Tra gli aspetti più interessanti che caratterizzano l’attività letteraria di Giovanni Boccaccio, vi è senza dubbio l’interesse per la donna. Interesse che culmina nel Decameron, dedicato proprio alle donne, e dove l’autore dichiara, nella polemica Introduzione alla IV giornata, «io ne’ vostri servigi milito», frase che forse meglio di ogni altra compendia l’attenzione riservata da Boccaccio al prima di allora trascurato universo femminile. Ma prima di analizzare il capolavoro boccacciano, vorrei soffermarmi su un’opera “minore” dell’autore toscano, l’Elegia di Madonna Fiammetta, risalente al biennio 1343-1344, dunque annoverabile tra i lavori del periodo fiorentino di Boccaccio, successivo all’entusiastico e giovanile periodo napoletano. Come indica il titolo, protagonista dell’Elegia è una donna, per la precisione una dama napoletana abbandonata dall’amante, il fiorentino Panfilo, tornato nella sua città. Fiammetta, nell’attesa vana di un suo ritorno, ricorda i bei momenti passati in compagnia di Panfilo, consumata dall’impossibilità di poter dare ancora sfogo alla sua passione. Ad acuire inoltre la condizione di per sé già tormentosa della protagonista, contribuisce il fatto che ella è sposata, dunque obbligata a celare ciò che la rode nel profondo e la reale causa del suo infelice stato. Il culmine della disperazione di Fiammetta si raggiunge quando l’ignaro marito, sperando di confortarla, la conduce in quei luoghi della costa napoletana a cui il ricordo della passata felicità è maggiormente legato.
Modellata sull’illustre esempio delle ovidiane Heroides, l’opera si presenta sotto forma di una confessione della protagonista, che si contraddistingue per una modernissima profondità psicologica, rara, se non addirittura del tutto inedita nella letteratura italiana del tempo. Con l’Elegia di Madonna Fiammetta finalmente la donna, solitamente subordinata all’uomo, oggetto e mai soggetto, viene posta al centro del lavoro letterario, imponendosi come assoluta protagonista dell’opera, che ella stessa crea, trovando nella scrittura un minimo di conforto e fornendo indicazioni preziose al proprio sesso. Questo semplice dato basta a evidenziare l’importanza dell’Elegia boccacciana nella storia della nostra letteratura. La donna non è più relegata a una dimensione ideale e astratta, come la Beatrice di Dante [1] o, parzialmente, la Laura di Petrarca, assorbite dall’io dell’autore, ma si impone come una creatura fatta di carne e sangue, dotata di un corpo e di un’anima che pulsano e soffrono sotto il giogo amoroso. L’amore stesso, lungi dall’essere idealizzato – ma già Petrarca nel Canzoniere si allontana da questa prospettiva propria dello Stilnovo [2] -, si presenta come prepotente forza sensuale ed erotica.
Dell’Elegia di Madonna Fiammetta propongo un passo tratto dal V capitolo, esemplificativo di quella dissimulazione amorosa che attraversa l’intera opera, imponendosi forse come il tema principale.
A cosí fatta vita e a piggiore m’ha la fortuna lasciata consolazione cosí piccola, come udite; né intendiate consolazione che me di dolore privi, sí come l’altre suole: essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal lagrimare senza piú prestarmi de’ suoi beni. Seguitando adunque le mie fatiche, dico che, con ciò sia cosa che io per addietro tra l’altre giovini della mia città di bellezze ornatissima, quasi niuna festa solea, che alli divini templi si facesse, lasciare, né alcuna bella senza me ne reputavano li cittadini; le quali feste vegnendo, a quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l’antico ordine osservando, apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta mi dicono:
“O donna, adórnati; venuta è la solennità di cotale tempio, la quale te sola aspetta per compimento.
Ohimè! che egli mi torna a mente che io alcuna volta a loro furiosa rivolta, non altramente che l’addentato cinghiaro alla turba de cani, a loro rispondeva turbata, e con voce d’ogni dolcezza vòta, già dissi:
“Via, vilissima parte della nostra casa, fate lontani da me questi ornamenti: brieve roba basta a coprire gli sconsolati membri, né piú alcuno tempio né festa per voi a me si ricordi, se la mia grazia v’è cara.
Oh, quante volte già, come io udii, furono quelli da molti nobili visitati, li quali piú per vedermi, che per divozione alcuna venuti, non veggendomi, turbati si tornavano indietro, nulla dicendo senza me valere quella festa! Ma come che io cosí le rifiuti, pure alcuna volta, in compagnia delle mie nobili compagne, me le conviene costretta vedere, con le quali io semplicemente e di feriali vestimenti vestita vi vado, e quivi non i solenni luoghi, come già feci, cerco, ma, rifiutando li già voluti onori, umile, ne piú bassi luoghi tra le donne m’assetto; e quivi diverse cose, ora dall’una ora dall’altra ascoltando con doglia nascosa quanto io piú posso, passo quello tempo che io vi dimoro. Ohimè! quante volte già m’ho io udito dire assai d’appresso:
“Oh, quale maraviglia è questa! Questa donna, singulare ornamento della nostra città, cosí rimessa e umile è divenuta? Qual divino spirito l’ha spirata? Ove le nobili robe? Ove gli altieri portamenti? Ove le mirabili bellezze si sono fuggite?
