Prego coloro che dell’assurdo vizio dell’orgoglio sono intinti magari leggermente, di starmi lontano più che possono.

Curioso come uno dei libri più sovversivi e anti-umani dell’intera storia della letteratura sia stato sistematicamente ridotto ad una confortante e inoffensiva favola per bambini, e come tale si sia imposto nell’immaginario collettivo. Parlo dei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, il geniale decano polemista. Il romanzo, a dispetto della vulgata riduzione infantile – moralmente ingiustificabile e molto simile al goffo tentativo di normalizzazione ottimistica e filantropica di un’opera nata da un ardente e feroce impegno critico e misantropico (in pieno stile Walt Disney, per intenderci) -, rappresenta una spietata indagine del genere umano, in cui Swift, come Leopardi nelle Operette morali, e in particolar modo in una di queste: La scommessa di Prometeo [1], giunge alla distruzione del secolare mito dell’uomo, di cui mostra la reale natura, una natura bestiale e violenta, che svela l’infondatezza di ogni fede nei confronti del progresso e della ragione. Ma ripercorriamoli, sommariamente, questi Viaggi di Gulliver.
Scampato ad un naufragio, il medico Lemuel Gulliver approda sull’isola di Lilliput, nella quale tutto, cose e abitanti, è minuscolo, ridotto ad un dodicesimo delle nostre convenzionali dimensioni. Dapprima imprigionato e poi liberato, Gulliver aiuta i Lillipuziani nella guerra che li oppone agli acerrimi rivali dell’impero di Blefuscu, e il suo determinante apporto gli permette di imporsi addirittura come eroe nazionale. Sennonché, per sedare l’incendio che avvolge il palazzo imperiale, vi orina sopra, rendendosi colpevole di lesa maestà. Gulliver è così costretto a fuggire dall’isola di Lilliput e a rifugiarsi nell’impero avverso, dal quale torna nella sua Inghilterra.
Nel secondo viaggio il medico raggiunge il paese di Brobdingnag, dove la situazione, rispetto alla prima esperienza, si rovescia completamente. Qui infatti il rapporto è di 12:1, e Gulliver, questa volta minuscolo, finisce tra i giocattoli preferiti della figlia del re. Nel viaggio successivo il protagonista visita l’isola volante di Laputa, patria di scienziati e inventori, dove vige la legge della razionalità astratta, realmente e concretamente impraticabile nella sua assurdità. Quindi, nell’isola magica di Glubdubrid, Gulliver evoca i più illustri uomini del passato, di cui scopre la mediocrità, l’inattesa, impensabile mediocrità. A Luggnagg invece fa esperienza dell’insensatezza di quell’ingiustificato attaccamento alla vita che caratterizza i suoi simili, attraverso la condizione meschina e tutt’altro che invidiabile degli Immortali, privati sì della morte, ma anche della possibilità di godere dell’eterna giovinezza.

Nel suo ultimo viaggio, troviamo infine Gulliver nella terra abitata dagli yahoo, creature bestiali a metà strada tra l’umano e lo scimmiesco, dominate da cavalli saggi e virtuosi dal nome impronunciabile, gli houyhnhnm, che ospitano Gulliver credendolo un esemplare di una specie sconosciuta di yahoo. Il protagonista tenta di convincere i saggi cavalli che egli non appartiene alla misera e brutale razza degli yahoo, ma i ragionamenti degli houyhnhnm lo conducono alla scoperta di una verità terribile, spaventosa e, ahinoi, inconfutabile: l’uomo non è altro che una variante, per di più degradata, degli scimmieschi yahoo. È il momento in cui Swift distrugge il mito dell’uomo, mostrando la sua vera natura, brutale e violenta. Certo, gli uomini si distinguono dagli yahoo per la ragione, ma cosa ha prodotto la ragione? Non ha fatto altro che ampliare a dismisura le primarie, elementari esigenze dell’essere umano, e soprattutto ha sovraccaricato di spregiudicatezza, di malignità e di insincerità la sua innata tendenza alla cupidigia, alla dissolutezza e alla devastazione. Almeno negli yahoo questi impulsi si manifestano in modo naturale, autentico, immediato, senza ipocrisie.
Ora, uno dei momenti del libro in cui si rivela con maggiore, spietata evidenza tutta la meschinità del genere umano, è senza dubbio quando il malcapitato Gulliver descrive a Padron Cavallo la guerra, concetto del tutto estraneo agli houyhnhnm.
Per ubbidire, dunque, agli ordini dell’onorevolissimo padron mio, gli narrai i fasti della Rivoluzione del Principe di Orange; e la guerra che questi dichiarò alla Francia e che la Regina oggi regnante, succeduta a quel Principe, ha rinnovato, coinvolgendo in essa i maggiori Stati della Cristianità. Gli dissi che le armi non erano state ancora deposte, e che, da un computo approssimativo, non meno d’un milione di yahoo erano stati uccisi durante il corso della campagna, più di cento città avevano dovuto capitolare, trecento e più navi erano rimaste preda delle fiamme o affondate.
