Cosa credete che sia un artista! Un imbecille che ha solo occhi se è pittore, solo orecchie se è musicista e se poeta una lira a tutti i piani del suo cuore? Al contrario è nello stesso tempo un essere politico costantemente vigile davanti ai laceranti, ardenti o dolci accadimenti del mondo, modellandosi completamente alla loro immagine. Come sarebbe possibile disinteressarsi degli altri uomini? E in virtù di quale eburnea indifferenza ci si distaccherebbe da una vita che gli stessi uomini donano così generosamente? No, la pittura non è fatta per decorare gli appartamenti, è uno strumento di guerra offensivo e difensivo contro il nemico.
— Pablo Picasso, Parigi, 24 marzo 1945
Non v’è chi non veda, in queste settimane, che il tenore del confronto pubblico in Italia si stia facendo costantemente più teso. Dibattito pubblico che, nell’era digitale del social continuum, è talvolta poco altro che un dialogo destinato a fallire sin dalla sua nascita o, più spesso, assume le casalinghe proporzioni di un tanto disperante quanto inutile soliloquio. Uno stanco cinguettio abbandonato su tastiere wireless. Schermi di smartphone che accolgono il riflesso di volti gratuitamente piccati dalla notizia del momento, una alla volta.
Se la consapevolezza dell’incidenza del Fake News System si sta facendo lentamente (troppo lentamente) avanti, è ancora privilegio dei pochi la certezza di quali e quanti siano i danni che uno story telling colpevolmente parziale sta creando nella identità culturale collettiva di questo Paese. Frammenti di una realtà che non può essere più semplicemente osservata, ma deve essere raccontata secondo una interpretazione che, in quanto tale, ormai ha fatto della sua stessa pretesa di libertà una stanca e faziosa deriva ideologica semplice, a buon mercato. Il nostro animo artistico può sopportare praticamente tutto, ma certo non la semplicità, peggiore fra i peccati capitali che la Santa Madre Chiesa ha colpevolmente dimenticato di aggiungere alla lista. Che peccato.
È in un tale panorama, vacanziero sospirante e non così desolante, lasciateci il vezzo di uno stanco ottimismo, che siamo costretti a fare ciò che abbiamo sempre fatto: ormai iniziate a conoscerci, e sapete quanto sempre cara fu per noi la figura del flâneur. Girovaghiamo per le terre italiche e del mondo tutte, quelle reali e della realtà aumentata, cercando lo spiraglio di un messaggio, una tela, un verso inciso: e la nostra attenzione è stata attirata inesorabilmente proprio dalla fortunata coincidenza del messaggio, del verso, della tela.
Mentre ancora risuonano (no, non è vero. Mentre dovrebbero tornare a squillare forti) le parole di Picasso, un graffito palermitano si è ritrovato con suo stesso stupore ad essere fra le presenze più acclamate e fotografate di Manifesta 12, Biennale d’Arte siciliana che quest’anno sta raccogliendo molti consensi e godendo finalmente di una buona e doverosa attenzione. Tenetela d’occhio.
Diciamocelo: questo graffito è parecchio sornione. È nato per crescere e riprodursi su Instagram, fino al naturale raggiungimento della sua morte per overdose altrui. Ma ciò che deve interessare agli uomini e le donne di buona volontà è la sopravvivenza di un messaggio che fa della sua durata e della sua relativa inconoscibilità i suoi doni più importanti. Ciò che oggi è scritto con una vernice spray sul muro, ieri è stato inciso sull’architrave del Teatro Massimo Vittorio Emanuele di Palermo. È lì che queste parole hanno trovato per la prima volta il loro compimento.
«L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire»
Questa l’iscrizione completa, il messaggio esteso e non privo di una certa dose di lapidarietà. Le due forme di espressione murale che meglio hanno appartenuto ai tempi della cultura che le erano proprie, si sono rincorse per decidere di coesistere oggi, nella stessa città poco più di centoventi anni dopo, nel 2018. E come tutte le antiche indicazioni che in questo Paese meglio riusciamo a far nostre, anche in questo caso l’autore è anonimo, o quanto meno dubbio. Come se l’epigrafista avesse sentito il bisogno di ritirarsi e lasciare che la sua identità abbandonasse le parole, affrancandole per il beneficio di tutti.
In un momento in cui la tanto emblematica, repubblicana democraticissima libertà di parola ha assunto i connotati di un ineludibile diritto all’inascoltabilità, e l’uso e costume di quella d’espressione hanno sancito il definitivo spegnimento per consunzione delle forme storiche di protesta sociale, i disagi per scioperi e manifestazioni stupiscono la popolazione meno di quelli causati dalle sante processioni di paese. A pensarci bene, in Italia questo è un dato antropologico più importante di quel che sembra, e non privo di risvolti imbarazzanti.
Viene allora di domandarsi quale debba essere il ruolo della Cultura e di chi bada affinché se ne faccia pure una, ed è qui ed ora che allora noi Malpensanti vogliamo proporre un nostro paradosso, senza pretesa alcuna e per il solo gusto di farlo. L’art pour l’art. Là dove il “Buffone” la sta facendo da padrone, che sia una figura più o meno teatrale o semplicemente una citazione colta di Saviano, noi vogliamo proporre l’Anonimo. Un Anonimo altro però, differente. Viene da chiedersi se l’Uomo di Cultura che questo nuovo Millennio necessita non sia in realtà il Grande Assente, figura di cui vogliamo reclamare la paternità almeno concettuale. Una figura che faccia della sua unica ascendenza un totale Orfanismo. Nessun padre, nessuna madre. Un distacco totale dalla meccanica bulimica della mediaticità; infotografabilità e impossibilità di essere ricollegati ad alcunché di ideologico. Praticamente un Nuovo Veglio della Montagna che faccia della sua assenza la carta politica più rivoluzionaria, negando all’interlocutore (e agli avversari) la possibilità di essere ricondotto e trascinato ai tempi del consumo televisivo. Allargare dunque temporalmente il campo di gioco, decidendo quando, come, e se sedersi al tavolo.
Se è vero, allora, che “vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”, anche la presenza di un’Opera d’Arte che sia più distaccata dalle mani che l’hanno messa al mondo e che sia una continua, fine, e muta provocazione – appare ora necessaria. E se è anche vero che “l’Arte rinnova i Popoli”, sarebbe perlomeno artisticamente interessante osservare come un’Opera orfana e silente si inneschi in un Popolo che di fatto l’Anonimato già lo vive, e che si illude di evadere con banali affermazioni di identità a suon di fotocamera frontale. Non vogliamo dire, con questo, che sia l’unica Opera degna di essere concepita. Sarebbe questa una dichiarazione programmatica che nessuno può ormai più permettersi, tanto meno noi. Ma siamo sicuri che se c’è un fattore che può portare alla nascita di una Cultura funzionante che sia nostra, questo deve essere un Silenzio che dietro l’apparenza dell’incongruente, del paradossale, e dell’illogico nasconda la possibilità della creazione pura, distaccata e non-duale.
Insomma: un’Aura Ritrovata dopo ottantadue anni dalla denuncia di smarrimento di Walter Benjamin.