Petrarca e la sua Laura in un affresco nella casa del poeta.

Il Canzoniere di Francesco Petrarca: storia di un amore umano

Come scrive Foscolo nel secondo dei quattro saggi dedicati a Petrarca, stampati in inglese, a Londra, nel 1823, «Petrarca era nato per creare con ansietà, e per disperdere nello sconforto le illusioni necessarie al suo riposo» [1]. Tale innata inclinazione all’«ansietà» e allo «sconforto» percorre l’intera produzione petrarchesca, manifestandosi nel modo più evidente, immediato e autentico nel Canzoniere (ricordo che il titolo d’autore della più celebre opera di Petrarca non è questo, ma Rerum vulgarium fragmenta, ovvero Frammenti di cose in volgare, che accantono per questioni di comodità). In esso il poeta ripercorre la lunga storia del suo amore per Laura, dal primo incontro, avvenuto in una chiesa di Avignone «il dì sesto d’aprile» (CCXI, v. 13) [2], venerdì santo, del 1327, alla morte della donna, avvenuta nel 1348, e oltre. Un amore umano – troppo umano nella prospettiva di Petrarca, sempre teso al divino ma costretto obtorto collo a fare i conti con le proprie debolezze di uomo (è questo uno dei temi più caratteristici della produzione petrarchesca, affrontato nel modo più compiuto e organico nel Secretum [3]) – presentato anche nei suoi aspetti terreni e sensuali. Quello che anima il poeta è un «fero desio» (LXII, v. 3), Laura è desiderata non più come una creatura trascendentale dispensatrice di beatitudine e veicolo della salvezza eterna (come la Beatrice dantesca), ma come donna, donna fatta di carne e sangue. Petrarca mostra l’amore per quel che effettivamente è: non un sentimento sublime e sublimante, ma una violenta passione sensuale che assume i tratti angoscianti dell’ossessione e della schiavitù. Nel Canzoniere «regnano i sensi, et la ragion è morta» (CCXI, v. 7), e anche quando il poeta presenta Laura come mediatrice tra sé e il divino, motivo tipico dello stilnovismo, più che di un’inclinazione teologica si tratta di una pura metafora letteraria che ha il solo scopo di nobilitare l’oggetto del proprio amore. Mentre per Dante la Beatrice figura di Cristo nella Vita nuova [4] e nella Commedia ha un peso storico, assolutamente reale, per Petrarca la Laura nata per fermo in paradiso (CXXVI, v. 55) ha la leggerezza del sogno.

Ad inasprire l’amore petrarchesco contribuisce in modo determinante l’impossibilità di un congiungimento con Laura. La donna si nega, è sempre altrove rispetto al poeta, e quando all’«ansietà» e allo «sconforto» subentra la rabbia di ritrovarsi in questa condizione di passione inesausta, ecco che Laura diviene la nemica: ella è colei che «inforsa» (CLII, v. 4), rende incerto, e «sface» (CLXIV, v. 5), distrugge; ella è la Medusa – «L’ombra sua sola fa ‘l mio cor un ghiaccio, / et di bianca paura il viso tinge; / ma li occhi ànno vertù di farne un marmo» (CXCVII, vv. 12-14) – che sarebbe stato meglio non vedere – «Noia m’è ‘l viver sì gravosa et lunga / ch’i’ chiamo il fine, per lo gran desire / di riveder cui non veder fu ‘l meglio» (CCCXII, vv. 12-14) -. Si legga per intero il sonetto CCLVI, in cui la rabbia del poeta nei confronti della propria donna erompe senza freni:

Far potess’io vendetta di colei
che guardando et parlando mi distrugge,
et per più doglia poi s’asconde et fugge,
celando li occhi a me sì dolci et rei.

Così li afflicti et stanchi spirti mei
a poco a poco consumando sugge,
e ‘n sul cor quasi fiero leon rugge
la notte allor quand’io posar devrei.

L’alma, cui Morte del suo albergo caccia,
da me si parte, et di tal nodo sciolta,
vassene pur a lei che la minaccia.

