Di tutti i poeti «onore e lume», autore dell’Eneide, la più grande opera di sempre e principale modello, insieme con la Bibbia, del poema dantesco; annunciatore, con l’Egloga IV, dell’unica vera fede; tra tutti gli «spiriti magni» prescelto da Beatrice nel ruolo di guida nel viaggio di redenzione di Dante e dell’intera umanità: Virgilio nella Commedia è tutto questo, e anche altro. Eppure non basta, a Virgilio la beatitudine eterna è negata. Egli è costretto a rimuginare per sempre nel Limbo, per sempre a desiderare la dimora celeste consapevole però dell’impossibilità della realizzazione di tale desiderio. Virgilio si consuma in una brama insaziabile, come tutte le altre grandi personalità del mondo antico l’«ingegno» non basta, e questo lo rende, tra tutti gli innumerevoli personaggi della Commedia – un’intera umanità, o meglio, l’intera umanità dalla creazione del mondo al 1300 -, in assoluto il più malinconico.
Malinconia che traspare sin dalle prime battute del poeta mantovano, allorquando, nel Canto I dell’Inferno, annuncia l’impresa che lo attende e si presenta come guida:
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna (Inf., I, vv. 121-126).
Virgilio fissa subito il proprio limite, oltre il quale non potrà spingersi. Egli non conobbe la vera fede, pur presentendola, ciò lo rende un ribelle e un escluso, il grande escluso del Paradiso. Così egli è «tra color che son sospesi», costretti in uno stato mezzo tra la pena e la beatitudine, là dove è concesso solo sospirare.
Dante, nel Canto II dell’Inferno, manifesta comprensibilissime riserve in merito all’ardua impresa che lo attende – pur affermando la propria unicità e dignità nel celebre verso «Io non Enëa, io non Paulo sono» (Inf., II, v. 32) – e nel rimprovero di Virgilio vibra quella nota di mestizia propria di colui il cui destino è segnato, contrariamente a chi ha di fronte, il cui destino è in divenire e ha una prospettiva assolutamente luminosa grazie all’intervento delle «tre donne benedette» – la Vergine, santa Lucia e Beatrice -:
Dunque: che è perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette? (Inf., II, vv. 121-126)
La perfetta corrispondenza di questi versi, dal 121 al 126, del primo e del secondo canto dell’Inferno, sottolinea l’assoluta distanza delle due esperienze, quella di Virgilio e quella di Dante, segnata la prima, ancora in discussione la seconda.

Il desiderio senza alcuna speranza è ciò che caratterizza le anime costrette nel Limbo, sospese nella loro sembianza «né trista né lieta», come sottolinea lo stesso Virgilio nel Canto IV dell’Inferno, dedicato proprio alla visita dei due poeti nel Limbo:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio (Inf., IV, vv. 39-42).
Quel «semo perduti» evidenzia la condizione disperata degli «spiriti magni», colpevoli e innocenti al contempo, e peraltro senza alcuna responsabilità. Non potevano sapere, non potevano scegliere il proprio destino nell’aldilà. Il libero arbitrio, tema tra i più importanti della Commedia, non riguarda i poeti, i filosofi e gli eroi antichi, come non riguarda i bambini morti senza aver ricevuto il battesimo. Non una pena corporale, ma una pena morale – la lontananza da Dio – tormenta le anime del Limbo, e per questi grandi intellettuali e guerrieri che sulla rettitudine hanno fondato le proprie esistenze non può esserci pena peggiore. Dante nei loro confronti commette una sottile, quasi sopraffina crudeltà, funzionale tuttavia al grande disegno della Commedia, necessaria viste le intenzioni dell’autore e la sua visione filosofica, che non ammettono sentimentalismi, ma mirano a ristabilire, quantomeno nella finzione del testo letterario, una giustizia tanto esatta quanto, conseguentemente, utopica.

