William Morris Hunt, Hamlet, 1864.

William Shakespeare, la professione di nullismo di Amleto

«Essere, o non essere…» recita l’inizio di uno dei brani più celebri – se non il più celebre in assoluto – dell’intera storia della letteratura, il monologo di Amleto, nella I scena del III atto dell’omonimo dramma di William Shakespeare. Si tratta del momento culminante di quella crisi del principe di Danimarca che costituisce il motore principale dell’opera: dopo la scoperta dello schifo che si cela dietro la parvenza di normalità che ammanta la sua famiglia, prorompe in Amleto un invincibile, inestirpabile senso di ripugnanza nei confronti del mondo e della vita, che lo porta a mettere in discussione tutto, e svuota completamente di significato quell’azione di rivalsa e insieme di castigo concessa all’uomo offeso e codificata da secoli di storia: la vendetta. Si tratta di una svolta epocale, perché è la prima volta che ciò avviene, è la prima volta che uno dei fondamenti dell’immaginario collettivo del genere umano, consacrato dal mito e dalla storia, viene annientato. Certo, si può reagire al sangue versando altro sangue, ma la vendetta non cancellerà mai l’offesa subita, l’ingiustizia. L’onta è destinata a resistere, a perdurare nel tempo.

Così facendo Shakespeare segna il passaggio dall’eroe antico all’anti-eroe moderno. Amleto – potremmo utilizzare per lui le parole utilizzate da Mann per Hans Castorp ne La montagna incantata: «non eroico eroe» [1] -, inaugurando una tradizione che dal Seicento – e si ricordi anche il Don Chisciotte di Cervantes – giunge fino alla prima metà del Novecento, allorquando l’inetto si impone come una delle figure centrali della letteratura [2]. Ciò che anima il principe di Danimarca non è la viltà, ma una superiore coscienza delle cose, del mondo e della vita, di cui la manifestazione più chiara – di una chiarezza abbacinante – è appunto il famosissimo monologo sopracitato, che il protagonista non recita tenendo in mano un teschio, secondo una pessima abitudine tristemente diffusa (si tratta di scene differenti).

Essere, o non essere, è questo che mi chiedo:
se è più grande l’animo che sopporta
i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata,
o quello che si arma contro un mare di guai
e opponendosi li annienta. Morire… dormire,
null’altro. E con quel sonno mettere fine
allo strazio del cuore e ai mille traumi
che la carne eredita: è un consummatum
da invocare a mani giunte. Morire, dormire, –
dormire, sognare forse – ah, qui è l’incaglio:
perché nel sonno della morte quali sogni
possano venire, quando ci siamo districati
da questo groviglio funesto, è la domanda
che ci ferma – ed è questo dubbio
che dà una vita così lunga alla nostra sciagura.
Perché, chi sopporterebbe le frustate e le ingiurie del tempo,
il torto dell’oppressore, l’oltraggio del superbo,
le angosce dell’amore disprezzato, le lentezze della legge,
l’insolenza delle autorità, e le umiliazioni
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando, da sé, potrebbe darsi quietanza
con un semplice colpo di punta? Chi accetterebbe
di accollarsi quelle some, e grugnire
e sudare sotto il peso della vita,
se non fosse il terrore di qualcosa
dopo la morte, la terra sconosciuta
da dove non torna mai nessuno, a paralizzarci
la volontà, e farci preferire i mali che abbiamo
ad altri di cui non sappiamo niente? Così
la coscienza ci rende codardi, tutti,
e così il colore naturale della risolutezza
s’illividisce all’ombra pallida del pensiero
e imprese di gran rilievo e momento
per questo si sviano dal loro corso
e perdono il nome di azioni [3].

In questo monologo Amleto rende la sua professione di nullismo. Egli non «sopporta» né «si arma»; egli non ha un animo affatto grande. E ciò che non lo rende grande è la consapevolezza, cui è giunto dopo la rivelazione dello spettro paterno, che gli ha reciso le palpebre con un taglio netto. Amleto ora sa, Amleto è approdato all’amara verità della vita. La vita… nient’altro che un «groviglio funesto», a cui potremmo porre fine, con il suicidio, ma «il terrore di qualcosa / dopo la morte» ci frena, «la coscienza ci rende codardi, tutti»: apostasia dell’eroismo: «e così il colore naturale della risolutezza / s’illividisce all’ombra pallida del pensiero».

John Everett Millais, Ophelia, 1852.

Incapace di agire contro se stesso – al contrario di un altro grande apostata, ma della virtù, il leopardiano Bruto minore -, spaventato – questa volta sì – di ciò che attende un uomo dopo la pur inevitabile dipartita, Amleto si sfoga contro la povera Ofelia, allontanando da sé anche l’unica persona disposta ad amarlo – e viene in mente il comportamento analogo dell’uomo-topo protagonista delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij nei confronti della prostituta Lisa, anch’ella, nonostante la professione, candida, quasi santa creatura [4] -, e lei sì, grazie anche all’apporto di una benedetta follia – vera, non simulata come quella del protagonista -, saprà autodistruggersi e trovare la pace dalle «frustate e le ingiurie del tempo», dal «torto dell’oppressore», dall’«oltraggio del superbo», dalle «angosce dell’amore disprezzato», dalle «lentezze della legge», dall’«insolenza delle autorità», dalle «umiliazioni» ricevute «dagli indegni» (Amleto sa di essere indegno di Ofelia).

L’Amleto apre una ferita irrimarginabile nella storia del genere umano. Attraverso la vicenda del principe di Danimarca Shakespeare cancella l’illusione che la vendetta possa risarcire l’offesa – vendetta ridotta a mera reazione nervosa istintiva, capace forse di appagare per un istante, ma incapace di colmare il vuoto, e comunque soggetta all’azione ridimensionatrice del pensiero -, e leva il suo inno alla sola, vera soluzione dei problemi dell’uomo, di quei «mille traumi / che la carne eredita» (ecco a cosa è ridotta la nascita, eredità di «shocks»): la morte.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul romanzo di Mann e il suo protagonista rimando all’articolo L’evoluzione di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann.

[2] Per un approfondimento rimando al ciclo di articoli L’inetto – Figura centrale della letteratura del XX secolo: Parte I, Parte II, Terza ed ultima parte.

[3] William Shakespeare, Amleto, traduzione di N. D’Agostino, Garzanti, Milano 1989. Mi permetto inoltre di rimandare alla mia Operetta Dialogo di Amleto e di Ofelia.

[4] Per un approfondimento sul romanzo dello scrittore russo rimando agli articoli Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Prima parte, Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo. Seconda parte.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: