Particolare del monumento in bronzo a Giordano Bruno realizzato dallo scultore Ettore Ferrari, situato a Campo de' Fiori a Roma, dove il filosofo fu arso vivo.

Bruno commediografo e poeta

Giordano Bruno non fu solamente un grande filosofo, ma anche un brillante commediografo ed un altrettanto brillante poeta. Quest’oggi concludiamo il discorso relativo al pensatore nolano proponendo alcuni passi tratti dalla sua celebre commedia Il candelaio, scritta probabilmente nel 1576 e pubblicata a Parigi nel 1582, e alcuni dei suoi versi più toccanti.

Partiamo dall’opera teatrale, che presenta il seguente, polemico sottotitolo: «Comedia del Bruno Nolano, / Academico di nulla Academia, / detto il Fastidito / In tristitia hilaris, in hilaritate tristis» (traducendo: «allegro nella tristezza, triste nell’allegria»). Seguono l’elenco dei personaggi e il sonetto proemiale, intitolato Il libro, dedicato «A gli abbeverati nel Fonte Caballino», ovvero i poeti, e declamato proprio dalla Comedia, con l’augurio di poter circolare liberamente, senza subire gli assalti dei pedanti, bersaglio privilegiato della riflessione filosofico-letteraria di Bruno:

A gli abbeverati nel Fonte Caballino.
Voi che tettate di muse da mamma,
E che natate su lor grassa broda
Col musso, l’eccellenza vostra m’oda,
Si fed’e caritad’il cuor v’infiamma.
Piango, chiedo, mendico un epigramma,
Un sonetto, un encomio, un inno, un’oda
Che mi sii posta in poppa over in proda,
Per farmene gir lieto a tata e mamma
Eimè ch’in van d’andar vestito bramo
Oimè ch’i’ men vo nudo com’un Bia,
E peggio: converrà forse a me gramo
Monstrar scuoperto alla Signora mia
Il zero e menchia, com’il padre Adamo,
Quand’era buono dentro sua badia.
Una pezzenteria
Di braghe mentre chiedo, da le valli
Veggio montar gran furia di cavalli.

Dopo il sonetto la dedica, «Alla signora Morgana B., sua signora sempre onoranda», e la presentazione dell’intreccio, particolarmente intricato, enorme, caratterizzato da un susseguirsi di spassose beffe, che Bruno espone nel dettaglio al lettore/spettatore sotto il titolo di Argumento et ordine della comedia. Sintetizzando: il candelaio Bonifacio, «insipido amante», unito in matrimonio a Carubina, si è invaghito della cortigiana Vittoria, e per conquistarla organizza un incontro nel quale si spaccia per il pittore Gioan Bernardo, amante di Vittoria, ma trova la moglie Carubina travestita; l’alchimista Bartolomeo, «sordido avaro», tenta ostinatamente di trasformare i metalli in oro, ma è beffato da un alchimista fasullo; il grammatico Manfurio, «goffo pedante», si esprime utilizzando un linguaggio astruso, incomprensibile e viene raggirato dal giovane Ottaviano. Tutti e tre i personaggi maschili finiranno nelle grinfie di sbirri fittizi che completeranno così la beffa.

Alla trama seguono l’Antiprologo e il Proprologo, che riportiamo integralmente.

