Leo von Klenze, Ricostruzione idealizzata dell'Acropoli di Atene, 1846.

Le origini dell’utopia

Il tema dell’utopia ha una lunga tradizione filosofica, che affonda le radici nel pensiero greco. Tra i primi pensatori utopici troviamo Ippodamo di Mileto (V secolo a. C.), di cui Aristotele parla nella Politica. Il filosofo stagirita scrive che Ippodamo «fu il primo di quelli che, pur non occupandosi di politica, tentarono di dire qualcosa sulla costituzione migliore. Progettava uno stato con una popolazione di diecimila uomini, diviso in tre classi: faceva una classe di artigiani, un’altra di agricoltori, la terza, poi, di difensori forniti di armi. Divideva in tre parti il territorio: una sacra, una pubblica, una privata: sacra quella da cui si sarebbero tratte le spese per le cerimonie rituali agli dei, comune quella che avrebbe fornito i mezzi di sostentamento ai difensori, privata quella propria degli agricoltori». Ippodamo si concentra anche sulla gestione e il controllo della giustizia, sostenendo che i magistrati devono essere scelti tra le tre classi, nessuna esclusa. Una visione estremamente democratica, applicata ad un sistema sociale rigoroso.

Il filosofo che più di ogni altro, nel pensiero greco, ha dato lustro al tema dell’utopia è Platone, nel celebre dialogo La Repubblica. L’intento dell’opera è quello di fornire un modello plausibile per la creazione e l’organizzazione di un impianto politico attuabile. Nella discussione Glaucone sostiene l’impossibilità della concretizzazione di un tale sistema, mentre Socrate – portavoce delle convinzioni di Platone – afferma che «forse nel cielo ne esiste un modello per chi voglia vederlo e con questa visione fondare la sua personalità». Secondo l’autore della Repubblica, una delle funzioni primarie della filosofia è di oltrepassare le differenze che corrono tra realtà e idealità, conducendo gli uomini oltre la sfera puramente sensibile, così da poter compiere quel che è giusto. L’utopia ha dunque un compito preciso, ovvero quello di mostrare, svelare il senso più elevato e autentico, e il modo per raggiungerlo e conseguentemente concretizzarlo. Lo Stato immaginato da Platone rappresenta la totalità dell’individuo, e la regola da seguire nel processo di ricerca e realizzazione.

Nel dettaglio, i cittadini dello Stato ideale devono dedicarsi al mestiere assegnatogli direttamente dal governo. Essi fanno parte di una comunità all’interno della quale è necessario collaborare dividendosi gli incarichi, nessun cittadino è infatti in grado di provvedere singolarmente alle esigenze primarie. Così come Ippodamo, anche Platone divide la società in tre classi: gli artigiani, che hanno il compito di lavorare i beni materiali; i guardiani, che devono salvaguardare lo Stato; infine i governanti. Il pensatore ateniese espone anche idee che riguardano la giustizia, l’educazione dei cittadini, che prevede una selezione, e la famiglia. Celebre il libro VII della Repubblica, nel quale Platone espone il mito della caverna, rappresentazione metaforica del processo conoscitivo. La conoscenza è un’acquisizione, ma anche, e soprattutto, una liberazione. Tra i passi più discussi e ambigui dell’opera platonica, quello nel quale il pensatore sostiene che il governo dello Stato deve essere affidato ai filosofi. Solo loro infatti «riescono ad arrivare a ciò che sempre permane invariabilmente costante», ossia all’imperitura ed eternamente uguale verità del mondo delle idee.

