È nel ritiro di Valchiusa che Petrarca può appagare il profondo bisogno di meditazione e raccoglimento. Immerso in un paesaggio idilliaco, lontano dai quotidiani fastidi e dal caos cittadino, libero da quei legami socio-politici che lo disturbano, il poeta riesce a realizzare il suo ideale di vita. La solitudine permette di dedicarsi totalmente alla lettura, alla scrittura e alla meditazione. Quella solitudine che è tra i temi peculiari, più cari a Petrarca, esaltata in particolar modo nel De vita solitaria, di cui riporto un passo tratto dal libro I.
Dimmi, o padre, quanto valuti tu questi beni che sono alla portata di tutti: vivere come vuoi, andare dove vuoi, stare dove vuoi, riposare di primavera sopra un giaciglio di fiori purpurei, d’autunno tra mucchi di foglie cadute; ingannare l’inverno con lo starsene al sole, l’estate con l’ombra e non sentire né l’una né l’altra stagione se non fin dove tu vuoi? Ma in ogni stagione essere padrone di te, e, dovunque ti trovi, vivere con te stesso, lontano dai mali, lontano dall’esempio dei cattivi, senza essere spinto, urtato, influenzato, incalzato; senza essere trascinato a un banchetto mentre preferiresti aver fame, costretto a parlare mentre brameresti star zitto, o salutato in un momento inopportuno, o afferrato e trattenuto agli angoli delle strade e, secondo i dettami di un’educazione grossolana e sciocca, messo tutto il giorno in berlina a osservare chi ti passa dinanzi: chi ti guarda ammirandoti come una rarità, chi arresta il passo quando t’incontra, chi incurvandosi si accosta al compagno e gli sussurra non so che nell’orecchio sommessamente, oppure chiede di te a quelli in cui s’imbatte; chi ti spinge tra la folla dandoti fastidio, o ti cede il passo dandoti ancor più fastidio; chi ti porge la mano, chi se la porta al capo; chi si appresta a farti un lungo discorso quando c’è poco tempo, chi ammicca senza parlare e passa avanti stringendo le labbra. Quanto valuti, infine, non invecchiare tra i fastidi, non premere sempre ed esser premuto fra uno stuolo di salutatori, non aver mozzo il respiro, né sudare in pieno inverno colpito da tristi esalazioni; non disimparare l’umanità in mezzo agli uomini e, infastidito, prendere in odio ogni cosa, gli uomini, gli affari, coloro che ami, te stesso? non dimenticare le cose che ti stanno a cuore per dedicarti a molte che non ti fanno piacere? Senza contravvenire, infine, alle parole dell’Apostolo rivolte ai Romani – «nessuno di noi vive per se stesso, nessuno muore per se stesso: perché se viviamo, viviamo per il Signore, se moriamo, moriamo per il Signore» -, per te stesso vivere o morire, in modo da vivere e morire non per altri che per il Signore? Frattanto, stare come in un posto di vedetta, osservando ai tuoi piedi le vicende e gli affanni degli uomini, e vedere ogni cosa – e particolarmente te stesso – passare con tutto l’universo; e non dover sopportare le molestie di una vecchiaia furtivamente insinuantesi, prima di averne sospettato l’appressarsi (questo accade a tutte le persone indaffarate), ma vederla molto tempo prima, e prepararle un corpo sano e un animo sereno. Sapere che questa non è la vita, ma l’ombra della vita; un albergo, non una casa; una strada, non la patria; una palestra, non una stanza. Non amare ciò che è transitorio e desiderare ciò che rimane: ma finché quello ci è accanto, sopportarlo in pace. Ricordar sempre di essere mortali, cui tuttavia è stata assicurata l’immortalità. Far andare indietro la memoria, vagabondare con l’anima per tutti i tempi, per tutti i luoghi; fermarsi qua e là, e parlare con tutti quelli che furono uomini illustri; dimenticare così gli autori di tutti i mali che ci sono accanto, talvolta anche noi stessi, e spinger l’animo tra le cose celesti innalzandolo al di sopra di sé; meditare su ciò che lì accade, accendere con la meditazione il desiderio, ed esortare per converso te stesso, accostando al tuo cuore già in fiamme le fiaccole, per così dire, delle parole ardenti. È questo un frutto – e non è l’ultimo – della vita solitaria: chi non l’ha gustato non l’intende. Frattanto – per non tacere di occupazioni più comuni – dedicarsi alla lettura e alla scrittura, alternando l’una come riposo dell’altra, leggere ciò che scrissero gli antichi, scrivere ciò che leggeranno i posteri, a questi almeno, se a quelli non possiamo, mostrare la gratitudine dell’animo nostro per il dono delle lettere ricevuto dagli antichi; e verso gli antichi stessi non essere ingrati nei limiti che ci sono consentiti, ma render noti i loro nomi se sconosciuti, farli ritornare in onore se caduti in dimenticanza, trarli fuori dalle macerie del tempo, tramandarli alle generazioni dei pronipoti come degni di rispetto, averli nel cuore, averli sulle labbra come una dolce cosa; in tutti i modi insomma, amandoli, ricordandoli, esaltandoli, render loro un tributo di riconoscenza, se non proporzionato, certo dovuto ai loro meriti [1].