ANTIPROLOGO

Messer sì, ben considerato, bene appuntato, bene ordinato. Forse che non ho profetato che questa comedia non si sarrebbe fatta questa sera? Quella bagassa che è ordinata per rapresentar Vittoria e Carubina, ave non so che mal di madre. Colui che ha da rapresentar il Bonifacio, è imbriaco che non vede ciel né terra da mezzodì in qua; e, come non avesse da far nulla, non si vuol alzar di letto; dice: “Lasciatemi, lasciatemi, ché in tre giorni e mezzo e sette sere, con quattro o dui rimieri, sarrò tra parpaglioni e pipistregli: sia, voga; voga, sia”. A me è stato commesso il prologo; e vi giuro ch’è tanto intricato ed indiavolato, che son quattro giorni che vi ho sudato sopra, e dì e notte, che non bastan tutti trombetti e tamburini delle Muse puttane d’Elicona a ficcarmene una pagliusca dentro la memoria. Or, va’ fa il prologo: sii battello di questo barconaccio dismesso, scasciato, rotto, mal’impeciato, che par che, co’ crocchi, rampini ed arpagoni, sii stato per forza tirato dal profondo abisso; da molti canti gli entra l’acqua dentro, non è punto spalmato, e vuol uscire e vuol fars’in alto mare? lasciar questo sicuro porto del Mantracchio? far partita dal Molo del silenzio? L’autore, si voi lo conosceste, dirreste ch’ave una fisionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il più, lo vedrete fastidito, restio e bizzarro, non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d’ottant’anni, fantastico com’un cane ch’ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla. Al sangue, non voglio dir de chi, lui e tuti quest’altri filosofi, poeti e pedanti la più gran nemica che abbino è la ricchezza e beni: de quali mentre col lor cervello fanno notomia, per tema di non essere da costoro da dovero sbranate, squartate e dissipate, le fuggono come centomila diavoli, e vanno a ritrovar quelli che le mantengono sane ed in conserva. Tanto che io, con servir simil canaglia, ho tanta de la fame, tanta de la fame, che si me bisognasse vomire, non potrei vomir altro ch’il spirto; si me fusse forza di cacare, non potrei cacar altro che l’anima, com’un appiccato. In conclusione, io voglio andar a farmi frate; e chi vuol far il prologo, sel faccia.

