In memoria d’una stagione romantica per sempre perduta.
Inno concepito da Goethe nella sua fervida fase sturmeriana, vissuta nel culmine della giovinezza, il Prometeo avrebbe dovuto aprire il terzo atto dell’omonimo dramma, opera mai completata dall’autore del Werther, della quale non ci restano che due atti.
Prometeo sdegnoso rifiuta la stirpe a cui appartiene, quella degli dèi, creandone a sua «immagine e somiglianza» una nuova, quella degli uomini, fatta per «soffrire e per piangere, / per godere e gioire / e non curarsi di te, / come me».
In questi versi senza tempo, consacrati all’immortalità, scorre il sangue purpureo di Prometeo, pulsa vitale tutta la sua ardimentosa e coraggiosa insubordinazione verso il “suo” genere, quello divino, e verso il “suo” re, Giove. E poco importa se quest’ultimo, furente, lo punisce, impalandolo su di una montagna, esposto ad intemperie meteorologiche di qualunque sorta e di qualunque portata, e alle strazianti aggressioni perpetue di un’aquila mai sazia del suo petto e del suo fegato, squarciati e dilaniati ogni sacrosanto giorno. La sua creazione, l’uomo, resta, prolifera ed istante dopo istante peggiora devastando ogni cosa, ma di questo, il povero Prometeo, proprio non può aver colpa [1].
Goethe eterna una delle figure mitologiche più importanti ed affascinanti, un ennesimo buon motivo per ringraziarlo, questo grande poeta tedesco, lui sì, immenso, magnifico, imperituro Dio.
PROMETEO
Copri il tuo cielo, Giove,
col vapor delle nubi!
E la tua forza esercita,
come il fanciullo che svetta i cardi,
sulle querce e sui monti!
Ché nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna,
che non costruisti,
contro il mio focolare,
per la cui fiamma tu
mi porti invidia.
Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d’oboli e preci
la vostra maestà
ed a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.
Quando ero fanciullo
e mi sentivo perduto,
volgevo al sole gli occhi smarriti,
quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto,
un cuore come il mio
che avesse pietà dell’oppresso
Chi mi aiutò
contro la tracotanza dei Titani?
Chi mi salvò da morte,
da schiavitù?
Non hai tutto compiuto tu,
sacro ardente cuore?
E giovane e buono, ingannato,
il tuo fervore di gratitudine
rivolgevi a colui
che dormiva lassù?
Io renderti onore? E perché?
Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch’ero in angoscia?
Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l’eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?
Credevi tu forse
che avrei odiato la vita,
che sarei fuggito nei deserti
perché non tutti i sogni
fiorirono della mia infanzia?
Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza,
una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me [2].
NOTE
[1] In tal senso si ricordi l’Operetta di Leopardi La scommessa di Prometeo, che sancisce il fallimento dell’invenzione del titano. Mi permetto inoltre di rimandare alla mia di Operetta – ma tumorale -: Dialogo di Prometeo e di un uomo.
[2] Traduzione di Giuliano Baioni, in J. W. v. Goethe, Inni, Einaudi, Torino 1967.