La crisi kantiana di Heinrich von Kleist

Non possiamo decidere se ciò che chiamiamo la verità sia davvero tale, e non un’apparenza. La verità che qui raccogliamo dopo la morte non c’è più, e ogni sforzo per appropriarci di qualcosa che ci segua nella tomba, è vano.

Bernd Heinrich Wilhelm von Kleist nasce a Francoforte sull’Oder il 18 ottobre 1777, da Joachim Friedrich, membro di un’insigne famiglia prussiana dall’importante tradizione militare [1], e da Juliane Ulrike von Pannwitz, sposata in seconde nozze. Il giovane Heinrich intraprende da subito, nel 1792, la carriera militare. Sono gli anni in cui scoppia la guerra tra la Francia rivoluzionaria e la Prima coalizione degli alleati, di cui fa parte anche l’esercito prussiano, e Kleist, ancora ragazzo, si trova coinvolto in diverse e importanti battaglie, partecipando anche all’assedio di Magonza (1793) [2]. La pace di Basilea del 1795, pone momentaneamente fine alle sanguinose ostilità tra i Francesi e i Tedeschi, e Kleist, rientrato a Potsdam, può così avvicinarsi allo studio della filosofia e alla letteratura. Da quel che si evince dal suo fitto epistolario, si dedica alla lettura di autori del passato, come Lucrezio e Shakespeare, ma anche del presente, come Schiller, Goethe e Wieland [3]. Supponiamo che tali e importanti letture abbiano influito in modo significativo sull’improvvisa decisione di Kleist di abbandonare l’esercito, dopo sette anni di onorato e intenso servizio.

La carriera militare gli ripugna, egli brama ora la conoscenza, vuole studiare, sapere e raggiungere la verità. E non lo toccano le naturali preoccupazioni dei familiari, perplessi dal fatto che il rampollo abbandoni un avvenire sicuro, in favore di un avvenire incerto e denso di inquietanti e minacciosi punti interrogativi. Kleist è determinato e, come scrive al suo ex precettore Martini, «Nessuno può sapere meglio di me che cosa serve alla mia felicità, nessuno può sapere bene come me quale via, data la mia costituzione fisica e morale, io debba battere, proprio perché nessuno lo sa così esattamente né può indagarlo come me» [4]. Sono ora il sapere, la conoscenza le uniche fonti nelle quali Kleist crede di poter attingere la sua felicità. Lo studio è la sola via che sente di dover battere. La vita militare, le battaglie, le armi, i cadaveri, le gozzoviglie e le relazioni sociali con le importanti signore non lo interessano più. Egli ha l’impellente bisogno di indagare e acquisire nozioni, acquisire certezze scientifiche.

Kleist vuole dedicarsi completamente alla propria Bildung (“formazione”), e per questo motivo ha in mente un definito e dettagliato «piano di vita»: dopo il congedo, che gli viene accordato il 4 aprile 1799, intende studiare un anno all’Università di Francoforte e trasferirsi poi in quella ben più stimata di Göttingen [5]. Tuttavia, l’esperienza universitaria di Kleist dura poco, appena tre semestri, e si conclude nell’estate del 1800. I motivi che lo hanno condotto ad abbandonare gli studi sono molteplici: innanzitutto, nonostante gli sforzi straordinari, Kleist è insoddisfatto e deluso, dallo studio non ottiene quello che sperava, quello che desiderava, non è affatto una fonte di felicità, anzi, gli sembra la causa di una sorta di prosciugamento, di inasprimento sentimentale e spirituale, il suo animo e il suo cuore naturalmente travolgenti e impetuosi sembrano infiacchirsi, indebolirsi, piegarsi e sottomettersi del tutto alla fredda razionalità scientifica; in secondo luogo, ed è Ludwig Tieck (1773-1853) a sottolinearlo, nella sua prefazione alle opere del 1826 [6], il fatto che Kleist, da semplice e impreparato autodidatta, debba confrontarsi con colleghi più giovani e competenti di lui, non lo aiuta affatto, e immaginiamo il suo ego afflitto e talvolta persino offeso da una tale, fastidiosa circostanza. Kleist vive un periodo complicato e doloroso, divorato dall’incertezza, e solamente il fidanzamento con Wilhelmine von Zenge (1780-1852) riesce ad allentare almeno un poco le preoccupazioni, soprattutto per il suo intenso impegno pedagogico, volto a curare la formazione educativa della donna.

