“Noa Noa”, profumi ancestrali

“Lungo la strada, una gran confusione: l’indifferenza dei francesi dava l’esempio, e quel popolo da giorni così cupo ricominciava a ridere, le vahine riprendevano a braccetto i loro tane, facevano ondeggiare le natiche mentre i grandi piedi nudi calpestavano pesantemente la polvere al suolo. Giunti nei pressi del fiume Fataua, tutti si sono dispersi. Qua e là alcune donne, nascoste tra le rocce, si accovacciavano nell’acqua, le gonne sollevate fino alla cintola, purificavano i loro fianchi dalla polvere della strada verso Papeete – i seni protesi, le conchiglie appuntite dei capezzoli visibili attraverso la mussola del vestito – con l’agilità e la grazia di un giovane animale, diffondendo attorno a loro un afrore animale mescolato a un profumo di sandalo, di tiare: “Teine merahi noa noa” (ora siamo molto profumate) dicevano.”

Paul Gauguin, Noa Noa, 1894-95

“Noa Noa” è molto più di un semplice diario di viaggio a cui affidarsi per tenere il filo delle giornate che passano, al quale confidare una recondito desiderio, bensì è l’unico legame tra Gauguin e la modernità, che gli impone di raccogliere la sua esperienza primordiale sul suo taccuino con della grafite nera.

Il viaggio tahitiano è il primo di una serie di esperienze che permetterà al pittore francese di ritrovare uno stile di vita “vergine” sotto tutti gli aspetti: quello che ne esce è una ricerca continua, una graduale immersione nelle placide acque polinesiane, concessagli solo dopo aver superato lo scoglio più grande, infrangere l’iniziale diffidenza del popolo maori.

La narrazione scorre con una serie di brevi racconti che descrivono dei singolari avvenimenti i quali permetteranno a Gauguin di conoscere a fondo le usanze e le tradizioni della popolazione indigena: la loro proverbiale eloquenza che si disperderà solo dopo prove di fedeltà da parte del pittore (non sempre visto di buon occhio a causa della politica severa da parte dei coloni francesi in Polinesia), i culti bizzarri che lo toccheranno nel profondo fino a convertirlo ad una religione arcaica e vicina al panteismo degli sciamani, fatta di tradizioni e credenze popolari ma che confermano ancora una volta la mente vergine e candida di un popolo speciale.

Rileggendo i suoi racconti si arriva infine ad una conclusione legata ai motivi del suo viaggio: non è un atteggiamento romantico il suo, ed il discorso è dunque ben diverso dal viaggio nordafricano di Delacroix, volto prevalentemente a conoscere e ritrarre semplicemente un popolo ed una cultura diversa, ma è più profondamente simbolico. Gauguin non è interessato a quella gente perché “diversa”, ma perché primordiale, assoluta nella sua autonomia.

Venturi racconterà nel libro “La via dell’impressionismo” che il pittore francese prova “simpatia per la loro ingenua naturalità; è entusiasta dei toni caldi e ricchi della loro carne. Egli ama troppo la sua modella per sacrificarla al sintetismo; e perciò dipinge in modo sintetico ma non sintetistico.; la sua forma è tutta accenti, ma nulla che valga è tralasciato; e nulla è astratto, perché ogni linea e ogni tono son pieni di ammirazione e di gioia. Il doloroso, malefico Gauguin è scomparso. lontano dalla civiltà, oltre Papeete, nella foresta, egli ha ritrovato la sua calma, la sua umanità, la sua gioia.”

E’ il mondo fatto di istintiva semplicità, come proiettato dalla primitiva esperienza di convivialità selvaggia, quello che colpisce Gauguin, stremato dall’esperienza europea conclusasi tragicamente dopo il trascorso insieme all’amico van Gogh (con cui condividerà un’estraniamento dalla società contemporanea significativa per il loro operato). Contrapporre l’uomo-macchina all’uomo-natura è il suo motto. Noa-Noa è il testamento artistico per l’occidente che ha dimenticato tutto, e non capisce.

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