Né so che spatio mi si desse il cielo
quando novellamente io venni in terra
a soffrir l’aspra guerra
che ‘ncontra me medesmo seppi ordire.Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, CCLXIV, vv. 109-112.
Come emerso dal ritratto abbozzato nell’articolo Francesco Petrarca, il «doppio uomo», la costante e impietosa indagine di se stesso, della propria interiorità, con le sue aspirazioni e le sue debolezze, le sue ascese e le sue cadute, è tra le principali caratteristiche del poeta, riscontrabile in gran parte delle sue opere. Ma l’opera in cui, in assoluto, tale tendenza all’esame di coscienza assume la sua forma più organica, compiuta e approfondita è il Secretum (per esteso De secreto conflictu curarum mearum, ovvero Il conflitto segreto dei miei affanni), concepito probabilmente nel 1342-1343, nel pieno di quella tormentosa crisi religiosa seguente all’incoronazione poetica e causata dalla decisione del fratello Gherardo di ritirarsi nella certosa di Montrieux.
Il Secretum, diviso in tre libri, si presenta come un dialogo tra lo stesso Francesco e sant’Agostino, colui che Petrarca considerava un maestro e una guida, di cui portava sempre con sé una copia delle Confessioni. Il dialogo avviene alla presenza di una donna, rappresentazione allegorica della Verità, retaggio medievale mutuato dal De consolatione philosophiae di Boezio, e si svolge in tre giorni. Da una parte Francesco dunque, il fragile peccatore che aspira alla purezza ma è costantemente tentato dalle mondane lusinghe, dall’altra Agostino, supremo esempio di onestà e giustizia che scava nelle profondità dell’interlocutore portando alla luce la verità, assai spesso tutt’altro che lusinghiera.
Oggetto del primo libro è la volontà, la debole volontà di Francesco, incapace di tradurre in pratica le sue elevate aspirazioni spirituali. Nel secondo libro Agostino esamina i sette peccati capitali, concentrando l’attenzione in particolar modo su uno di essi, l’accidia. Si tratta di un momento fondamentale della storia della letteratura italiana: Petrarca inaugura quella serie di malesseri che dalla sua accidia arriva fino al male di vivere montaliano, passando, tra gli altri, per la noia di Leopardi (ampliando lo sguardo, spingendolo oltre i confini nazionali, ricordo altri celebri malesseri letterari: lo spleen di Baudelaire [1], il tedio di Pessoa [2], la nausea di Sartre [3]).
Vediamo come Petrarca descrive questo malessere di cui è vittima, e dal quale Agostino tenta di distoglierlo.
AGOSTINO Ti domina una funesta malattia dell’animo, che i moderni hanno chiamato accidia e gli antichi aegritudo.
FRANCESCO II nome solo di essa mi fa inorridire.
AGOSTINO Non me ne meraviglio, poiché ne sei tormentato a lungo e gravemente.
FRANCESCO È vero; e a ciò s’aggiunge che mentre in tutte quante le passioni da cui sono oppresso è commisto un che di dolcezza, sia pur falsa, in questa tristezza invece tutto è aspro, doloroso e orrendo; e c’è aperta sempre la via alla disperazione e a tutto ciò che sospinge le anime infelici alla rovina. Aggiungi che delle altre passioni soffro tanto frequenti quanto brevi e momentanei gli assalti; questo male invece mi prende talvolta così tenacemente, da tormentarmi nelle sue strette giorno e notte; e allora la mia giornata non ha più per me luce né vita, ma è come notte d’inferno e acerbissima morte. E tanto di lagrime e di dolori mi pasco con non so quale atra voluttà, che a malincuore (e questo si può ben dire il supremo colmo delle miserie!) me ne stacco.
AGOSTINO Conosci benissimo il tuo male; tosto ne conoscerai la cagione. Di’ dunque: che è che ti contrista tanto? il trascorrere dei beni temporali, o i dolori fisici o qualche offesa della troppo avversa fortuna?
FRANCESCO Un solo qualsiasi di questi motivi non sarebbe per sé abbastanza valido. Se fossi messo alla prova in un cimento singolo, resisterei certamente; ma ora sono travolto da tutto un loro esercito.
AGOSTINO Spiega più particolarmente ciò che ti assale.