Il 1 novembre 1800, Kleist sembra aver preso una decisione: intraprendere la carriera amministrativa – del resto, il fidanzamento e la prospettiva matrimoniale richiedono una certa stabilità economico-finanziaria e, diciamo così, esistenziale -. Si rivolge al ministro von Struensee chiedendogli di poter partecipare alla Deputazione Tecnica [7]. Ma ecco quel che scrive solo pochi giorni dopo, esattamente il 13 novembre, alla fidanzata Wilhelmine: «Non voglio impieghi […]. Amore e formazione sono due irrinunciabili condizioni della mia futura felicità. […] Basta coi pregiudizi, basta con la nobiltà, basta col ceto – uomini buoni vogliamo essere e contentarci della gioia che ci dà la natura» [8]. Parole che stridono incredibilmente con la sua, a questo punto presunta, decisione di dedicarsi alla pubblica amministrazione. Kleist comunque tenta, si sforza con tutto se stesso, provando a rinnegare la sua stessa natura ribelle e fuori dagli schemi, ma le sedute gli provocano «una sensazione ripugnante», come scrive alla sorella Ulrike [9]. Può un uomo che ha rifiutato l’adrenalinica carriera militare prima e l’entusiasmante attività intellettuale poi, trascorrere la propria vita partecipando a lunghe e noiose riunioni, tra enormi volumi impolverati e indecifrabili? No, non può, nonostante provi con tutto se stesso a raggiungere un compromesso apparentemente necessario.

Il 1801 è per Kleist l’anno decisivo, un vero e proprio spartiacque all’interno della sua tormentata vicenda esistenziale. Kleist scopre Kant, ed ecco che l’intero suo mondo deflagra, va in pezzi per non ricomporsi mai più. Dal filosofo tedesco Kleist apprende un unico e decisivo insegnamento: la verità è inconoscibile. Questa rivelazione lo sconvolge, lo getta nella disperazione, e neppure il conforto dei vecchi amici, raggiunti a Potsdam, dove aveva già vissuto quando era ancora un giovanissimo soldato, può alleviare le sue sofferenze. Kant frantuma, con spietata lucidità e chiarezza, ogni certezza, rivoluziona l’intera filosofia, colpisce Kleist nel profondo, distruggendo con chirurgica precisione ogni sua precedente convinzione. In preda a una vera e propria crisi, che lo costringe a rivedere il proprio rapporto con il mondo e con l’uomo, Kleist prorompe, come sempre, nelle lettere. Scrive alla fidanzata Wilhelmine: «Se gli uomini invece degli occhi avessero delle lenti verdi, dovrebbero ritenere che tutto ciò che vedono sia verde […]. Così è con l’intelletto: non possiamo decidere se ciò che chiamiamo la verità sia davvero tale, e non un’apparenza. La verità che qui raccogliamo dopo la morte non c’è più, e ogni sforzo per appropriarci di qualcosa che ci segua nella tomba, è vano. […] Così il mio unico, il mio sommo scopo è crollato e io non ne ho più alcuno» [10].

Alla sorella Ulrike invece, parla della filosofia di Kant addirittura in termini di colpevolezza. Kleist accenna infatti a tutti quegli uomini che, sconvolti dalle rivelazioni del pensatore tedesco, sono sprofondati nella «follia» [11]. Riguardo se stesso, Kleist non parla di follia, ma di «inquietudine» [12]. E se in passato era stata la conoscenza la sua massima aspirazione, una conoscenza che Kant ha dimostrato essere di fatto irraggiungibile, ora Kleist brama la pace più di ogni altra cosa, tende ad essa con ogni singola fibra del suo corpo debole e stanco. È quanto scrive a Wilhelmine il 9 aprile: «Ah, Wilhelmine, se il cielo mi regalasse una casa nel verde, io rinuncerei per sempre a tutti i viaggi e alla scienza e a tutte le ambizioni. Perché niente fuorché dolori mi procura questo mio cuore eternamente agitato che nella sua traiettoria oscilla incessantemente a sinistra e a destra, e io con tutta l’anima bramo ciò a cui tendono tutta la creazione e tutti i corpi terrestri in moto sempre più lento: alla pace!» [13]. Ma Kleist, per sua sfortuna – anche se in fondo crediamo che non sarebbe poi cambiato molto, tanto il suo cuore era irrequieto e straripante – non possiede una casa immersa nel verde, e allora si dedica all’erranza. Il suo è un destino di erranza.