Nel Canto V dell’Inferno avviene il celebre incontro con Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, i due cognati sbattuti dalla perpetua bufera che agita i lussuriosi. Dante domanda alla donna cosa avvenne in lei «al tempo d’i dolci sospiri», e nella risposta Francesca accomuna a sé Virgilio, dando vita ad un ideale sodalizio della malinconia che arricchisce di una sfumatura preziosa la complessa figura del poeta mantovano:
Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore (Inf., V, vv. 121-123).
Francesca si riferisce certamente all’attività letteraria di Virgilio, che, nell’Eneide e in particolar modo nella vicenda della suicida Didone, dimostra di conoscere a fondo il dramma amoroso – il che potrebbe far pensare anche ad una esperienza vissuta in prima persona -, ma anche, e forse soprattutto, alla condizione post mortem del poeta mantovano, per sempre perduto.

Passando alla seconda cantica, il Purgatorio, un passo particolarmente significativo riguardo Virgilio e il suo carattere malinconico è rappresentato dal colloquio tra il poeta mantovano e il suo concittadino Sordello – dall’incontro tra i due nasce la celebre e tristemente attuale invettiva di Dante «Ahi serva Italia» – nel Canto VII. Virgilio dapprima si presenta, poi descrive il Limbo:
Io son Virgilio; e per null’altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé (Purg., VII, vv. 7-8).
Non per far, ma per non fare ho perduto
a veder l’alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo è là giù non tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da l’umana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l’altre e seguir tutte quante (Purg., VII, vv. 25-36).
Questa insistenza sulla condizione di Virgilio da parte di Dante, i numerosi riferimenti, dimostrano la sua volontà di dare vita ad un personaggio che si caratterizza, oltreché per la ragione, proprio per quella malinconia più volte ricordata; non si tratta di una congettura interpretativa, ma di un dato di fatto: ragione e malinconia costituiscono i pilastri fondamentali e fondanti su cui si erge uno dei personaggi danteschi più riusciti e noti, e il secondo colpisce più del primo perché appartenente alla profonda dimensione psicologica dell’essere umano.
Nel corso della loro ascesa, i due poeti si imbattono in Stazio, che ha completato il proprio processo di espiazione in Purgatorio e si appresta ad ascendere in cielo, verso l’eterna beatitudine. Un esito felice che colpisce nel vivo Virgilio, e nel suo quesito risuona prepotente il rammarico dell’escluso:
«Or quando tu cantasti le crude armi
de la doppia trestizia di Giocasta»,
disse ’l cantor de’ buccolici carmi,
«per quello che Clïò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta.
Se così è, qual sole o quai candele
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?» (Purg., XXII, vv. 55-63)
Oltre al danno anche la beffa, verrebbe da dire, perché proprio grazie a Virgilio Stazio conobbe la fede cristiana:
Tu prima m’invïasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m’alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: «Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova».
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
a colorare stenderò la mano (Purg., XXII, vv. 64-75).
Di tutti i momenti dedicati a Virgilio e al suo triste destino, questo è forse quello in cui si raggiunge la massima tensione. Il poeta mantovano guadagna qui la dignità del profeta cristiano, eppure escluso dal Paradiso. Ed ecco che viene quasi naturale parlare di ingiustizia e, scatenando l’immaginazione, fantasticare su un decreto straordinario di Dio o magari su un’impresa eroica di Virgilio, assistito dal suo Enea, che lo porti alla salvezza.
Alle soglie del Paradiso terrestre, avviene il memorabile e commovente congedo di Virgilio da Dante:
Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio (Purg., XXVII, vv. 127-142).
Appare Beatrice e Dante, sconvolto, si volta in cerca del suo maestro. Ma Virgilio non c’è più, se n’è andato, in silenzio. È tornato nel Limbo, e tra gli «spiriti magni» non posso far altro che immaginarlo in quella posa tipica del malinconico rappresentata da Dürer nella sua celebre incisione Melencolia I.