FRANCESCO Ogni volta che mi è inferta qualche ferita dalla fortuna, resisto impavido, ricordando che spesso, benché da essa gravemente colpito, ne uscii vincitore. Se tosto essa raddoppia il colpo, comincio un poco a vacillare; che se alle due percosse ne succedono una terza e una quarta, allora sono costretto a ritirarmi – non già con fuga precipitosa ma passo passo – nella rocca della ragione. Ivi, se avviene che la fortuna mi si accanisca intorno con tutta la sua schiera, e mi lanci addosso per espugnarmi le miserie della umana condizione e la memoria dei passati affanni e il timore dei venturi, allora finalmente, battuto da ogni parte e atterrito dalla congerie di tanti mali, levo lamenti. Di lì sorge quel mio grave dolore: come ad uno che sia circondato da innumerevoli nemici e a cui non si apra alcuno scampo né alcuna speranza di clemenza né alcun conforto, ma ogni cosa lo minacci. Ecco, le macchine sono drizzate, sotto terra i cunicoli sono scavati, già oscillano le torri; le scale sono appoggiate ai bastioni; s’agganciano i ponti alle mura; il fuoco percorre le palizzate. Vedendo d’ogni parte balenare le spade e minacciosi i volti nemici, e prevedendo prossimo l’eccidio, non paventerà esso e non piangerà, posto che, se anche cessino questi pericoli, già solo la perdita della libertà è dolorosissima agli uomini fieri?
AGOSTINO Benché tu abbia trascorso su tutto ciò un poco confusamente, pure capisco che la causa di tutti i tuoi mali è un’impressione sbagliata che già prostrò e prostrerà infiniti altri. Giudichi tu di star male?
FRANCESCO Anzi, pessimamente.
AGOSTINO Per qual ragione?
FRANCESCO Non per una, certo, ma per infinite.
AGOSTINO Tu fai come quelli che per qualsiasi anche lievissima offesa tornano al ricordo dei vecchi contrasti.
FRANCESCO Non è in me piaga così antica che abbia ad essere cancellata dalla dimenticanza; le cose che mi tormentano sono tutte recenti. E ancor che col tempo qualche cosa si fosse potuta sanare, la fortuna torna così spesso a percuotere in quel punto, che nessuna cicatrice può mai saldare l’aperta piaga. Aggiungi l’aborrimento e il disprezzo dello stato umano; da tutte queste cagioni oppresso, non mi riesce di non essere tristissimo. Non do importanza che questa si chiami o aegritudo o accidia o come altrimenti vuoi. Siamo d’accordo sulla sostanza.
AGOSTINO Poiché, a quanto veggo, il male ti si è abbarbicato con profonde radici, non basterà averlo tolto via alla superficie, che rispunterebbe rapidamente: bisogna strapparlo radicalmente; ma sto incerto donde incominciare, tante sono le cose che mi trattengono. Ma per agevolare l’effetto dell’opera col ben precisare, percorrerò ogni singolo particolare. Dimmi dunque: quale cosa ritieni per te precipuamente molesta?
FRANCESCO Tutto quanto primamente vedo, odo ed intendo.
AGOSTINO Perbacco, non ti piace nulla di nulla.
FRANCESCO O nulla o proprio poche cose.
AGOSTINO Speriamo almeno che ti piaccia ciò che è salutare! Ma che ti spiace di più? Rispondimi per favore.
FRANCESCO Ti ho già risposto.
AGOSTINO Tutto ciò è caratteristico di quella che ho chiamata accidia. Tutte le cose tue ti spiacciono [4].
