È il 1959 quando due dei maggiori scrittori italiani, e non solo italiani, del Novecento, Elio Vittorini (1908-1966) ed Italo Calvino (1923-1985), fondano a Torino l’importante rivista «Il Menabò».
Suddivisa in più fascicoli, ognuno dei quali tratta un tema specifico, come il rapporto tra letteratura e dialetto oppure tra letteratura ed industria, «Il Menabò» si caratterizza per un approccio particolarmente critico, servendosi di mezzi analitici ricavati dalle correnti filosofiche dell’epoca e da quelle scienze umane come la sociologia, l’antropologia culturale, la linguistica e lo strutturalismo, che si vanno sviluppando e perfezionando proprio in quegli anni.
Tra i molti ed illustri interventi pubblicati sulla rivista, riportiamo quello di Calvino intitolato Il mare dell’oggettività, apparso nel secondo numero del «Menabò», nel 1960. In questo vero e proprio saggio, lo scrittore critica il totale abbandono, da parte della letteratura e dell’arte, all’oggettività delle cose, frutto della nuova società iper-industriale e tecnologica. A farne le spese è l’io, che affoga sovrastato da quest’impetuosa e dannosa marea.
L’individuo, alienato e spersonalizzato, subisce una sorta di meccanizzazione, e al rapporto umano si sostituisce il freddo rapporto tra le cose, tra le merci. Gli oggetti invadono la società e la sommergono, la automatizzano, la rendono un’entità ibrida.
Calvino innalza un potente grido di protesta contro questo processo assurdo e disumano – che oggi, a più di cinquant’anni di distanza, è giunto al suo mostruoso trionfo – fiducioso che nelle «sabbie mobili dell’oggettività» si possa ancora scovare un barlume di libertà, si possa ancora scovare un briciolo di coscienza, come emerge dalle opere di Gadda e Pasolini. Una speranza forse vana, forse solo un’illusione, ma necessaria affinché si riesca ad andare avanti preservando la propria individualità, la propria indipendenza, e non si anneghi nel mare dell’oggettività.
«I romanzi della “école du regard” raccontati attraverso gli oggetti; la calata del mistilinguismo italiano nella babele dei linguaggi parlati; la registrazione scritta delle testimonianze di vita della gente semplice; la musica seriale che si propone di rendere esplicite le leggi interne del “materiale sonoro”; la pittura biomorfa che ci annega nel fluire della lingua, dei succhi terrestri, del sangue delle vene e del brusio e fragore umano: un significato comune lega questi e molti altri aspetti della cultura letteraria e artistica d’oggi. Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata, negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro stesso atteggiamento verso il mondo. Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza la volontà il giudizio individuali e dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando o siamo passati a una cultura in cui quel primo termine è sommerso dal mare dell’oggettività, dal flusso ininterrotto di ciò che esiste.
Diciamo subito che un mutamento di questo genere non entrava nei nostri piani, nelle nostre profezie, nelle nostre aspirazioni; ma ormai non si tratta più di accettarlo o di rifiutarlo; già ci siamo dentro; la geografia del nostro continente culturale è profondamente cambiata sotto quest’alluvione imprevista e che pure ha preso forma lentamente e ben visibilmente sotto i nostri occhi; il riconoscerlo però non vorremmo equivalesse per noi a un arrenderci, a un lasciarci annegare anche noi nel magma, come coloro che credono di capirlo e contenerlo identificandosi con esso. […]
La spinta che muoveva tutta l’avanguardia del primo quarantennio del secolo ha invertito la sua direzione. Allora era il flusso della soggettività prorompente, – espressionismo, Joyce, surrealismo, – che pareva voler inondare tutto, contestare la cittadinanza dell’uomo in un mondo oggettivo per farlo navigare nel fiume ininterrotto del monologo interiore o dell’automatismo inconscio. Ora è il contrario: è l’oggettività che annega l’io; il vulcano da cui dilaga la colata di lava non è più l’animo del poeta, è il ribollente cratere dell’alterità nel quale il poeta si getta.
Come noi ci ponevamo in posizione critica rispetto all’inondazione soggettica, e contrapponevamo ad essa gli scrittori i poeti i pittori i moralisti dell’attrito con la durezza del mondo, così ora facciamo opposizione alla resa incondizionata dell’oggettività. Ma la nostra opposizione è pure intesa a coglierne il perché e il momento di verità (quello che esiste in ogni concezione del mondo) e le vie che essa ancora apre a una ripresa dell’intervento attivo dell’uomo. Questa è infatti la tensione ideale che s’è logorata, aprendo le dighe all’alluvione oggettiva; per dirlo con una parola che potrà essere considerata troppo parziale e assoluta: è la crisi dello spirito rivoluzionario.