PROPROLOGO

Dove è ito quel furfante, schena da bastonate, che deve far il prologo? Signori, la comedia sarà senza prologo; e non importa, perché non è necessario che vi sii: la materia, il suggetto, il modo ed ordine e circonstanze di quella, vi dico che vi si farran presenti per ordine, e vi sarran poste avanti a gli occhi per ordine: il che è molto meglio che si per ordine vi fussero narrati. Questa è una specie di tela, ch’ha l’ordimento e tessitura insieme: chi la può capir, la capisca; chi la vuol intendere, l’intenda. Ma non lascierò per questo di avertirvi che dovete pensare di essere nella regalissima città di Napoli, vicino al seggio di Nilo. Questa casa che vedete cqua formata, per questa notte servirrà per certi barri, furbi e marioli, — guardatevi, pur voi, che non vi faccian vedovi di qualche cosa che portate adosso: — cqua costoro stenderranno le sue rete, e zara a chi tocca. Da questa parte, si va alla stanza del Candelaio, id est m[esser] Bonifacio, e Carubina moglie, ed [a] quella di m[esser] Bartolomeo; da quest’altra, si va a quella della s[ignora] Vittoria, e di Gio. Bernardo pittore e Scaramuré che fa del necromanto; per questi contorni, non so per qual’occasioni, molto spesso si va rimenando un sollennissimo pedante, detto Manfurio. Io mi assicuro che le vedrete tutti: e la ruffiana Lucia per le molte facende bisogna che non poche volte vada e vegna; vedrete Pollula col suo Magister per il più, — quest’è un scolare da inchiostro nero e bianco; — vedrete il paggio di Bonifacio, Ascanio, — un servitore da sole e da candela. Mochione, garzone di Bartolomeo, non è caldo né freddo, non odora né puzza; in Sanguino, Batta, Marca e Corcovizzo contemplarrete, in parte, la destrezza della mariolesca discipli na; conoscerrete la forma dell’alchimici barrarie in Cencio; e per un passatempo vi si farrà presente Consalvo speciale, Marta, moglie di Bartolomeo, ed il facetissimo signor Ottaviano. Considerate chi va chi viene, che si fa che si dice, come s’intende come si può intendere: ché certo, contemplando quest’azioni e discorsi umani col senso d’Eraclito o di Democrito, arrete occasion di molto o ridere o piangere.
Eccovi avanti gli occhii ociosi principii, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presupposti, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d’intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive e gloriosi frutti di pazzia.
Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadacchiamenti, tremori, sogni, rizzamenti, e un cuor rostito nel fuoco d’amore; pensamenti, astrazioni, colere, maninconie, invidie, querele, e men sperar quel che più si desia. Qui trovarrete a l’animo ceppi, legami, catene, cattività, priggioni, eterne ancor pene, martiri e morte; alla ristretta del core, strali, dardi, saette, fuochi, fiamme, ardori, gelosie, suspetti, dispetti, ritrosie, rabbie ed oblii, piaghe, ferite, omei, folli, tenaglie, incudini e martelli; l’archiero faretrato, cieco e ignudo; l’oggetto poi del core, un cuor mio, mio bene, mia vita, mia dolce piaga e morte, dio, nume, poggio, riposo, speranza, fontana, spirto, tramontana stella, ed un bel sol ch’a l’alma mai tramonta; ed a l’incontro ancora, crudo cuore, salda colonna, dura pietra, petto di diamante, e cruda man ch’ha chiavi del mio cuore, e mia nemica, e mia dolce guerriera, versaglio sol di tutti miei pensieri, e bei son gli amor miei non quei d’altrui. Vedrete in una di queste femine sguardi celesti, suspiri infocati, acquosi pensamenti, terrestri desiri e aerei fottimenti: — co riverenza de le caste orecchie — è una che sel prende con pezza bianca e netta di bucata. La vedrete assalita da un amante armato di voglia che scalda, desir che cuoce, carità ch’accende, amor ch’infiamma, brama ch’avvampa, e avidità ch’al cielo mica e sfavilla. Vedrete ancora, — a fin che non temiate diluvio universale, — l’arco d’amore, il quale è simile a l’arco del sole, che non è visto da chi vi sta sotto, ma da chi n’è di fuori: perché de gli amanti l’uno vede la pazzia dell’altro e nisciun vede la sua. Vedrete un’altra di queste femine, priora delle repentite per l’ommissione di peccati che non fece a tempo ch’era verde, adesso dolente come l’asino che porta il vino; ma che? un’angela, un’ambasciadora, secretaria, consigliera, referendaria, novellera, venditrice, tessitrice, fattrice negociante e guida: mercantessa di cuori e ragattiera che le compra e vende a peso, misura e conto, quella ch’intrica e strica, fa lieto e gramo, inpiaga e sana, sconforta e riconforta, quando ti porta o buona nova o ria, quando porta de polli magri o grassi: advocata, intercessora, mantello, rimedio, speranza, mediatrice, via e porta, quella che volta l’arco di Cupido, conduttrice del stral del dio d’amore, nodo che lega, vischio ch’attacca, chiodo ch’accoppia, orizonte che gionge gli emisferi. Il che tutto viene a effettuare mediantibus finte bazzane, grosse panzanate suspiri a posta, lacrime a comandamento, pianti a piggione, singulti che si muoiono di freddo, berte masculine, baie illuminate, lusinghe affamate, scuse volpine, accuse lupine, e giuramenti che muion di fame, lodar presenti, biasmar assenti, servir tutti, amar nisciuno: t’aguza l’apetito e poi digiuni.
Vedrete ancor la prosopopeia e maestà d’un omo masculini generis: un che vi porta certi suavioli da far sdegnar un stomaco di porco o di gallina, un instaurator di quel Lazio antiquo, un emulator demostenico, un che ti suscita Tullio dal più profondo e tenebroso centro, concinitor di gesti de gli eroi. Eccovi presente un’acutezza da far lacrimar gli occhi, gricciar i capelli, stuppefar i denti, petar, rizzar, tussir e starnutare; eccovi un di compositor di libri bene meriti di republica, postillatori, glosatori, construttori, metodici, additori, scoliatori, traduttori, interpreti, compendiarii, dialetticarii novelli, apparitori con una grammatica nova, un dizionario novo, un lexicon, una varia lectio, un approvator d’autori, un approvato autentico, con epigrammi greci, ebrei, latini, italiani, spagnoli, francesi, posti in fronte libri. Onde l’uno e l’altro, e l’altro e l’uno vengono consecrati all’immortalità, come benefattori del presente seculo e futuri, obligati per questo a dedicarli statue e colossi ne’ mediterranei mari e nell’oceano ed altri luochi inabitabili de la terra. La lux perpetua vien a fargli di sberrettate, e con profonda riverenza se gl’inchina il saecula saeculorum; ubligata la fama di farne sentir le voci a l’uno e l’altro polo, e d’assordir co i cridi, strepiti e schiassi il Borea e l’Austro, ed il mar Indo e Mauro. Quanto campeggia bene, — mi par veder tante perle e margarite in campo d’oro, — un discorso latino in mezzo l’italiano, un discorso greco [in] mezzo del latino; e non lasciar passar un foglio di carta dove non appaia al meno una dizionetta, un versetto, un concetto d’un peregrino carattere ed idioma. Oimè che mi danno la vita, quando, o a forza o a buona voglia, e parlando e scrivendo, fanno venir a proposito un versetto d’Omero, d’Esiodo, un stracciolin di Plato o Demosthenes greco. Quanto ben dimostrano che essi son quelli soli a’ quai Saturno ha pisciato il giudizio in testa, le nove dami gelle di Pallade un cornucopia di vocaboli gli han scarcato tra la pia e dura matre: e però è ben conveniente che sen vadino con quella sua prosopopeia, con quell’incesso gravigrado, busto ritto, testa salda ed occhii in atto di una modesta altiera circumspezione. Voi vedrete un di questi che mastica dottrina, olface opinioni, sputa sentenze, minge autoritadi, eructa arcani, exuda chiari e lunatici inchiostri, semina ambrosia e nectar di giudicii, da farne la credenza a Ganimede e poi un brindes al fulgorante Giove. Vedrete un pubercola sinonimico, epitetico, appositorio, suppositorio, bidello di Minerva, amostante di Pallade, tromba di Mercurio, patriarca di Muse e dolfino del regno apollinesco, — poco mancò ch’io non dicesse polledresco. Vedrete ancor in confuso tratti di marioli, stratagemme di barri, imprese di furfanti; oltre, dolci disgusti, piaceri amari, determinazion folle, fede fallite, zoppe speranze e caritadi scarse; giudicii grandi e gravi in fatti altrui, poco sentimento ne’ proprii; femine virile, effeminati maschii: tante voci di testa e non di petto; chi più di tutti crede, più s’inganna; e di scudi l’amor universale. Quindi procedeno febbre quartane, cancheri spirituali, pensieri manchi di peso, sciocchezze traboccanti, intoppi baccellieri, granchiate maestre e sdrucciolate da fiaccars’il collo; oltre, il voler che spinge, il saper ch’appressa, il far che frutta, e diligenza madre de gli effetti. In conclusione, vedrete in tutto non esser cosa di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono. — Mi par udir i personaggi; a dio.