Guidato dalle domande incalzanti di Agostino, Francesco evidenzia con un’invidiabile lucidità le conseguenze del malessere di cui è vittima, l’accidia: «in questa tristezza […] tutto è aspro, doloroso e orrendo; e c’è aperta sempre la via alla disperazione e a tutto ciò che sospinge le anime infelici alla rovina. […] questo male […] mi prende talvolta così tenacemente, da tormentarmi nelle sue strette giorno e notte; e allora la mia giornata non ha più per me luce né vita, ma è come notte d’inferno e acerbissima morte». A ciò si aggiungano l’amaro compiacimento, che è forse quanto di più grave – «E tanto di lagrime e di dolori mi pasco con non so quale atra voluttà, che a malincuore […] me ne stacco» -, e la consapevolezza della miseria dell’uman genere, che acuisce il malessere – «Aggiungi l’aborrimento e il disprezzo dello stato umano» -. Da tutto ciò ne consegue un sentimento di insoddisfazione irriducibile e paralizzante, alimentato da quella vanitas che rappresenta il principale nutrimento dei malesseri sopracitati. L’aspirazione al divino in Petrarca non riesce a conciliarsi con la limitata e misera condizione umana; ne nasce così un conflitto inestinguibile e doloroso. Petrarca è lo scrittore che meglio di ogni altro incarna il momento critico rappresentato dal passaggio dall’età medievale a quella rinascimentale.
Infine, nel terzo libro Agostino prende in esame le due colpe più gravi del suo interlocutore: l’inesausta brama di gloria e l’amore per Laura. E per quanto Francesco si sforzi di mostrare come il sentimento amoroso per la donna cantata nei Rerum vulgarium fragmenta sia puro e nobilitante, con una ostinazione che rasenta la spietatezza Agostino svela il carattere triviale e traviante della passione per Laura.
FRANCESCO Almeno questo (sia da ascrivere a gratitudine o a sciocchezza) non voglio tacere: che quel poco che mi vedi, sono per essa; né sarei mai giunto a questo grado, qual che si sia, di nominanza e di gloria, se la tenuissima semente di virtù, che la natura aveva sparso in questo patto, non avesse ella con nobilissimi sentimenti educata. Ella distolse l’animo mio giovinetto da ogni lordura, e lo ritrasse, come si dice, con l’uncino, e lo spinse a mirare in alto. Come non mi sarei trasformato secondo i costumi dell’amata? E per vero non si è trovato mai un maligno così mordace, che toccasse con lacerante dente la fama di lei; che osasse affermare d’avere scorto, non dico negli atti suoi, ma pure in un gesto o in una parola, alcun che di riprensibile, sicché coloro che nulla avevano lasciato intatto, lei risparmiarono ammirati e reverenti. Non è punto strano, dunque, se codesta così alta fama indusse anche in me il desiderio d’una fama più chiara; se attenuò le durissime fatiche con le quali conseguire il vagheggiato intento. Da giovane infatti non altro desideravo che di piacere a lei, proprio a lei sola, che proprio sola a me era piaciuta; e per riuscire a ciò, rinunciando alle lusinghe di mille piaceri, tu ben sai a quanti affanni anzi tempo mi sottoponessi e a quante fatiche. E mi comandi di dimenticare o d’amare più tiepidamente colei che mi ha allontanato dalla schiera volgare; che, essendomi di guida per ogni cammino, mi ha spronato il torpido ingegno e mi ha destato l’animo semisopito?
AGOSTINO Disgraziato! quanto ti sarebbe stato meglio tacere che non aver parlato. È vero che, anche nel tuo silenzio, guardandoti entro avrei scorto il medesimo; ma tuttavia il fatto stesso della tua pertinace affermazione mi muove la nausea e lo sdegno.
FRANCESCO Perché mai?
AGOSTINO Perché pensare il falso è senso di ignoranza, asserire impudemente l’errore è segno di ignoranza insieme e di superbia.
FRANCESCO Qual è la prova ch’io senta o enunci così falsi errori?