Mi domandò quali fossero le cause più comuni che spingevano una nazione a fare guerra all’altra. Risposi che erano innumerevoli, e mi sarei limitato a menzionare le principalissime. A volte è l’ambizione dei principi, i quali non credono mai d’avere abbastanza territorio o popolo da governare; a volte la corruzione dei ministri, i quali cacciano i loro Re in una guerra non per altro che per soffocare e deviare i clamori dei sudditi contro le loro malversazioni. Non si contano i milioni di vite sacrificate alla discrepanza di opinione; se, per esempio, la carne sia pane, o non piuttosto il pane sia carne; se il succo d’una certa bacca sia sangue ovvero vino; se il fischiare sia un vizio o una virtù; se sia meglio baciare o gettar nel fuoco un palo; se il miglior colore per un vestito sia il nero, il bianco, il rosso, o il grigio; se l’abito debba portarsi lungo o corto, attillato o largo, sudicio o pulito; e via di questo passo. La discrepanza di opinione genera, anzi, le guerre più furiose, micidiali, ostinate, segnatamente se si manifesta intorno a cose futili.
La contesa fra due principi nasce talvolta da questo: chi di loro due dovrà spogliare un terzo di dominii sui quali né il primo né il secondo può accampare alcun diritto. C’è pure il caso in cui un principe fa guerra all’altro, solo perché teme che quest’altro possa far guerra a lui. La guerra, inoltre, scoppia, ora perché il nemico è troppo forte, ora perché è troppo debole. A volte i nostri vicini non hanno le cose di cui noi abbondiamo, o, viceversa, abbondano delle cose che ci fanno difetto: allora, si combatte finché o quelli ci pigliano la roba nostra, ovvero ci danno la loro. Legittima ragione d’invadere un paese è lo stato di debolezza in cui questo si viene a trovare dopo una carestia rovinosa, o una pestilenza sterminatrice, o una guerra civile provocata da fazioni. Si ha diritto di muovere guerra al nostro più stretto alleato sempre che una delle sue città giaccia in una posizione che strategicamente conviene a noi, o che un suo territorio possa arrotondare ed integrare i nostri dominii. Quando un principe invade con truppe agguerrite un paese in cui gli abitanti sono poveri ed ignoranti, è perfettamente legittimo ch’egli di questi mandi la metà a morte, e converta l’altra metà in tanti schiavi, per il fine d’incivilirli e obbligarli a smettere il loro barbaro tenor di vita. Quando un principe chiama in aiuto Tizio per respingere l’invasione di Caio, la maestà stessa, l’onore, e la consuetudine vogliono che Tizio, cacciato che abbia Caio, usurpi i dominii che era venuto a difendere, e ammazzi, imprigioni, o esilii il principe in soccorso del quale s’era mosso. L’alleanza di consanguinei o affini si tramuta spesso in una causa d’ostilità; anzi, quanto più stretti sono i parenti, tanto più sono proclivi ad attaccar brighe. Le nazioni povere hanno fame, e le ricche sono piene d’orgoglio, e orgoglio e fame si faranno sempre la guerra. Per tutte queste ragioni, il mestiere del soldato è onorifico più di qualsiasi altro; perché il soldato è uno yahoo che mediante una mercede si obbliga ad ammazzare, a sangue freddo, quanti suoi simili più può, senza che questi gli abbiano mai recato la minima offesa.
C’è pure in Europa una specie di principi accattoni i quali, non essendo abbastanza forti essi stessi per guerreggiare, cedono i loro soldati a ricchi monarchi per un corrispettivo d’un tanto sopra ogni testa giornalmente. Tre quarti della mercede vanno nelle loro tasche, e costituiscono il loro principale mezzo di sussistenza. Tali sono per esempio i principi della Germania e di altre nazioni dell’Europa settentrionale.
«Quel che mi avete detto» interruppe il mio padrone «intorno alla guerra porge davvero la prova più mirabile degli effetti di quel dono di ragione che pretendete d’aver avuto in sorte. C’è, ad ogni modo, da rallegrarsi che l’infamia sia maggiore del danno, e che la natura vi abbia reso affatto incapaci di nuocervi reciprocamente sul serio […] Perciò non posso fare a meno di pensare che abbiate detto la cosa che non è quando accennaste al numero dei morti in battaglia».