Alle quali parole, se licito mi fosse stato, avrei volontieri risposto: “Tutte queste cose, con molte altre piú care, se ne portò Panfilo dipartendosi”.
Quivi ancora dalle donne intorniata, e da diverse domande trafitta, a tutte con infinto viso mi conviene satisfare. L’una con cotali voci mi stimola:
“O Fiammetta, senza fine di te me e l’altre donne fai maravigliare, ignorando quale sia stata sí súbita la cagione che le preziose robe hai lasciate e li cari ornamenti, e l’altre cose dicevoli alla tua giovine etade; tu, ancora fanciulla, in sí fatto abito andare non dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo ora, per innanzi ripigliar nol potrai? Usa gli anni secondo la loro qualità. Questo abito di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi. Vedi qui qualunque di noi, piú di te attempate, ornate con maestra mano, e d’artificiali drappi e onorevoli vestite, e cosí tu similemente dovresti essere ornata.
A costei e a piú altre aspettanti le mie parole rendo io con umile voce cotale risposta:
“Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a questi templi. Se per piacere a Dio ci si viene, l’anima ornata di virtú basta, né forza fa, se il corpo di cilicio fosse vestito; se per piacere agli uomini ci si viene, con ciò sia cosa che la maggior parte, da falso parere adombrati per le cose esteriori giudichino quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e da me per addietro, si richieggiono. Ma io di ciò non ho cura, anzi, dolente delle passate vanità, volonterosa d’ammendare nel cospetto d’Iddio, mi rendo quanto posso dispetta agli occhi vostri.
E quinci le lagrime dall’intrinseca verità cacciate per forza fuori mi bagnano il mesto viso, e con tacita voce cosí con meco medesima dico:
“O Iddio, veditore de’ nostri cuori, le non vere parole dette da me non m’imputare in peccato. Come tu vedi, non volontà d’ingannare, ma necessità di ricoprire le mie angoscie a quelle mi strigne, anzi piuttosto merito me ne rendi, considerando che’l malvagio essemplo levando, alle tue creature il do buono: egli m’è grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma piú non posso”.
Oh quante volte, o donne, ho io per questa iniquità pietose laude ricevute, dicendo le circustanti donne me divotissima giovine di vanissima ritornata! Certo, io intesi piú volte di molte essere oppinione, me di tanta amicizia essere congiunta con Dominedio, che niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe; e piú volte ancora dalle sante persone per santa fui visitata, non conoscendo esse quel che nell’animo nascondea il tristo viso, e quanto li miei disiderii.fossero lontani alle mie parole. O ingannevole mondo, quanto possono in te gl’infinti visi piú che li giusti animi, se l’opere sono occulte! Io, piú peccatrice che altra, dolente per li miei disonesti amori, però che quelli velo sotto oneste parole, sono reputata santa; ma conoscelo Iddio, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera voce di me sgannerei ogni ingannata persona, né celerei la cagione che trista mi tiene; ma non si puote.
Fiammetta si consuma nell’impossibilità di poter dare libero sfogo al dolore che la tormenta per l’abbandono di Panfilo; ella agli occhi del mondo dissimula, viene giudicata per quella che non è, una santa. Ma è particolarmente interessante il modo in cui la protagonista, partendo dalla propria esperienza particolare, giunga a verità di fatto universali, come quando smaschera la falsità del mondo: «O ingannevole mondo, quanto possono in te gl’infinti [sta per falsi] visi piú che li giusti animi, se l’opere sono occulte!».
Ciò che avviene, nella percezione esteriore del dolore interiore di Fiammetta, è un vero e proprio rovesciamento, quel rovesciamento che Boccaccio porrà alla base di molte novelle del Decameron, e soprattutto quelle in cui spicca di più la componente comica (penso a ser Ciappelletto e frate Cipolla), qui invece del tutto assente. La vicenda di Fiammetta è un dramma, e la triste ironia esercitata dal mondo non fa che dimostrare quanto esso sia falso, «ingannevole», una mascherata in cui distinguere la verità è un’impresa ardua se non addirittura impossibile.
NOTE
[1] Per un approfondimento rimando agli articoli Vita nuova: dal Vangelo secondo Dante, gloria a te o Beatrice. Prima parte, Vita nuova: dal Vangelo secondo Dante, gloria a te o Beatrice. Seconda parte.
[2] Per un approfondimento rimando all’articolo Il Canzoniere di Francesco Petrarca: storia di un amore umano.