AGOSTINO Ma tutto ciò che hai ricordato! e prima di tutto quando dici d’essere ciò che sei in grazia sua. Se con ciò intendi che ti abbia dato ella questo essere, senza dubbio tu menti; se invece che ella non ti abbia permesso di essere da più, allora dici la verità. Ah, che grand’uomo saresti potuto riuscire, se ella con le seduzioni della bellezza non te n’avesse ritratto! Quello che sei, dunque, te l’ha dato la benignità della Natura; ciò che potevi essere te l’ha tolto lei, o piuttosto l’hai gettato via tu, ché ella è innocente. La sua bellezza veramente ti è apparsa così lusinghiera, così dolce, che attraverso gli ardori dell’acceso desiderio e le continue piogge del pianto ha inaridita in te ogni messe che poteva sorgere dalla virtuosa tua semenza nativa. Che ella poi ti abbia trattenuto da ogni atto turpe, te ne vanti a torto; ti ritrasse forse da molti, ma ti ha sospinto in affanni maggiori. Perocché né chi pur ammonendoci di evitare una via lorda di brutture, ci spinga poi in un precipizio; né chi, pur guarendoci da minori piaghe, ci inferisca frattanto alla gola una ferita mortale, sarà da dirsi nostro liberatore piuttosto che nostro uccisore. Così costei, che tu esalti per tua guida, trattenendoti da molte brutture ti ha spinto in uno splendido baratro. Quanto all’averti abituato a mirare all’alto, all’averti allontanato dal volgo, che altro fu se non averti reso suo vagheggiatore e, avvinto alla dolcezza di un solo oggetto, di tutti gli altri spregiatore e pigramente trascurato? che, come sai, è quanto di più molesto c’è nei rapporti umani. […]
FRANCESCO L’agile schermitore fa la finta e dà la botta; io sono impaurito così dalla finta come dalla botta, e già comincio a vacillare gravemente.
AGOSTINO Quanto più gravemente vacilleari, quanto ti avrò inferta una ferita gravissima. Però che costei che esalti, alla quale asserisci di dovere ogni bene, è quella che ti rovina.
FRANCESCO Buon Dio, in qual modo potrò persuadermene?
AGOSTINO Ella ti ha allontanato l’animo dall’amore celeste, ed ha deviato il tuo desiderio dal Creatore alla creatura; che è sempre stata l’unica e più spedita via verso l’errore.
FRANCESCO Non dare, ti prego, una sentenza precipitosa: l’amore di lei giovò, te l’accerto, a farmi amare Iddio.
AGOSTINO Ma invertì l’ordine.
FRANCESCO In che modo?
AGOSTINO Perché mentre tutto il creato deve esser tenuto caro per amore del Creatore, tu al contrario, preso alle grazie di una creatura, hai amato il Creatore non come si conveniva, bensì ammirando in lui l’artefice di quella, quasi non avesse creato nulla di più bello, mentre la venustà corporea è l’ultima delle bellezze.
FRANCESCO Chiamo per testimonio quella ch’è qui presente, e faccio conteste la mia coscienza che, come ho detto dianzi, non ho amato il corpo più che l’animo suo. Il che potrai conoscere da ciò; che quanto più ella è avanzata nell’età, che è la rovina inevitabile della bellezza corporea, tanto più fermo io sono rimasto nel mio pensiero; però che, quantunque il fiore della giovinezza visibilmente appassisce col passare del tempo, cresceva con gli anni la venustà dell’anima, la quale come mi porse principio all’amore così mi ci fece perseverare poi che vi fui entrato. Altrimenti, se mi fossi smarrito dietro il corpo, già da gran pezza sarebbe stato tempo di mutare proposito.
AGOSTINO Mi canzoni? Forse che se quell’animo stesso abitasse in un corpo squallido e rozzo, ti sarebbe del pari piaciuto?
FRANCESCO Non oso dir questo, dacché né l’animo si può scorgere né l’immagine corporea me l’avrebbe fatto sperare tale; ma se apparisse alla vista, amerei senza dubbio la bellezza di un animo anche se avesse un deforme albergo.
AGOSTINO Tu cerchi di puntellarti sulle parole; perché se puoi amare solo ciò che appare alla vista, segno è che amasti il corpo. Né vorrò tuttavia negare che anche l’animo di colei e i costumi abbiano porto esca alle tue fiamme, appunto come il suo nome stesso (secondo che dirò di qui a breve) contribuì non poco, anzi moltissimo, a codesti tuoi furori. Accade infatti in tutte le passioni dell’animo, ma specialmente in questa, che da piccole faville insorgano grandi incendi.
FRANCESCO Veggo a che tu mi sforzi: a confessare cioè con Ovidio «l’animo amai insieme insieme al corpo».
AGOSTINO Ed anche dovrai confessare questo che segue: che né l’uno né l’altro amasti abbastanza temperatamente, né l’uno né l’altro come si conveniva.
FRANCESCO Dovrai mettermi alla tortura prima che l’abbia a confessare.
AGOSTINO E dell’altro ancora: che sei caduto in grandi miserie a cagione di tale amore.