Affinché possiate godere dell’abilità drammaturgica di Bruno, riportiamo a titolo di esempio due scene della commedia tratte dall’atto terzo, la numero dodici e la numero tredici.

SCENA XII

MANFURIO Olà, olà, cqua cqua, aggiuto, agiuto! Tenetelo, tenetelo! Al involatore, al surreptore, al fure, amputator di marsupii ed incisor di crumene! Tenetelo, ché ne porta via gli miei aurei solari con gli argentei!
BARRA Che cosa, che cosa v’ha egli fatto?
MANFURIO Perché lo avete lasciato andare?
BARRA Diceva il poverello: “Mi vuol battere il mio padrone, a me, povero innocente!” Però, abbiam lasciato, acciò che vi facciate passar la colera prima, perché poi lo potrete castigar a bell’agio, in casa.
MARCA Signor sì, bisogna perdonar qualche volta a’ servitori e non usar sempre de rigore.
MANFURIO Oh, che non è punto mio servo né familiare, ma un ladro che mi ha rubbati diece scudi di mano!
BARRA Può far l’Intemerata! E voi perché non cridavate: Il mariolo, al mariolo? ché non so che diavolo de linguaggio avete usato.
MANFURIO Questo vocabulo che voi dite, non è latino né etrusco; e però non lo proferiscono di miei pari.
BARRA Perché non cridavate: Al ladro?
MANFURIO “Latro’ è sassinator di strada, in qua, vel ad quam latet. “Fur’ qui furtim et subdole, come costui mi ha fatto: qui et subreptor dicitur a subtus rapiendo, vel quasi rependo, perché, sotto specimine di uomo da bene, mi ha decepto. O i miei scudi.
BARRA Or, vedete che avanzate co le vostre lettere, a non voler parlar per volgare. Ma, col vostro latrino e trusco, credevamo che parlassivo con esso lui più che con noi.
MANFURIO O fure, degna pastura d’avoltori!
MARCA Dite, perché non correvate appresso lui?
MANFURIO Volete voi ch’un grave moderator di ludo literario, e togato, avesse per publica platea accelerato il gresso? a miei pari convien quel adagio, si proprie adagium licet dicere: — “Festina lente”; item et illud: “Gradatim, paulatim, pedetentim”.
BARRA Avete raggione, signor Dottore, d’aver sempre risguardo al vostro onore, ed alla maestà del vostro andare.
MANFURIO O fure le cui ossa vorrei vedere sovra una ruota attrite! Oimè, forse che non me gli ha tutti involati? Or che dirà il mio Mecena? Io gli risponderò, con l’autorità del prencipe di Peripatetici, Aristotele, secundo Physicorum, vel Periacroaseos: “Casus est eorum quae eveniunt in minori parte, et praeter intentionem”.
BARRA Io credo che si contenterà.
MANFURIO O ingiusti moderatori di giustizia, si voi facessivo il vostro debito, non sarebbe tanta copia di malfattori! Forse che non l’ha tutti presi? Oh, sceleratissimo!