A Dresda, suggestionato dalle inestimabili bellezze artistiche della Gemäldegalerie, è scosso da impetuosi slanci religiosi. La vista di un fedele immerso nella preghiera gli ispira parole di fuoco, indirizzate alla lontana fidanzata: «Nessun dubbio lo tormenta. Lui crede. Io ho provato un indescrivibile desiderio di gettarmi per terra accanto a lui e di piangere. Ah, solo una goccia d’oblio e con voluttà mi farei cattolico» [14]. Il cuore e l’animo di Kleist sono in subbuglio, o meglio, in tempesta. Una tempesta violenta, che innalza onde, spezza alberi maestri e straccia vele, e che non accenna a diminuire di intensità nonostante l’azione del tempo. Kleist si sposta in continuazione, in poche settimane attraversa mezza Germania per poi trasferirsi infine a Parigi. Ed è proprio durante il soggiorno parigino che Kleist approda finalmente, dopo anni e anni di dolorosi naufragi, al proprio porto: la scrittura. Lo dimostrano queste parole indirizzate ancora a Wilhelmine: «Scriver libri per denaro – questo mai. Perché trovo così poco per il mio bisogno, in un’ora solitaria (giacché esco assai poco) ho elaborato un ideale: però non capisco come un poeta possa consegnare il figlio del suo amore a questa rozza masnada che sono gli uomini. Lo chiamano bastardo. Mi piacerebbe condurti nella grotta dove custodisco mio figlio, come una vestale il suo, al lume di una lampada. Perciò di questa possibile branca di guadagno non se ne fa nulla. La disprezzo, per molti motivi e basta» [15].

A Parigi Kleist inizia a lavorare alla sua prima opera, La famiglia Schroffenstein, e inoltre matura quella sua personalissima e originalissima idea della donna. Se la verità è inconoscibile, allora cosa resta? Il cuore. E ciò è riscontrabile soprattutto nella donna, come afferma lo stesso Kleist in una lettera indirizzata all’amica Caroline von Schlieben: «[…] se l’uomo si riconosce dall’intelletto, la donna si riconosce dal cuore […]. C’è una certa bontà celeste con cui la natura ha contraddistinto le donne e che è soltanto loro, tutto ciò che vi si accosta con un cuore lo stringe a sé con trepido affetto. Come fa il sole […] con tutti i corpi celesti che si trovano nel suo raggio d’azione […] finché al termine del suo cammino a spirale non riposano sul suo petto ardente» [16].

Le donne si riconoscono dal cuore, il loro petto arde come arde il sole. A loro non interessa la ragione, la verità, la conoscenza. Le donne sentono e provano senza nessun filtro, le loro sensazioni e le loro emozioni sgorgano impetuose e istintive. E i personaggi femminili di Kleist, nati con lui in seguito alla crisi kantiana, si caratterizzano proprio per questo spontaneo, impulsivo e drammatico aspetto, già a partire dall’Agnes de La famiglia Schroffenstein [17].

NOTE

[1] L’autore e l’opera, di Hermann Dorowin, in H. v. Kleist, La marchesa di O…, a cura di Rossana Rossanda, Marsilio Editori, Venezia 2001, p. 31.

[2] Cronologia, a cura di Anna Maria Carpi, in H. v. Kleist, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Anna Maria Carpi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011, pp. XLVIII – XLIX.

[3] Ivi, pp. XLIX – L.

[4] Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi, lettera del 18-19 marzo 1799.

[5] Cronologia, a cura di Anna Maria Carpi, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. LI.

[6] Ivi, p. LI.

[7] Ivi, p. LV.

[8] Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi, lettera del 13 novembre 1800.

[9] Ivi, lettera del 5 febbraio 1801.

[10] Ivi, lettera del 22 marzo 1801.

[11] Cronologia, a cura di Anna Maria Carpi, in H. v. Kleist, Opere, cit. p. LVII.

[12] Ivi, p. LVII.

[13] Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi, lettera del 9 aprile 1801.

[14] Ivi, lettera del 21 maggio 1801.

[15] Ivi, lettera del 10 ottobre 1801.

[16] Ivi, lettera del 18 luglio 1801.

[17] Per un approfondimento sulle principali protagoniste femminili della produzione kleistiana rimando agli articoli: La famiglia Schroffenstein. Alla scoperta della prima opera kleistiana, L’Anfitrione secondo Kleist. Là dove è concesso solo sospirare, La bestiale Pentesilea di Heinrich von Kleist, Sonnambulismo e devozione nella Käthchen di Kleist, Heinrich von Kleist – La marchesa di O…

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