro maturazione. […] Per raggiungere lo scopo che ho indicato, i materiali personali con i quali il poeta deve oggi comporre le sue costruzioni saranno piuttosto movimenti che non stati d’animo, piuttosto eccitazioni che non sentimenti. Credo che la musica sia su questa strada, mediante le indicazioni assai precise e preziose che le dà il gusto del giazz. Mercé questo indirizzo, oggi possiamo capire come nella storia del teatro dell’Ottocento tutta la commedia brillante francese, da Labiche alla “Dame de chez Maxim”, possa importare più di Ibsen. Quanto alla letteratura, vedremo avanzarsi al primo piano l’opera narrativa, quella specialmente che si fonda sulla invenzione e sull’intreccio. In questi racconti e romanzi tutto diventa esteriore, e lo spunto lirico si fa natura e storia. Il grado di verità dell’osservazione realistica o dell’analisi psicologica, la vibrazione dei sentimenti, il gioco degli ambienti, tutti quegli elementi che presso i romanzieri più celebrati dell’Ottocento erano fine a se stessi, acquistano presso gli scrittori d’intreccio un valore puramente strumentale, diventano i semplici motori della dinamica delle favole. Penso a Dumas padre, che nessun critico poteva ancora studiare come poeta, e che tra vent’anni sentiremo come lo scrittore più vicino ai nostri gusti, alle nostre necessità, alla nostra estetica rinnovata. (È chiaro quanto tale estetica ci allontana da ogni accademia e ci approssima al pubblico?) Naturalmente, le nostre avventure col mondo non saranno le stesse che Dumas incontrò nelle tre dimensioni della natura e della storia. I lenti funerali del romanticismo sono stati un’operazione magica, che ci ha aperto improvvisi squarci su spazi poco noti. Per questi squarci, in ognuna delle nostre avventure d’ogni giorno penetrano soffi da quelle atmosfere che ancora non sappiamo misurare. Quel preteso “fumismo” (in cui sboccò l’esperienza dell’ironia), quel “funambulismo” col quale i critici gravi hanno creduto liberarsi con una parola da tanti problemi personali degli scrittori nuovi, non è che il primo tirocinio magico del nostro nuovo senso di quegli orizzonti in formazione. L’hanno anche chiamato (specialmente in pittura) “metafisica”, che non era trovato male. Ho nominato il giazz, ho sfiorato il romanzo d’appendice; indico ancora le possibilità del cinema, ove l’arte dello scrittore, libera finalmente dal peso della parola, potrà espandersi in tutta la sua purezza e perfezione. […]
Mi hanno domandato, se per caso novecentismo non sia sostanzialmente la stessa cosa che futurismo. Noi professiamo una grande ammirazione per il futurismo, che nettamente e senza riguardi ha tagliato i ponti tra Ottocento e Novecento. Senza i suoi princìpii e le sue audacie, lo spirito del vecchio secolo, che prolungò la propria agonia fino allo scoppio della guerra, ancora oggi ci ingombrerebbe: nessuno di noi novecentisti, se non fosse passato traverso le persuasioni e le passioni del futurismo, potrebbe oggi dire le parole che aprono il nuovo secolo. Inoltre, tale opera di sgomberamento il futurismo la compié con una temperatura così alta, che l’assieme di tutti i suoi tentativi di realizzazione costituì di per se stesso una notevole opera d’arte: l’ultima e la più folgorante delle espressioni del romanticismo, che in esso si brucia e gloriosamente chiude la sua lunghissima vita. […] Già nelle dichiarazioni con le quali la vita di questa rivista s’è aperta, ho detto che se dovessimo contrapporci con violenza a qualche attuazione o atteggiamento futurista, lo faremmo per quella necessaria ed eroica ingratitudine e ribellione che i figli debbono avere verso i padri per non morire in loro. Ciò posto, le più interessanti differenze tra novecentismo e futurismo sono le seguenti: 1) il futurismo è soprattutto lirico e ultrasoggettivo. Noi repugnamo dall’atteggiamento lirico, propugnamo la creazione di opere che si stacchino al possibile dai loro creatori, diventino un oggetto della natura: di qui la prevalenza assoluta, per quanto riguarda gli scrittori, dell’arte narrativa, che dovrà inventare i miti e le favole necessari ai tempi nuovi, come li inventò la Grecia preomerica, come li inventò il vecchio medioevo romantico: ad esse poterono correre il mondo in mille forme; 2) di qui il nostro atteggiamento antistilistico: noi cerchiamo l’arte d’inventare favole e persone talmente nuove e forti, da poterle far passare traverso mille forme e mille stili mantenendo quella forza originaria; appunto come avvenne dei miti e dei personaggi delle due ere che ci hanno preceduto. Il futurismo invece fu soprattutto stilistico, e gran parte della sua poetica fu fatta di regole formali; 3) per contro il novecentismo non può avere una “poetica”, ed è lontano al possibile da quello che si chiama “scuola”. La sua funzione fondamentale e la sua più precisa ambizione è quella di cogliere nel groviglio di vecchio e di nuovo, di moribondo e di vivo, di sterile e di fecondo, di ineffettuale e di predestinato, ciò che costituisce la parte respirabile di un’atmosfera, e segnalandolo concorrere e farlo più vivo, purificato, atto e pronto a creare il nutrimento necessario per gli uomini d’oggi e di domani (e in questo la nostra continuità con le ambizioni del futurismo è chiara e importante): ma per questa opera non addita metodi o forme, si accontenta di accertare quale dovrà essere lo strumento della costruzione nuova: la immaginazione; 4) il futurismo fu – ed era necessario – avanguardista e aristocratico. L’arte novecentista deve tendere a farsi “popolare”, ad avvincere “il pubblico”. Non crede alle aristocrazie giudicanti, vuol fornire di opere d’arte la vita quotidiana degli uomini, e mescolarle a essa. In altre parole, il novecentismo tende a considerare l’arte, sempre, come “arte applicata”, ha un’enorme diffidenza verso la famosa “arte pura”. L’artista sia soprattutto un eccellente “uomo di mestiere”.
Strapaese e Stracittà. “Il Selvaggio”, “L’Italiano”, “900”, a cura di L. Troisio, Canova, Treviso 1977.