SCENA XIII

SANGUINO Olà, uomini da bene, perché è fuggito colui? che ha egli fatto, quel ribaldo?
BARRA Siate ben venuto, Messer mio. Noi siamo ne la maggior angoscia del mondo: abbiamo avuto quel ladro, — o non so come vuol che si chiama il signor Magister, — intra le mani; e, perché non sappiamo di lettera, è scappato al diavolo.
SANGUINO Non so che raggioni son queste vostre. Io ve dimando: Perché è fuggito?
MANFURIO Mi ha involati diece scudi.
SANGUINO Come diavolo han volato diece scudi?
MARCA Ben si vede che mai andaste a scola.
SANGUINO Subito ch’io ebbi imparata la B. A. BA, mio padre me die’ per ragazzo al capitan Mancino.
MANFURIOVeniamus ad rem: mi ha egli rubbati diece scudi.
SANGUINO Rubbato? rubbato? a voi, Domine? a voi, domine Magister? basovi le mani, non mi conoscete?
MANFURIOIo vi ho [visto] alcune ore fa, quando eravate con il mio discepolo Pollula.
SANGUINO Io son quello, signor domino Magister. Sappiate ch’io vi son servitor, ed ho gran voglia di farvi piacere; e per ora sappiate che vostri scudi son recuperati.
MANFURIO Dii velint, faxint ista Superi, o utinam!
BARRA Oh, si farete tanto bene a questo gentil omo, mai facestivo meglior e più degna opra; ed egli non vi sarà ingrato ed io, da parte mia, vi donarò un scudo.
SANGUINO Son ricuperati, dico.
MANFURIO L’avete voi?
SANGUINO Non, ma cossì come l’avesse nelle mani il signor Magister.
BARRA Conoscete voi colui?
SANGUINO Conosco.
BARRA Sapete dove dimora?
SANGUINO So.
MANFURIO O Superi, o Coelicoli, Diique, Deaeque omnes!
MARCA Noi siamo a cavallo.
BARRA Bisogna soccorrere al negocio di questo monsignore, per amor ed obligo ch’abbiamo alle lettere ed a’ letterari.
MANFURIO Me vobis commendo: mi raccomando alle vostre cortisie.
MARCA Non dubitate, Signore.
SANGUINO Andiamo tutti insieme, perché lo trovaremo. Io so certissimo il loco dove va ad annidarsi costui: di averlo in mano non è dubbio alcuno. Non potrà negar il furto, perché, benché lui non mi abbia visto, io ho veduto lui fuggire.
MARCA E noi l’abbiamo veduto fuggire dalle mani del signor Maestro.
MANFURIO Vos fidelissimi testes.
SANGUINO Non bisogna rompersi la testa: o ne darà gli scudi o lo daremo in mano della giustizia.
MANFURIO Ita, ita, nil melius, voi dite benissimo.
SANGUINO Signor Magister, bisogna che voi siate presente.
MANFURIO Optime. Urget praesentia Turni.
SANGUINO Però, andando noi tutti quattro insieme, al batter che faremo de la porta, potrà essere che quella puttana, con la quale egli dimora, consapevole del negocio, o perché lui per qualche rima ne vegga, non venghino a concederne l’entrata, o che quell’uomo fugga o si asconda ad altra parte; ma, non essendo voi conosciuto, son certo che lo tirarò a raggionar meco per ogni modo, sotto certe specie di cose che passano. Però sarà bene, anzi necessario, che cangiate vestimenta, mostrandovi di robba corta. Voi altro, messer, quale è vostro nome, si ve piace dirlo?
BARRA Coppino, al servizio vostro.
SANGUINO Voi, messer Coppino, farete questo piacere a me ed al signor Magister, il quale vi potrà far di favori assai.
MANFURIO Me tibi offero.
SANGUINO Imprestategli lo vostro mantello, e voi vicoprirete di sua toga, ché, per esser voi più corto di persona, parrete un altro. E per meglio compartire, date, signor Magister, il cappello a questo altro compagno, e voi prendete la sua baretta; ed andiamo.
MANFURIO Nisi urgente necessitate, nefas esset habitum proprium dimittere; tamen, nihilominus, nulla di meno, quia ita videtur, ad imitazion di Patroclo che co le vesti cangiate si finse Achille, e di Corebo che apparve in abito di Androgeo, e del gran Giove, — poetarum testimonio — per suoi dissegni in tante forme cangiato, deponendo talvolta la più sublime forma, non mi dedignarrò, e deporrò la mia toga literaria, optimo mihi proposito fine, di animadvertere contra questo criminoso abominando.
BARRA Ma ricordatevi, signor Mastro, di riconoscere la cortesia di questi galant’omini, ché per me non ve dimando nulla.
MANFURIO A voi in communi destino la terza parte de gli ricovrati scudi.
SANGUINO Gran mercé alla vostra liberalità.
BARRA Or su, andiamo, andiamo.
MANFURIO Eamus dextro Hercule.
SANGUINO e MARCA Andiamo.