Non potei tenermi dallo scuotere il capo e dal sorridere di fronte a tanta sua ignoranza. Non essendo profano all’arte della guerra, presi a descrivergli cannoni, colubrine, moschetti, carabine, pistole, proiettili, polvere, spade, baionette, battaglie, assedi, ritirate, attacchi, mine, contrammine, bombardamenti, battaglie navali; vascelli affondati con sopra mille uomini, ventimila combattenti uccisi da ciascun lato; gemiti di moribondi, membra volanti per l’aria, fumo, rumore, confusione, cavalli calpestanti corpi umani fino a ridurli cadaveri; fughe, inseguimenti, vittorie; campi disseminati di carogne abbandonate alla voracità dei cani, dei lupi, degli uccelli di rapina; saccheggi, spoliazioni, stupri, incendi, distruzioni. E affinché il valore dei miei diletti compatrioti potesse rifulgere, lo assicurai che li avevo visti in un assedio riuscire a far saltare in aria cento nemici in una volta, e altrettanti in un combattimento navale, e che m’ero goduto la vista dei corpi morti piombanti giù a pezzi dalle nuvole con sommo divertimento degli astanti.
M’accingevo a dare più minuti particolari, quando il padrone m’ingiunse di tacere. «Chiunque conosce» egli disse «l’indole degli yahoo può agevolmente capire che un animale così abietto diventi capace di commettere tutte le orribili azioni da voi menzionate, sol che forza ed accortezza eguaglino la tristizia. Poiché il vostro discorso ha fatto aumentare il mio aborrimento per l’intera razza yahoo, provo, a sentirvi parlare, un turbamento mentale affatto nuovo. Non è escluso che col tempo le mie orecchie si abituino alle parole detestabili che vi escono dalla bocca, e imparino poco per volta ad accoglierle con minore ripugnanza. Odio, sì, gli yahoo di questo paese, ma non li biasimo per i loro abominevoli difetti più di un gnnayh (uccello rapace) per la sua crudeltà, o d’una pietra acuminata per la sua qualità di ferirmi lo zoccolo. Ma quando un essere che si vanta ragionevole può essere capace di tutte le atrocità cui avete accennato, comincio allora a temere che la ragione male adoperata sia qualche cosa di peggio della stessa naturale bestialità. Voglio, dunque, credere che voi siate dotati, non già di ragione, ma d’una facoltà atta ad accrescere i vostri difetti naturali; quale un torbido ruscello che riflette l’immagine d’un corpo deforme, non soltanto ingrandita, ma più stravolta che mai» [2].
Senza rendersene conto, nella descrizione dell’evento violento per eccellenza, la guerra, Gulliver stesso assesta un colpo mortale al secolare mito dell’uomo, soprattutto quando, infervorandosi, racconta dell’entusiasmo con cui i soldati vedono piovere dal cielo i corpi fatti a pezzi dei nemici, suscitando lo sdegno di Padron Cavallo, che evidenzia come l’uomo sia persino peggiore dei disgustosi yahoo: «quando un essere che si vanta ragionevole può essere capace di tutte le atrocità cui avete accennato, comincio allora a temere che la ragione male adoperata sia qualche cosa di peggio della stessa naturale bestialità». E il saggio Padron Cavallo giunge persino a mettere in dubbio che l’uomo, una creatura tanto malvagia, possa essere dotata di ragione: «Voglio, dunque, credere che voi siate dotati, non già di ragione, ma d’una facoltà atta ad accrescere i vostri difetti naturali; quale un torbido ruscello che riflette l’immagine d’un corpo deforme, non soltanto ingrandita, ma più stravolta che mai».
Il soggiorno presso gli houyhnhnm, con la scoperta della meschinità dell’uomo, rappresenta un duro colpo per Lemuel Gulliver. Rientrato in patria, il protagonista non riesce a reintegrarsi tra i suoi simili. E il romanzo si conclude con una preghiera, che somiglia tanto ad un grido smorzato, in cui si esprime tutto il dolore di Gulliver per l’impossibilità di eguagliare l’ideale di saggezza e virtù rappresentato dagli houyhnhnm: «prego coloro che dell’assurdo vizio dell’orgoglio sono intinti magari leggermente, di starmi lontano più che possono». Il protagonista individua così nell’orgoglio il peggiore dei difetti dell’uomo, che s’illude d’essere il padrone del mondo, la più grande creatura dell’universo, e invece non è che una variante degenerata di essere bestiali, scimmieschi e pelosi, i disgustosi yahoo.
No, I viaggi di Gulliver non è un’opera rassicurante e leggera, tutt’altro. Con una spietatezza difficilmente eguagliabile, Swift distrugge il mito dell’uomo e ci mostra quel che realmente siamo, creature bestiali, avide, depravate, malvagie, violente, votate all’autodistruzione, all’autoestinzione.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul capolavoro di Giacomo Leopardi rimando all’articolo Sulle Operette morali.
[2] Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, traduzione di M. d’Amico, in Jonathan Swift, Opere, a cura di M. d’Amico, Mondadori, Milano 1983.