– Se dunque il filosofo vive in armonia con ciò che è divino e ordinato, egli diviene ordinato e divino, per quanto è possibile a un uomo. Ma da ogni parte si muovono accuse contro di lui – Assolutamente. – Se quindi, continuai, si trova talvolta costretto a tentare di tradurre in caratteri umani gli oggetti delle sue sublimi visioni, sia nell’ambito privato sia in quello pubblico, senza limitarsi a plasmare soltanto se stesso, credi che sarà cattivo artefice di temperanza, di giustizia e di ogni virtù popolare? – Niente affatto, rispose. – Ma se i più si accorgono che diciamo il vero su di lui, si arrabbieranno con i filosofi senza crederci quando diciamo che mai uno stato potrà essere felice se non è disegnato da quei pittori che dispongono del modello divino? – Non s’arrabbieranno, disse, sempre che se n’accorgano. Ma come va fatto, dici, il disegno? – Dopo aver preso, risposi, come se si trattasse di una tavoletta, lo stato e i caratteri umani, in primo luogo lo renderanno puro, cosa non facile. In ogni caso vedi bene che ci sarebbe subito un punto di differenza dagli altri: non consentiranno a occuparsi né di un privato né di uno stato, né a stendere testi di legge se prima non avranno ricevuto puro quel privato o quello stato, oppure non l’avranno reso tale essi stessi. – E con ragione, rispose. – Subito dopo non credi che tracceranno lo schema della costituzione? – Sicuramente. – In seguito, penso, completando il lavoro, guarderanno spesso da una parte e dall’altra, a ciò che per natura è giusto bello temperante e così via, e in rapporto a quello a loro volta lo faranno nascere negli uomini, fino a ottenere, mescolando e temperando le varie forme di vita umane, una sembianza d’uomo modellata su quel tipo che anche Omero chiamò, quando lo notava negli uomini, di aspetto divino e simile agli dei. – Giusto, disse. – E, credo, ora cancelleranno ora ridipingeranno, finché, con ogni sforzo, avranno creato caratteri umani cari agli dei più che sia possibile. – Molto bella, davvero, disse, sarebbe questa pittura. – Ebbene, ripresi, quei tali che, come dicevi, ci si sarebbero avventati contro con estrema violenza, riusciamo in qualche modo a persuaderli che un simile pittore di costituzioni è quello di cui facevamo loro le lodi e che ne suscitava le ire perché gli affidavano gli stati? A sentir ora ripetere questa affermazione, non si addolciscono un poco? – Certamente, rispose, se sono persone assennate. – Che cosa potranno obiettare? Che i filosofi non amino “ciò che è” e la verità? – Sarebbe assurdo, disse. – E che la loro natura, da noi descritta, non sia familiare del sommo bene? – Nemmeno questo. – Ancora: che questa natura, quando avrà trovato le forme di vita che le sono adatte, non sarà perfettamente buona e amante del sapere quant’altra mai? O diranno che tali doti avrebbero avuto in grado maggiore quelli che abbiamo escluso? – No certamente. – E si adireranno ancora quando noi diciamo che, se prima la stirpe dei filosofi non diventa padrona dello stato, né lo stato né i cittadini avranno tregua dei mali? e che la costituzione che a parole, come una favola, andiamo esponendo, non avrà piena realizzazione? – Forse meno, ammise. – Vuoi ora, feci io, che li dichiariamo diventati non “meno”, ma “del tutto” miti e convinti? e questo perché siano d’accordo, se non altro per pudore? – Senza dubbio, rispose. […]
Ora, poiché questo argomento, sia pure a fatica, è stato completamente esaurito, non dobbiamo passare a trattare il resto, ossia in quale maniera e con quali discipline e forme di vita si foggeranno i nostri difensori della costituzione, e a quale età ciascuno di loro si dedicherà ai vari compiti? – Sì, dobbiamo trattarne, rispose. […] ma la questione dei governanti bisogna trattarla quasi da capo. Dicevamo, se ricordi, che i governanti dovevano dimostrare grande amore di patria, essere messi alla prova tra i piaceri e i dolori, e non farsi cogliere a rigettare questa loro convinzione né in mezzo alle fatiche né alle paure né in nessun altro cambiamento di condizioni; altrimenti si doveva scartare chi non avesse queste qualità. Chi invece fosse uscito da queste prove completamente intatto come oro saggiato nel fuoco, lo si doveva costituire uomo di governo e premiare da vivo e da morto con onori e doni. Pressappoco così si diceva, con parole furtive e velate, per paura di smuovere la questione presente. – Parole verissime le tue, rispose; mi ricordo. – Mio caro, ripresi, c’era scrupolo a dire le audaci cose di adesso. Ora però osiamo pure dichiarare che i più scrupolosi guardiani devono essere dei filosofi. – Dichiariamolo pure, ammise. – Pensa allora quanto sarà verosimile che siano pochi questi tuoi filosofi; ché le parti di quella che, come dimostrammo, dev’essere la loro natura, raramente consentono a stare unite nel medesimo soggetto. Per lo più questa natura nasce disunita. – Come dici?, chiese. – Tu sai che persone pronte ad apprendere, dotate di memoria, perspicaci, acute d’ingegno e fornite di tutte le qualità analoghe, non sogliono avere da natura anche un pensiero così vigoroso e nobile da consentire a vivere regolate, con tranquillità e fermezza. – È vero quello che dici, ammise. – Viceversa, quei caratteri fermi e incrollabili, sui quali più si può contare per la loro fedeltà, e che in guerra difficilmente si lasciano prendere dalla paura, si comportano allo stesso modo quando si tratta di imparare: sono difficili a scuotere e tardi ad apprendere, come intorpiditi, e sono pieni di sonnolenza e sbadigli, ogni volta che devono sopportare una simile fatica. – È così, disse. – Noi però dicevamo che devono avere in alto grado queste e quelle doti, altrimenti a un carattere come questo non dev’essere concesso di partecipare né alla più rigorosa educazione né a onori né a cariche pubbliche. – Giusto, rispose. – Non credi che esso sarà raro? – Come no? – Si deve dunque saggiarlo tra quelle fatiche e paure e piaceri che allora dicevamo; aggiungiamo ora ciò che prima avevamo tralasciato, ossia che occorre esercitarlo anche in parecchie discipline, per vedere se la sua natura riuscirà ad affrontare le più alte discipline o se ne impressionerà, come chi s’impressiona nelle altre prove. – È un esame che merita fare, disse [1].