FRANCESCO Codesto, anche se mi metti sul letto di tortura, non ammetterò io mai.
AGOSTINO Anzi, l’una cosa e l’altra spontaneamente e tosto confesserai, se non sdegnerai le mie ragioni e le mie interrogazioni. Di’ dunque: ti ricordi degli anni tuoi puerili? o forse per la turba delle ansie presenti ogni memoria di quell’età ti è svanita?
FRANCESCO Ti accerto che l’infanzia e la puerizia mi stanno innanzi agli occhi, non altrimenti che la giornata di ieri.
AGOSTINO Ti ricordi quanto era grande in quell’età il tuo timor di Dio, quanto il meditare sulla morte, quanto il sentimento religioso, quanto l’amore della costumatezza?
FRANCESCO Ricordo benissimo, e mi dolgo che, crescendo gli anni, le mie virtù siano diminuite.
AGOSTINO Appunto, io ho sempre temuto che quel fiore così precoce venisse estinto dall’aria ghiacciata; ché, se fosse restato integro e illeso, mirabile frutto a suo tempo avrebbe recato.
FRANCESCO Non deviare dal proposito nostro: che ci ha da fare questo con le cose di cui avevamo cominciato a discorrere?
AGOSTINO Te lo dirò. Percorri tacito fra te e te – poiché ti senti integra e fresca la memoria – percorri l’intero tempo dell’esistenza tua, e vedi di ricordare quando accadde in te tanto mutamento di costumi.
FRANCESCO Ecco, come in un batter d’occhi trepidanti, ho ripassato il numero e la serie degli anni miei.
AGOSTINO Che ritrovi, dunque?
FRANCESCO Che la teoria, per così dire, della lettera pitagorica che ho udito spiegare e ho letto, non è vana. Infatti quando, salendo per la retta via, pervenni ancor modesto e morigerato al bivio, e fui comandato di prendere a destra, ecco che – non so se dica incauto o presuntuoso – piegai a sinistra; né mi giovò quello che spesso avevo letto da fanciullo: «Quest’è il luogo dove si divide in due parti la via, che a destra conduce alle mura del grande Dite. Di qui sarà il nostro cammino verso l’Elisio; la sinistra invece reca alle pene dei malvagi e conduce all’empio Tartaro». Purtroppo tali cose, benché le avessi lette già prima, non le ho capite innanzi d’averne fatta esperienza. Da allora dunque, traviato per obliquo e sozzo cammino e spesso volgendomi indietro tra le lagrime, non ho potuto tenere il destro viaggio. E fu quando l’ebbi abbandonato, allora, proprio allora, che accadde quella mutazione de’ miei costumi.
AGOSTINO Ma in quale punto della tua età ciò accadde?
FRANCESCO A metà del fervore dell’adolescenza; e se attendi un momento, facilmente ricorderò quale fosse allora il mio anno di età.
AGOSTINO Non richiedo un calcolo così esatto; ma piuttosto precisa questo: quando ti è apparsa per la prima volta la beltà di quella donna?
FRANCESCO Oh, sì, non lo dimenticherò mai.
AGOSTINO Metti dunque in relazione i due tempi.
FRANCESCO Veramente il suo incontro e il mio traviamento accaddero nello stesso tempo.
AGOSTINO Ho quel che voleva. Credo che tu stupisti, che ti abbacinò gli occhi quell’insolito fulgore. Si dice infatti che lo stupore è dell’amore; di qui trasse quel nostro poeta così esperto della natura il suo: «Stupì al primo vederlo la sidonia Didone», al che segue poi l’espressione: «Arde d’amore Didone». E benché quella, come sai benissimo, sia tutta una narrazione fantastica, pure il poeta, anche inventando, tenne presente la realtà naturale. Ma tu, essendoti stupito all’incontrarla, per quale motivo specialmente piegasti per la sinistra?
FRANCESCO Credo perché appariva più agevole ed paerta; la destra infatti è ardua ed angusta.
AGOSTINO Dunque temesti la fatica. Ma questa donna così egregia, che ti figuri sicurissima guida al cielo, perché quando eri esitante e trepidante non ti diresse e, come si suol fare con gli altri ciechi, non ti tenne per mano, non ti indicò dove avessi a passare?