Meravigliomi ben s’alcuna volta,
mentre le parla et piange et poi l’abbraccia,
non rompe il sonno suo, s’ella l’ascolta.

Gli effetti di questo amore inappagato sono devastanti. Il poeta è vittima di un dolore inestinguibile: «quando avrò queto il core, asciutti gli occhi, / vedrem ghiacciare il foco, arder la neve» (XXX, vv. 9-10). Ed è proprio nell’espressione del proprio dolore che Petrarca dà il meglio di sé, come rileva Foscolo: «Principalmente nella espressione del dolore il Petrarca entra in ogni cuore, ed ogni cuore entra nel suo. Nettezza di dizione, delicatezza di sentimento, estasi platonica, tutto cede alla violenza del suo dolore; e noi rimiriamo lo spaventoso conflitto tra la ragione e la disperazione, tra la passione e la religione» [5]. Il poeta non trova pace, la parola chiave del Canzoniere, la parola che, emblematicamente, lo conclude: «li amorosi strali / mi tengon ad ogni or di pace in bando. / Lasso, che pur da l’un a l’altro sole, / et da l’una ombra o l’altra, ò già ‘l più corso / di questa morte, che si chiama vita» (CCXVI, vv. 7-11). L’impossibilità di appagare la propria passione muta la vita in morte e acuisce, spingendola fino al parossismo, quella contraddizione tipica dell’uomo Petrarca [6]:

Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ‘l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio.

Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi (CXXXIV).

È questo uno dei sonetti in assoluto più belli non solo del Canzoniere, ma dell’intera letteratura italiana.

Come se tutto questo non bastasse, contribuisce ad alimentare l’«ansietà» e lo «sconforto» del poeta la consapevolezza della vanitas, tema tra i più cari a Petrarca e che, come tale, attraversa tutto il libro, dal primo all’ultimo componimento: «quanto piace al mondo è breve sogno» (I, v. 14); «Quanto più m’avicino al giorno extremo / che l’umana miseria suol far breve» (XXXII, vv. 1-2); «cosa bella mortal passa, et non dura» (CCXLVIII, v. 8); «Veramente siam noi polvere et ombra, / veramente la voglia cieca e ‘ngorda, / veramente fallace è la speranza» (CCXCIV, vv. 12-14); «Misero mondo, instabile et protervo, / del tutto è cieco chi ‘n te pon sua spene» (CCCXIX, vv. 5-6). Petrarca accoglie la radicale e anticlericale lezione del Qoelet (Ecclesiaste) e cede al medievale contemptus mundi, che ha in Iacopone da Todi il suo grandioso cantore [7].

Da una tale, invincibile sofferenza, da un tale, corrosivo dissidio il poeta potrebbe liberarsi con il suicidio, la cui tentazione e il cui fascino l’amante disperato subisce più di una volta. A frenarlo è il «timore di varcare d’una in altra peggiore miseria» [8]: «S’io credesse per morte essere scarco / del pensiero amoroso che m’atterra, / colle mie mani avrei già posto in terra / queste membra noiose, et quello incarco; / ma perch’io temo che sarebbe un varco / di pianto in pianto, et d’una in altra guerra, / di qua dal passo anchor che mi si serra / mezzo rimango, lasso, et mezzo il varco» (XXXVI, vv. 1-8). E ancora: «O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi, / o testimon’ de la mia grave vita, / quante volte m’udiste chiamar morte! / Ahi dolorosa sorte, / lo star mi strugge, e l’ fuggir non m’aita. / Ma se maggior paura / non m’affrenasse, via corta et spedita / trarebbe a fin questa aspra pena et dura; / et la colpa è di tal che non à cura» (LXXI, vv. 37-45) [9].

Laura muore, e la morte della donna amata permette al poeta di riplasmarla. Nelle visioni Laura appare come una creatura ben più dolce e compassionevole di quanto non fosse in vita, una creatura che finalmente apprezza e ricambia l’amore del poeta. Privo di un riscontro con la realtà, Petrarca ricrea la sua donna, la rende conforme al suo ideale femminile e al suo sogno d’amore. È quanto si legge nei sonetti CCLXXIX e CCCII:

Se lamentar augelli, o verdi fronde
mover soavemente a l’aura estiva,
o roco mormorar di lucide onde
s’ode d’una fiorita et fresca riva,

là ‘v’io seggia d’amor pensoso et scriva,
lei che ‘l ciel ne mostrò, terra n’asconde,
veggio, et odo, et intendo ch’anchor viva
di sì lontano a’ sospir’ miei risponde.