Rivoluzionario è chi non accetta il dato naturale e storico e vuole cambiarlo. La resa all’oggettività, fenomeno storico di questo dopoguerra, nasce in un periodo in cui all’uomo viene meno la fiducia nell’indirizzare il corso delle cose, non perché sia reduce da una bruciante sconfitta, ma al contrario perché vede le cose (la grande politica dei due contrapposti sistemi di forze, lo sviluppo della tecnica e del dominio delle forze naturali) vanno avanti da sole, fanno parte d’un insieme così complesso che lo sforzo più eroico può essere applicato solo al cercar di avere un’idea di come è fatto, al comprenderlo, all’accettarlo. […]
Cinque anni fa, in polemica con un nostro scritto, Citati dichiarava in un suo saggio (Fine dello stoicismo, “Paragone”, n. 68, agosto 1955) finito il compito di quella tradizione che si concretò in un ideale stilistico e morale di ostinazione volontaria, di riduzione all’essenziale, di rigore autocostruttivo; i demoni romantici, i gorghi irrazionali contro cui quella tradizione aveva preso forza erano svaniti; lo “stoicismo” non era più che una inattuale scelta di gusto. Rieccoci, Pietro Citati, sulla riva d’un gorgo, tale da mettere a prova scafi ben più saldi dei nostri; un gorgo privo stavolta d’aloni tragici o demoniaci ma più difficile da attraversare che una distesa di sabbie mobili. Stiamo guardinghi; molte formule stanno cambiando di segno; nello stesso rigore stilistico riduttivo ora si cela il trabocchetto: a consegnarci più disarmati nel labirinto delle cose non è proprio l’estremo riduttore della tecnica narrativa ai nudi dati visivi, Robbe-Grillet, colui che mutua dalla metodologia scientifica e filosofico-operativa il suo credo letterario?
Ma soffermiamoci un momento a riflettere, prima di concludere su una prospettiva così negativa. Questo seguito di dati oggettivi che diventano racconto, svolgimento d’un processo mentale, è necessariamente l’annullamento della coscienza o non può essere visto pure come una via per la sua riaffermazione, per esser certi di che cosa veramente la coscienza è, di qual è il posto che occupiamo nella sterminata distesa delle cose? Già Michel Butor esplicitamente si propone di rappresentare la coscienza, la volontà, la scelta attraverso il suo rovescio, il di fuori di quell’invisibile e inafferrabile dentro. In mezzo alle sabbie mobili dell’oggettività potremo trovare quel minimo d’appoggio, che basta per lo scatto di una nuova morale, di una nuova libertà?
Roma, vischioso calderone di popoli, dialetti, gerghi, lingue scritte, civiltà, sozzure, magnificenze, non è mai stata così totalmente Roma come nel Pasticciaccio di Gadda, dove la coscienza razionalizzatrice e discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali di una pianta carnivora. Ma da questo sprofondamento dell’autore e del lettore nel ribollire della matera narrata nasce un senso di sgomento: e questo sgomento è il punto di partenza di un giudizio, il lettore può in grazia d’esso fare un passo in òà, riacquistare il distacco storico, dichiararsi diverso e distinto dalla materia in ebollizione.
Pasolini narratore esperimenta un’umanità grado zero, che ha a disposizione per pensare e per esprimersi il monotono lessico di poche decine d’espressioni d’un dialetto imbastardito. Si comincia ad attraversare come una folla di cinesi, tutti uguali e irriconoscibili, una marmellata umana spalmata sugli squallidi bordi della città; ma a un certo punto c’è l’attrito d’un pensiero, d’un sentimento, d’un affiorare di coscienza, d’una scelta che prende forma forzando la miseria dello strumento lessicale, elevandosi di qualche centimetro dal livello a cui scorre l’ininterrotta spinta esistenziale: di qualche centimetro soltanto, ma, raggiungendola attraverso questa via, – se non ci sono trucchi, di cui è subito spia il dosaggio della densità linguistica – dovrebb’essere coscienza vera, tagliente come una lama.
Dalla letteratura dell’oggettività alla letteratura della coscienza: così vorremmo orientare la nostra lettura d’una ingente zona della produzione creativa d’oggi, ora assecondando ora forzando l’intenzione degli autori. Non da ieri ci siamo fatti una regola del cercare anche nei testi più lontani le ragioni del brulicante o del folto o dello screziato o del labirintico o dello stratificato, è diventato necessariamente complementare alla visione del mondo che si vale di una forzatura semplificatrice, schematizzatrice del reale. Ma il momento che vorremmo scaturisse dall’uno come dall’altro modo di intendere la realtà, è pur sempre quello della non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni».