Friedrich Nietzsche, il poeta. Idilli di Messina e Ditirambi di Dioniso

che io sia bandito
da ogni verità!
Soltanto pazzo! soltanto poeta!…

L’attività poetica accompagna Friedrich Nietzsche lungo l’intero arco della sua drammatica parabola esistenziale. Egli scrive versi da quando è un ragazzino e prosegue fino alla rovinosa caduta nell’abisso della pazzia – a differenza dell’amato Hölderlin non ha la forza di fare lirica nella follia -. A partire da Umano, troppo umano (1878) fino ad arrivare a Ecce homo (1888), Nietzsche inserisce poesie in tutte le sue celebri opere filosofiche, e si pensi soprattutto a La gaia scienza e a Così parlò Zarathustra, ma realizza anche raccolte di versi autonome, a sé stanti, come nel caso degli Idilli di Messina e dei Ditirambi di Dioniso.

Gli Idilli di Messina, scritti a Genova tra il febbraio e l’aprile del 1882, rappresentano un unicum all’interno della cospicua produzione filosofico-letteraria di Friedrich Nietzsche, trattandosi dell’unica opera autenticamente poetica da lui pubblicata, sulla rivista «Internationale Monatsschrift» nello stesso anno di composizione. Ma l’unicità di questo testo si estende anche a livello tematico, perché contiene versi in cui la prepotente e devastatrice spinta filosofica di Nietzsche non compare, o quantomeno non così chiaramente, con l’attività lirica che sembra ridotta ad un puro gioco letterario, piacevole e, tutto sommato, spensierato. Una sorta di tregua prima delle grandi opere che rivoluzioneranno la storia della filosofia – Nietzsche fa tabula rasa e inaugura una nuova era; nel pensiero Occidentale dopo di lui niente sarà più come prima -. In questi Idilli, il pur maturo filosofo di Röcken – quattro anni prima, nel 1878, ha pubblicato Umano, troppo umano, la sua prima opera in forma aforistica, tanto per citare un titolo – modella in versi lievi, ironici, talvolta dolenti, come nel Canto del capraio, le impressioni del soggiorno nell’estremo Meridione, in un esercizio ludico e scanzonato che esclude il sublime e ignora quel ruggito tonante proprio della scrittura nietzschiana.

Viceversa, si caratterizzano per la profondità filosofica i Ditirambi di Dioniso, architettati nel 1888, poco prima della follia, ma risalenti agli anni precedenti – diverse poesie compaiono infatti, con alcune modifiche, in Così parlò Zarathustra, e in generale tutti i Ditirambi ruotano attorno alla figura del celebre profeta -. In questa raccolta compare il Nietzsche anticipatore di soluzioni formali e tematiche proprie dell’avanguardia lirica tedesca primonovecentesca – ermetismo ed espressionismo -, avanguardia che ne apprezzerà la straordinaria forza innovatrice. Rispetto agli Idilli si accentua la vena autobiografica e l’atmosfera generale, rispetto alla luce abbacinante dei versi meridionali, si incupisce. La spensieratezza lascia spazio alla consapevolezza, vissuta talvolta come condanna. È quanto emerge dalla lirica che apre il volume: «che io sia bandito / da ogni verità! / Soltanto pazzo! soltanto poeta!…», versi con ogni probabilità ispirati alla vicenda del sopracitato Hölderlin e drammaticamente profetici.

Per quanto riguarda le poesie contenute nelle varie opere filosofiche, esse si conformano al contenuto di queste ultime, e la commistione dei due generi, la prosa e la poesia, dimostra quanto Nietzsche fosse intimamente, naturalmente legato alla lirica. Oltreché filosofo egli nacque e morì poeta. Del resto, si tratta di una caratteristica peculiare di molti di quei pensatori critici che sanciscono la crisi dell’individuo occidentale e del suo mondo, e penso a Giacomo Leopardi, apprezzatissimo da Nietzsche, e Carlo Michelstaedter [1] – che non amerebbe affatto vedere il proprio nome accostato a quello del creatore del «bestialmente fulvo» Zarathustra, come il goriziano definisce con disprezzo il personaggio nietzschiano [2], ma di cui pure subì, verrebbe da dire inevitabilmente, l’influsso (ci tengo a precisare come il giudizio negativo di Michelstaedter su Nietzsche sia dovuto soprattutto alla devastante mediazione dannunziana, che in Italia ha fatto più danni della grandine) -.

Premesso ciò, propongo di seguito una piccola scelta delle liriche di Friedrich Nietzsche tratte dagli Idilli di Messina e dai Ditirambi di Dioniso. Buona lettura.

Dagli Idilli di Messina

CANTO DEL CAPRAIO

(Al mio vicino Teocrito di Siracusa)

Qui giaccio, malato nelle viscere –
Le cimici mi divorano. E da lassù
Ancora luce e chiasso:
Lo sento, ballano.

Verso quest’ora ella intendeva
Venire di soppiatto qui da me:
Aspetto come un cane –
Non giunge segno!

Fece la croce quando lo promise!
Come poté mentire?
O corre dietro a chiunque,
Come le mie capre?

Da dove viene la sua gonna di seta? –
Ebbene, mia superba?
Vivono ancora arieti
In questo bosco?

Come rende accigliati e velenosi
L’attesa innamorata!
Cresce in tal modo, nella notte afosa,
Il fungo avvelenato nel giardino.

L’amore mi consuma
Come sette malanni –
Quasi non ho più voglia di mangiare,
Addio, o cipolle!

La luna cala già nel mare,
Le stelle, tutte, sono stanche,
Il giorno, grigio, sopraggiunge –
Come vorrei morire [3].

***

UCCELLO ALBATROS

Oh miracolo! Vola ancora?
Si leva in alto e le sue ali posano!
Cosa, allora, lo innalza e lo sorregge?
Cosa è per lui mèta, impeto e briglia?

Volò troppo alto – il cielo stesso ora
Innalza in volo il vittorioso:
Ora riposa immobile e si libra,
Dimentico di vittoria e vincitore.

Simile a stella e eternità egli ora
Vive in altezze che la vita sfugge,
L’invidia stessa compatendo -:
E volò alto, chi pur lo veda solamente librarsi.

Oh uccello albatros!
In alto un eterno impulso mi sospinge!
Pensai a te: e lacrime su lacrime
Mi sgorgarono – sì, io ti amo! [4]

Dai Ditirambi di Dioniso

SOLTANTO PAZZO! SOLTANTO POETA!

Nell’aria rischiarata,
quando già la consolazione
della rugiada stilla sopra la terra,
invisibile e inudita
– poiché come tutti i dolci consolatori indossa
la confortatrice rugiada delicati calzari –
allora ricordi, ricordi, cuore ardente,
come fosti assetato, un tempo,
come, stanco e riarso, fosti assetato
di lacrime celesti e gocce di rugiada,
mentre su gialli sentieri d’erba
tra neri alberi ti correvano intorno
malvagi sguardi serali del sole,
accecanti, ardenti, maligni sguardi del sole.

Il pretendente della verità – tu? così schernivano
no! soltanto un poeta!
un astuto, rapace, strisciante animale
che deve mentire,
che sapendo, volendo, deve mentire,
bramoso di preda,
variamente mascherato,
maschera egli stesso,
egli stesso preda
questo – il pretendente della verità?…
Soltanto pazzo! Soltanto poeta!
Che parla in modo variopinto,
che dalle maschere di pazzo parla confusamente,
arrampicandosi su menzogneri ponti di parole,
aggirandosi, strisciando
su arcobaleni di menzogne
tra falsi cieli –
soltanto pazzo! soltanto poeta!…

Questo – il pretendente della verità?…

Non quieto, rigido, piano, freddo,
divenuto immagine,
pilastro di Dio,
non innalzato dinanzi ai templi,
un guardiano di Dio:
no! ostile a simili statue di virtù,
più nelle selve che nei templi di casa,
colmo di una felina spavalderia
che salta oltre ogni finestra
hop! in ogni casualità,
fiutando ogni foresta vergine,
tu che corresti nelle foreste vergini
tra variegati e arruffati animali da preda
empiamente sano e bello e variopinto,
con labbra vogliose,
beato di scherno, beato d’inferno, beato di brama di sangue,
predando, strisciando, mentendo corresti…

Oppure simile all’aquila che a lungo,
a lungo immobile scruta gli abissi,
i suoi abissi…
– oh, come quiggiù esse
si inanellano in basso, in dentro,
in sempre più fonde profondità! –
Poi,
d’un tratto,
con volo diritto
e slancio improvviso
gettarsi su agnelli a precipizio,
affamato, bramoso di agnelli, adirato
con tutte le anime d’agnello
furiosamente adirato con tutto ciò che ha
sguardi virtuosi, di pecora, sguardi dal vello ricciuto,
ottusi, muniti della benevolenza del latte d’agnello…

Quindi
come di aquila, di pantera
sono le bramosie del poeta,
so, dietro mille maschere, le tue bramosie,
tu pazzo! tu poeta!…

Tu che vedesti l’uomo
come dio e come pecora -,
sbranare il dio nell’uomo
come la pecora nell’uomo
e ridere sbranando –

questa, questa è la tua beatitudine,
la beatitudine di una pantera e di un’aquila,
la beatitudine di un poeta e di un pazzo!…

Nell’aria rischiarata,
quando già la falce della luna
verde tra rossi di propora
e invidiosa s’insinua,
– avversa al giorno,
ad ogni passo segretamente
falciando amache di rose,
fino a quando esse cadono,
pallide cadono verso la notte:

così io stesso caddi, una volta,
dalla mia follia di verità, dalle mie bramosie del giorno,
stanco del giorno, sofferente per la luce,
– caddi in giù, verso la sera, verso l’ombra,
bruciato da una sola
verità e assetato
– ricordi ancora, ricordi, cuore ardente,
com’eri assetato allora? –
che io sia bandito
da ogni verità!
Soltanto pazzo! soltanto poeta!… [5]

***

TRA UCCELLI PREDATORI

Chi volge in basso qui,
come presto
lo inghiotte l’abisso!
– Ma tu, Zarathustra,
ami ancora l’abisso
fai come l’abete?

Esso mette radici, dove
il dirupo stesso rabbrividendo
guarda il profondo -,
esita sopra precipizi
intorno ai quali tutto
volge verso il fondo:
tra l’impazienza
di una selvaggia frana, di un impetuoso ruscello
sopportando paziente, duro, silente,
solo…

Solo!
Chi osò mai
essere ospite qui,
essere ospite tuo?…

Forse un uccello predatore:
questi si aggrappa
volentieri ai capelli
di chi saldo pazienta,
maligno, con riso folle,
il riso di un uccello predatore…
Perché così saldo?
– schernisce egli spietato:
bisogna avere ali, se si ama l’abisso…
non restare appesi
come te, impiccato! –

Oh Zarathustra,
crudelissimo Nimrod!
Poc’anzi ancora cacciatore di Dio,
la rete che cattura ogni virtù,
la freccia del male!
Ora –
da te stesso catturato,
tua propria preda,
penetrato in te stesso…

Ora –
con te stesso solo,
duplice nel tuo sapere,
tra cento specchi
falso dinanzi a te stesso,
tra cento ricordi
incerto,
stanco di ogni ferita,
freddo per ogni gelo,
dalle tue stesse funi strangolato,
conoscitore di te stesso!
carnefice di te stesso!

Perché mai ti legasti
con la fune della tua saggezza?
Perché mai attirasti te stesso
nel paradiso del vecchio serpente?
Perché mai ti insinuasti
in te – in te?…

Ora un malato,
reso infermo dal veleno del serpente;
un prigioniero ora,
cui toccò in sorte il più duro destino:
che lavora curvo
nel proprio pozzo,
vuoto in se stesso come una caverna
che scava in se stesso
maldestro,
rigido,
una salma -,
sovrastato da cento gravami,
sovraccarico di te,
un sapiente!
un conoscitore di se stesso!
il saggio Zarathustra!…

Tu cercasti il carico più pesante:
e lì trovasti te stesso -,
non ti libererai di te…

In agguato,
rannicchiato,
incapace di stare ritto in piedi!
Mi appari aggrovigliato alla tua tomba,
spirito deforme!…

E poc’anzi ancora così orgoglioso,
su tutti i trampoli del tuo orgoglio
poc’anzi ancora l’anacoreta senza Dio,
che il suo eremo divide con il diavolo,
il principe scarlatto di ogni superbia!…

Ora –
in mezzo a due nulla
rannicchiato,
un punto interrogativo,
uno stanco enigma –
un enigma da uccelli predatori…

– essi di certo ti «risolveranno»,
già bramano la tua «risoluzione»,
svolazzano intorno a te, il loro enigma,
intorno a te, impiccato!…
Oh Zarathustra!…
Conoscitore di te stesso!…
Carnefice di te stesso!… [6]

***

LAMENTO DI ARIANNA

Chi mi riscalda, chi mi ama ancora?
Date mani ardenti!
Date bracieri del cuore!
Già prostrata, còlta da brividi,
una moribonda quasi, cui si scaldano i piedi,
scossa, ah!, da febbri sconosciute
tremante per freddi, gelidi dardi acuminati,
da te inseguita, pensiero!
Innominabile! Celato! Tremendo!
Tu cacciatore oltre le nubi!
Prostrata dai tuoi fulmini,
tu occhio beffardo, che dall’oscurità mi osservi!
Così io giaccio,
mi piego, mi torco, tormentata
da tutti gli eterni martìri,
colpita
da te, spietatissimo cacciatore,
tu sconosciuto – Dio…

Colpisci più a fondo!
Una volta ancora colpisci!
Trafiggi, spezza ancora questo cuore!
Perché questa tortura
con dardi spuntati?
Perché guardi di nuovo
instancabile dell’umano tormento,
con maligni, divini occhi saettanti?
Non vuoi uccidere,
torturare soltanto, torturare?
Perché – torturare me,
tu maligno, sconosciuto Dio?