“Deh, perché inanzi ‘l tempo ti consume?
– mi dice con pietate – a che pur versi
degli occhi tristi un doloroso fiume?

Di me non pianger tu, ché’ miei d’ fersi
morendo eterni, et ne l’interno lume,
quando mostrai de chiuder gli occhi apersi.”

***

Levommi il mio penser in parte ov’era
quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra:
ivi, fra lor che ‘l terzo cerchio serra,
la rividi più bella et meno altera.

Per man mi prese, et disse: – In questa spera
sarai anchor meco, se ‘l desir non erra:
i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra,
et compie’ mia giornata inanzi sera.

Mio ben non cape in intelletto humano:
te solo aspetto, et quel che tanto amasti
e là giuso è rimaso, il mio bel velo.

Deh perché tacque, et allargò la mano?
Ch’al suon de’ detti sì pietosi et casti
poco mancò ch’io non rimasi in cielo.

Laura desidera che l’amante la raggiunga in paradiso, precisamente nel cielo di Venere, sede degli spiriti che hanno convertito in Dio il loro amore terreno, ma Petrarca è ormai lontano dalla poesia teologica di matrice dantesca. Questi richiami al divino, alla possibilità di un ricongiungimento sovrannaturale, sono mere metafore letterarie che attingono la loro ragion d’essere alla dimensione più sognante di Petrarca, quasi come compensazione della tragica perdita.

Morta la donna amata, il poeta invoca la propria di morte, talvolta a un ritmo martellante, come nei seguenti versi: «Vissi di speme, or vivo pur di pianto, / né contra Morte spero altro che Morte. / Morte m’à morto, et sola pò far Morte / ch’i’ torni a riveder quel viso lieto» (CCCXXXII, vv. 41-44); «Far mi pò lieto in una o ‘n poche notti: / e ‘n aspro stile e ‘n angosciose rime / prego che ‘l pianto mio finisca Morte» (ivi, vv. 73-75); «Dunque vien’, Morte: il tuo venir m’è caro» (CCCLVIII, v. 8).

Il Canzoniere si conclude con la meravigliosa pregiera alla Vergine, in cui il poeta, «con sublimità e affetto che nessun poeta mai superò, implora l’aiuto di lei a poter cessare nella sua vecchia età di struggersi in lamenti sopra le ceneri di tale, che aveva riempiuto la sua vita di pericoli e di lagrime» [10]:

Vergine bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sì, che ‘n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole:
ma non so ‘ncominciar senza tu’ aita,
et di Colui ch’amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò con fede:
Vergine, s’a mercede
miseria extrema de l’humane cose
già mai ti volse, al mio prego t’inchina,
soccorri a la mia guerra,
bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina.

Vergine saggia, et del bel numero una
de le beate vergini prudenti,
anzi la prima, et con più chiara lampa;
o saldo scudo de l’afflicte genti
contra colpi di Morte et di Fortuna,
sotto ‘l qual si triumpha, non pur scampa;
o refrigerio al cieco ardor ch’avampa
qui fra i mortali sciocchi:
Vergine, que’ belli occhi
che vider tristi la spietata stampa
ne’ dolci membri del tuo caro figlio,
volgi al mio dubbio stato,
che sconsigliato a te vèn per consiglio.

Vergine pura, d’ogni parte intera,
del tuo parto gentil figliuola et madre,
ch’allumi questa cita, et l’altra adorni,
per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre,
o fenestra del ciel lucente altera,
venne a salvarne in su li extremi giorni;
et fra tutti terreni altri soggiorni
sola tu fosti electa,
Vergine benedetta,
che ‘l pianto d’Eva in allegrezza torni.
Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno,
senza fine o beata,
già coronata nel superno regno.