FRANCESCO Lo fece ella, per quanto poté. E in realtà non agì forse in questo senso quando, immobile ad ogni preghiera, invitta contro ogni seduzione, conservò la sua onestà di donna e, a malgrado della sua e insieme della mia età, a malgrado di molte e varie circostanze che avrebbero potuto piegare anche uno spirito adamantino, rimase inespugnabile e salda? Senza dubbio quel suo animo femminile insegnava a un uomo il dover suo e procurava che a perseguire un ideale di pudore (per usare le parole di Seneca) non mi mancasse né l’esempio né il rimprovero. Alla fine, vistomi avere rotte le redini e in fuga, preferì abbandonarmi anzi che seguirmi.
AGOSTINO Dunque a volte hai desiderato qualche cosa di disonesto: il che dianzi negavi. Ma questo è il solito delirare degli amanti, o dirò meglio dei dementi; di tutti i quali può dirsi: «voglio, non voglio: non voglio, voglio». Che cosa vogliate e non vogliate è ignoto a voi stessi.
FRANCESCO Sono caduto incauto nel laccio. Ma se un tempo io ebbi forse altri desideri, mi ci indussero l’amore e l’età; ora so bene quel che voglio e quel che bramo, ed ho finalmente reso saldo l’animo oscillante. Ella al contraio rimase sempre tenace nel suo proposito e sempre la stessa. Costanza femminile che tanto più ammiro quanto più riconosco; e se altra volta mi dolsi che tale fosse il volere suo, ora ne godo e la ringrazio.
AGOSTINO A uno che è caduto una volta, non è facile si presti fede di nuovo. Tu muterai costumi e modo di vita, innanzi di far credere d’aver mutato l’animo. Sarà forse mitigato e attenuato il tuo fuoco, ma estinto di certo non è. Ma tu che attribuisci tanto merito alla tua Diletta, non avverti quanto condanni te assolvendo essa? Giova riconoscere che ella sia stata santissima, mentre tu ti confessi folle e colpevole; ed anche felicissima, mentre tu, per il suo amore, infelicissimo. Così infatti, se ricordi, ho incominciato.
FRANCESCO Lo ricordo sì, e non oso negare che sia così, e veggo dove a poco a poco mi hai fatto arrivare [5].
Francesco sottolinea come l’amore per Laura sia fonte di elevazione morale e spirituale, sulle orme dell’amore di Dante per Beatrice, mentre Agostino ribatte implacabilmente che si tratta di una passione esclusivamente sensuale, e come tale degna di biasimo. Si ripresenta così quel conflitto tra amore e fede inaugurato da Guido Guinizzelli [6] e superato da Dante, che di Beatrice fa una figura di Cristo creando di fatto una nuova religione, il Beatricianesimo [7], e da Cavalcanti [8]. Non si tratta di un passo indietro, ma di una dimostrazione vivida della natura lacerata e conflittuale di Petrarca, ansioso di raggiungere una concordia, una armonia interiore che di fatto gli è negata. Fino all’ultimo dei suoi giorni egli resta «doppio uomo», così come egli stesso si definisce nell’epistola in cui descrive l’ascesa al Monte Ventoso. Dante riesce ad uscire dalla «selva», raggiunge la beatitudine, mentre Petrarca ne resta intrappolato. E neppure la guida di Agostino dà i frutti sperati. Il Secretum si conclude in un nulla di fatto, senza un approdo definitivo e sicuro. Desideroso di cambiare vita, Francesco sa di non poter sconfiggere se stesso, la propria natura umana, troppo umana.
NOTE
[1] Charles Baudelaire, spleen è vanitas.
[2] Soares-Pessoa, fenomenologia del tedio.
[3] Jean-Paul Sartre, La nausea: l’Assurdità chiave dell’Esistenza.
[4] Francesco Petrarca, Secretum, traduzione di E. Carrara, in Francesco Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti, P. G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, Ricciardi, Milano-Napoli 1955.
[5] Ivi.
[6] Guido Guinizzelli, la cultura al potere.
[7] Vita nuova: dal Vangelo secondo Dante, gloria a te o Beatrice. Prima parte, Vita nuova: dal Vangelo secondo Dante, gloria a te o Beatrice. Seconda parte.