Ah! Ah!
Ti avvicini furtivo
in questa mezzanotte?…
Che cosa vuoi?
Parla!
Tu mi premi, mi incalzi
ah! già troppo da presso!
Mi ascolti respirare,
senti il mio cuore, tu,
o geloso!
– ma geloso di che?
Via! Via!
perché la scala?
vuoi entrare
nel cuore, salire,
salire nei miei
più segreti pensieri?
Impudico! Sconosciuto! Ladro!
Cosa vorresti rubare?
Cosa vorresti ascoltare?
Che cosa estorcere,
torturatore!
tu – dio carnefice!
O devo io, simile al cane,
rotolare dinanzi a te?
abbandonata, esaltata fuori di me
per te amore – scodinzolare?

Invano!
Trafiggi ancora!
Crudelissima spina!
Non cane – solo tua preda io sono,
crudelissimo cacciatore!
la tua più fiera prigioniera,
tu rapinatore oltre le nubi…
Parla infine!
Tu nascosto dal fulmine! Sconosciuto! parla!
Che cosa vuoi tu, bandito, da – me?…

Come?
Prezzo del riscatto?
Quanto vuoi per il riscatto?
Chiedi molto – questo suggerisce il mio orgoglio!
e parla poco – questo suggerisce l’altro mio orgoglio!

Ah! Ah!
Me – vorresti? me?
me – tutta?…

Ah! Ah!
E mi tormenti, pazzo che non sei altro,
martirizzi il mio orgoglio?
Dammi amore – chi mi riscalda ancora?
chi mi ama ancora?
da’ mani ardenti,
da’ bracieri del cuore,
da’ a me, la più sola,
cui ghiaccio, ah!, ghiaccio dalle sette forme
insegna a bramare nemici,
persino nemici,
da’, arrenditi
crudelissimo nemico,
a me – te!…

Via!
Anch’egli fuggì ora,
mio solo compagno,
mio grande nemico,
mio sconosciuto,
mio Dio-carnefice!…

No!
ritorna
Con tutte le tue torture.
Le mie lacrime tutte
corrono verso te
e l’ultima fiamma del mio cuore
risplende per te.
Oh, ritorna,
mio Dio sconosciuto! mio dolore! mia ultima felicità!…

[Un lampo. Appare Dioniso in una bellezza smeraldina.]

Dioniso:

Sii saggia Arianna!…
Hai orecchie piccole, hai le mie orecchie:
poni in esse una saggia parola! –
Non ci si deve odiare, prima, se ci si vuole amare?…
Io sono il tuo labirinto… [7]

NOTE

[1] Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter e all’articolo Carlo Michelstaedter, A Senia.

[2] «Così credo parlasse un giorno un germanico Zarathustra, che fu anche bestialmente fulvo. E da lui derivano tutte le bestie più o meno fulve che da allora cominciarono a infestare il mondo. […] – Libertà? qual è la libertà dell’uomo in natura? è la libertà che tutte le parti dell’universo hanno: in quanto vivono secondo la loro legge senza averne coscienza. Ma se ne acquistano coscienza hanno nello stesso tempo la conoscenza che questa legge è la loro perché deve esser la loro e che tanto sono schiave quanto dura la loro vita. Così la vita dell’uomo in natura quando cessi dall’esser bestiale è vita schiava e cosciente di questa schiavitù. Non altrimenti schiave sono le bestie fulve individualistiche dei nostri tempi». Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 665.

[3] Friedrich Nietzsche, Idilli di Messina, traduzione di Luca Crescenzi, in Friedrich Nietzsche, Opere 1882/1895, Newton Compton editori, Roma 2008, pp. 1055-1056.

[4] Ivi, p. 1058.

[5] Friedrich Nietzsche, Ditirambi di Dioniso, traduzione di Luca Crescenzi, in Friedrich Nietzsche, Opere 1882/1895, op. cit., pp. 1059-1061.

[6] Ivi, pp. 1067-1069.

[7] Ivi, pp. 1072-1075.

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