Vergine santa d’ogni gratia piena,
che per vera et altissima humilitate
salisti al ciel onde miei prieghi ascolti,
tu partoristi il fonte di pietate,
et di giustitia il sol, che rasserena
il secol pien d’errori oscuri et folti;
tre dolci et cari nomi ài in te raccolti,
madre, figliuola et sposa:
Vergine gloriosa,
donna del Re che nostri lacci à sciolti
et fatto ‘l mondo libero et felice,
ne le cui sante piaghe
prego ch’appaghe il cor, vera beatrice.

Vergine sola al mondo senza exempio,
che ‘l ciel di tue bellezze innamorasti,
cui né prima fu simil né seconda,
santi penseri, atti pietosi et casti
al vero Dio sacrato et vivo tempio
fecero in tua verginità feconda.
Per te pò la mia vita esser ioconda,
s’a’ tuoi preghi, o Maria,
Vergine dolce et pia,
ove ‘l fallo abondò, la gratia abonda.
Con le ginocchia de la mente inchine,
prego che sia mia scorta,
et la mia torta via drizzi a buon fine.

Vergine chiara et stabile in eterno,
di questo tempestoso mare stella,
d’ogni fedel nocchier fidata guida,
pon’ mente in che terribile procella
i’ mi ritrovo sol, senza governo,
et ò già da vicin l’ultime strida.
Ma pur in te l’anima mia si fida,
peccatrice, i’ nol nego,
Vergine; ma ti prego
che ‘l tuo nemico del mio mal non rida:
ricorditi che fece il peccar nostro
prender Dio, per scamparne,
humana carne al tuo virginal chiostro.

Vergine, quante lagrime ò già sparte,
quante lusinghe et quanti preghi indarno,
pur per mia pena et per mio grave danno!
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa et or quell’altra parte,
non è stata mia vita altro ch’affanno.
Mortal bellezza, atti et parole m’àanno
tutta ingombrata l’alma.
Vergine sacra et alma,
non tardar, ch’i’ son forse a l’ultimo anno.
I dì miei più correnti che saetta
fra miserie et peccati
sonsen’ andati, et sol Morte n’aspetta.

Vergine, tale è terra, et posto à in doglia
lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne
et de mille miei mali un non sapea:
et per saperlo, pur quel che n’avenne
fora avenuto, ch’ogni altra sua voglia
era a me morte, et a lei fama rea.
Or tu donna del ciel, tu nostra dea
(se dir lice, et convensi),
Vergine d’alti sensi,
tu vedi il tutto: et quel che non potea
far altri, è nulla a la tua gran vertute,
por fine al mio dolore;
ch’a te honore, et a me fia salute.

Vergine, in cui ò tutta mia speranza
che possi et vogli al gran bisogno aitarme,
non mi lasciare in su l’extremo passo.
Non guardar me, ma Chi degnò crearme;
no ‘l mio valor, ma l’alta Sua sembianza,
ch’è in me, ti mova a curar d’uom sì basso.
Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso
d’umor vano stillante:
Vergine, tu di sante
lagrime et pie adempi ‘l meo cor lasso,
ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,
senza terrestro limo,
come fu ‘l primo non d’insania vòto.

Vergine humana, et nemica d’orgoglio,
del comune principio amor t’induca:
miserere d’un cor contrito humile.
Che se poca mortal terra caduca
amar con sì mirabil fede soglio,
che devrò far di te,
cosa gentile?
Se dal mio stato assai misero et vile
per le tue man’ resurgo,
Vergine, i’ sacro et purgo
al tuo nome et penseri e’ngegno et stile,
la lingua e ‘l cor, le lagrime e i sospiri.
Scorgimi al miglior guado,
et prendi in grado i cangiati desiri.

Il dì s’appressa, et non pote esser lunge,
sì corre il tempo et vola,
Vergine unica et sola,
e ‘l cor or conscientia or morte punge.
Raccomandami al tuo figliuol, verace
homo et verace Dio,
ch’accolga ‘l mio spirto ultimo in pace (CCCLXVI).