Bruno si scaglia con comica veemenza contro alcuni degli aspetti peculiari della cultura letteraria e filosofica del Cinquecento: attraverso la passione di Bonifacio mostra tutta l’inconsistenza, la fatuità dell’esperienza lirica nota come petrarchismo, basata sulla sistematica, stucchevole imitazione, nei temi e nel linguaggio, dell’illustre modello; attraverso la squallida figura dell’alchimista fallito, Bartolomeo, deride lo scienziato rinascimentale, che in nome del guadagno si rivolge alla magia voltando le spalle alla ricerca naturale; attraverso Manfurio, il perfetto pedante, svela l’esaurimento dell’avventura umanistica, ridotta ormai a mera e vacua erudizione fine a se stessa. Tutto questo fissato dalla scrittura di Bruno, che rappresenta un’esperienza eccezionale nella letteratura italiana, e non solo dell’epoca, una scrittura originalissima, eccentrica, dotata di un’incontenibile forza deformante.

Per quanto riguarda infine la produzione poetica di Bruno, dopo l’assaggio rappresentato dal componimento posto in apertura del Candelaio, proponiamo i tre splendidi sonetti che inaugurano, diciamo così, l’opera De l’infinito, universo e mondi (1584).

Mio passar solitario, a quelle parti,
A quai drizzaste già l’alto pensiero,
Poggia infinito, poi che fia mestiero
A l’oggetto agguagliar l’industrie e l’arti.

Rinasci là; là su vogli’ allevarti
Gli tuoi vaghi pulcini, omai ch’il fiero
Destin av’ispedito il corso intiero
Contra l’impresa, onde solea ritrarti.

Vanne da me, che piú nobil ricetto
Bramo ti godi; e arrai per guida un dio,
Che da chi nulla vede è cieco detto.

Il ciel ti scampi, e ti sia sempre pio
Ogni nume di questo ampio architetto;
E non tornar a me, se non sei mio.

***

Uscito de priggione angusta e nera,
Ove tant’anni error stretto m’avinse,
Qua lascio la catena, che mi cinse
La man di mia nemica invid’e fera.

Presentarmi a la notte fosca sera
Oltre non mi potrà, perché chi vinse
Il gran Piton, e del suo sangue tinse
L’acqui del mar, ha spinta mia Megera.

A te mi volgo e assorgo, alma mia voce:
Ti ringrazio, mio sol, mia diva luce;
Ti consacro il mio cor, eccelsa mano,

Che m’avocaste da quel graffio atroce,
Ch’a meglior stanze a me ti festi duce,
Ch’il cor attrito mi rendeste sano.

***

E chi mi impenna, e chi mi scalda il core?
Chi non mi fa temer fortuna o morte?
Chi le catene ruppe e quelle porte,
Onde rari son sciolti ed escon fore?

L’etadi, gli anni, i mesi, i giorni e l’ore
Figlie ed armi del tempo, e quella corte
A cui né ferro, né diamante è forte,
Assicurato m’han dal suo furore.

Quindi l’ali sicure a l’aria porgo;
Né temo intoppo di cristallo o vetro,
Ma fendo i cieli e a l’infinito m’ergo.

E mentre dal mio globo a gli altri sorgo,
E per l’eterio campo oltre penetro:
Quel ch’altri lungi vede, lascio al tergo.

Ed è con questi versi commoventi, dal valore inestimabile, che concludiamo il ciclo di articoli dedicati a Giordano Bruno, filosofo, commediografo e poeta, ma soprattutto, uomo libero.

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