L’utopia è un tema trattato anche nella cultura latina, sebbene con meno vigore e incisività rispetto a quella greca. In particolar modo, merita una citazione in merito l’Ecloga IV delle Bucoliche di Virgilio, nella quale il poeta canta la ricomparsa dell’età dell’oro, simultaneamente alla nascita di un fanciullo (in questo senso, l’esegesi cristiana vedrà nel fanciullo un’anticipazione di Cristo, e l’autore latino verrà considerato una sorta di profeta anticipatore delle verità cristiane). Virgilio compone questi versi nel 40 a. C., ispirato dall’accordo tra Ottaviano e Antonio che sospende le guerre civili. L’intesa politica tra le due personalità romane induce a sperare in un nuovo periodo di pace e cambiamento, ergo di rinascita. Il poeta immagina una natura non più avversa all’uomo, ma benevola con la sua creatura più abile, la liberazione dal lavoro e l’estirpazione di tutte le crudeltà. Una visione estremamente utopica.

Per te, o fanciullo, la terra senza che nessuno la coltivi,
effonderà i primi piccoli doni, l’edera errante
qua e là con l’elìcriso e la colocàsia con il gaio acanto.
Le capre da sole riporteranno gli uberi colmi
di latte, e gli armenti non temeranno i grandi leoni.
La stessa culla spargerà per te soavi fiori.
Svanirà anche il serpente, svanirà l’erba insidiosa
di veleno, e dovunque nascerà l’amomo di Assiria.
Ma quando potrai leggere le lodi degli eroi
e le imprese del padre, e conoscere che cosa sia la virtù,
imbiondirà a poco a poco la campagna di ondeggianti spighe,
da selvaggi roveti penderanno rossi grappoli d’uva,
le dure querce stilleranno una rugiada di miele.
Resteranno tuttavia poche tracce dell’antica malizia,
che faranno affrontare Teti con navigli, cingere
di mura le città, incidere di solchi la terra;
allora vi sarà un altro Tifi, e un’altra Argo
che trasporti scelti eroi; vi saranno altre guerre
e di nuovo sarà mandato a Troia il grande Achille.
Poi, quando la salda età ti avrà fatto uomo,
il mercante da sé si ritrarrà dal mare, le navi di pino
non scambieranno le merci; ogni terra produrrà tutto.
Il suolo non patirà rastrelli, né la vigna la falce;
anche il robusto aratore scioglierà i tori dal giogo;
e la lana non saprà più fingere i vari colori,
l’ariete da sé nei prati cambierà il colore del vello
con la porpora che rosseggia soave, con il giallo che svaria nell’oro:
spontaneamente il carminio rivestirà gli agnelli al pascolo.
«Affrettate tali secoli», hanno detto ai loro fusi
le Parche concordi nell’irremovibile volontà del Fato.
Sarà ormai tempo di raggiungere i più alti onori,
o diletta prole degli dèi, o glorioso rampollo di Giove!
Guarda il mondo che scuote la curva mole,
e la terra e le distese del mare e il cielo profondo!
Guarda come tutto s’allieta del secolo che viene! [2]

NOTE

[1] Platone, La repubblica, traduzione di F. Sartori, in Platone, Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1971.

[2] Virgilio, BucolicheEcloga IV, vv. 18-52, a cura di L. Canali, BUR, Milano 1978.

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