Alcune brevi e, probabilmente, inutili considerazioni: Petrarca definisce la Vergine «vera beatrice» (v. 52), e potrebbe trattarsi di un sottile riferimento polemico a Dante; per Petrarca nessuna donna, oltre alla Vergine, che «tre dolci et cari nomi» ha in sé raccolti, «madre, figliuola et sposa», può donare beatitudine, tant’è vero che nel componimento conclusivo della raccolta, Petrarca fissa la sua amata nell’immagine negativa della Medusa (v. 111), che lo ha reso «un sasso / d’umor vano stillante». Il Canzoniere è la storia di un amore e, più in generale, di un’esistenza tormentata, sferzata di continuo da «ansietà» e «sconforto». In tal senso, Petrarca non poteva scegliere parola migliore per suggellare il libro: «pace», la meta ultima, e impossibile, d’ogni umana esistenza. Di questa lacerante e dolorosissima impossibilità Petrarca si impone come uno dei cantori più grandi di sempre. Sulla grandezza di Petrarca Foscolo ha speso parole ineguagliabili: «Ma quando un grande poeta traduce il proprio cuore nella pittura ch’ei fa dell’amore, caverà lagrime dagli occhi d’ognuno in ogni tempo. Sebbene il Petrarca sollevi questa passione all’altezza della propria mente, e l’adorni secondo le metafisiche speculazioni e i costumi del suo tempo, tuttavia ci pone dinanzi agli occhi molte sembianze e memorie de’ nostri propri sentimenti. […] Nella poesia del Petrarca ci occorre ogni menoma circostanza della nostra passione: pene, piaceri, speranze, timori sperimentati; e a volte con solo un verso egli ci fa retrocedere a rivivere di nuovo colla persona che un tempo ne fu più cara, e che forse da gran pezza ci è scomparsa dagli occhi, per non dir anche dalla memoria. L’altezza dello stile e l’ornamento delle immagini, lungi dal farne ritrosi, a lui anzi ne trae, perché pare ch’egli adoperi ogni accorgimento dell’arte a farci spettatori e compagni della felicità, o della miseria sua […]» [11].

La poesia di Francesco Petrarca è di una modernità a tratti sconcertante. Essa cava «lagrime dagli occhi d’ognuno in ogni tempo»; la secolare distanza che ci separa non si avverte, mai. Ogni lettore ritrova nel Canzoniere se stesso, la propria miseria e la propria inesausta aspirazione alla pace. Con la capacità propria del poeta universale, Petrarca realizza nel Canzoniere il ritratto non solo di se stesso, ma di ogni uomo che visse, vive e vivrà.

NOTE

[1] Ugo Foscolo, Sopra la poesia del Petrarca, traduzione di Camillo Ugoni, in Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano 2017, p. 28.

[2] I versi sono tratti da Francesco Petrarca, Canzoniere, op. cit.

[3] Per un approfondimento sul dialogo rimando all’articolo Francesco Petrarca, Secretum: in guerra contro se stessi.

[4] Per un approfondimento sull’opera dantesca rimando agli articoli Vita nuova: dal Vangelo secondo Dante, gloria a te o Beatrice. Prima parte, Vita nuova: dal Vangelo secondo Dante, gloria a te o Beatrice. Seconda parte.

[5] Ugo Foscolo, Sopra la poesia del Petrarca, op. cit., p. 43.

[6] Per un approfondimento rimando agli articoli Francesco Petrarca, il «doppio uomo». Prima parte, Francesco Petrarca, il «doppio uomo». Seconda parte.

[7] Per un approfondimento sulla figura e sulla poetica del frate rimando agli articoli Iacopone da Todi – Il frate ribelle, Iacopone da Todi – La poetica.

[8] Ugo Foscolo, Sopra la poesia del Petrarca, op. cit., p. 43.

[9] Il tema della paura come freno al suicidio, la sola soluzione ai problemi dell’uomo, trova la sua più celebre realizzazione letteraria nel monologo di Amleto. Per un approfondimento rimando all’articolo La professione di nullismo di Amleto.

[10] Ugo Foscolo, Sopra la poesia del Petrarca, op. cit., p. 44.

[11] Ivi, p. 42.

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