La solitudine diviene una condizione ideale, la sola condizione in cui l’uomo possa realizzare le sue più elevate aspirazioni. Petrarca contrappone ad essa la vita cittadina, la quale costringe invece l’uomo a mostrarsi nella sua veste più meschina, in un’atmosfera di inautenticità che Petrarca rappresenta con grande efficacia. Lontano dai fastidi, dai compromessi e dai sotterfugi cittadini, l’uomo può finalmente ritrovare se stesso e avvicinarsi a Dio. La solitudine gli permette di osservare ciò che accade da un punto di vista privilegiato e facilita l’attività letteraria («leggere ciò che scrissero gli antichi, scrivere ciò che leggeranno i posteri»). E in questo passo la scrittura, più che attività creativa, è intesa da Petrarca come strumento per tramandare e mantenere viva la fiamma degli scrittori antichi: «e verso gli antichi stessi non essere ingrati nei limiti che ci sono consentiti, ma render noti i loro nomi se sconosciuti, farli ritornare in onore se caduti in dimenticanza, trarli fuori dalle macerie del tempo, tramandarli alle generazioni dei pronipoti come degni di rispetto, averli nel cuore, averli sulle labbra come una dolce cosa; in tutti i modi insomma, amandoli, ricordandoli, esaltandoli, render loro un tributo di riconoscenza, se non proporzionato, certo dovuto ai loro meriti». Sono righe fondamentali, che racchiudono il senso di un’esistenza votata alla Cultura, l’esistenza di Francesco Petrarca e di tutti quelli che, anche e soprattutto in epoche desertiche come la nostra, non si limitano ad adorare delle ceneri, ma alimentano il fuoco.
Petrarca è troppo umano per accontentarsi dell’ideale otium letterario di cui pure tesse le lodi come se non ci fosse bisogno d’altro. Egli è tormentato da un intenso desiderio di gloria, appagato dall’incoronazione poetica, avvenuta a Roma, in Campidoglio, nel 1341. Ma neanche dopo questo straordinario riconoscimento Petrarca trova pace. Esplode infatti quella crisi religiosa da sempre latente. La goccia che fa traboccare il vaso è l’improvvisa decisione del fratello Gherardo di ritirarsi, nel 1343, nella certosa di Montrieux. Il gesto di Gherardo, cui Petrarca era legatissimo, lo colpisce come un ammonimento, o peggio, come un’accusa, e il rimorso viene alimentato dalla nascita, nello stesso anno, della figlia Francesca. Gli ordini minori, che pure non implicavano la cura delle anime, obbligavano al celibato e alla castità, e la nascita della figlia rappresenta l’incapacità del poeta di mettere in pratica quei propositi di purezza e integrità che pure colloca ai vertici della propria esperienza esistenziale. Si ricordi quanto scrive Petrarca nell’epistola dedicata all’episodio dell’ascesa al Monte Ventoso: «Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza» [2]. E così Petrarca oscilla come un pendolo tra il desiderio di una purificazione che gli permetta di eguagliare i maestri stoici e i padri della Chiesa, e tra l’incapacità di tradurre tale desiderio in realtà. E il poeta non riesce in fondo a staccarsi neppure dalla propria epoca, che tanto critica e di cui mostra gli aspetti più bassi. Attivo politicamente, Petrarca si impegna per il ritorno a Roma del pontefice, esortando la Chiesa a recuperare quella purezza originaria perduta sempre di più nel corso dei secoli – in tal senso, lo spostamento della sede pontificia da Roma ad Avignone rappresenta il culmine di questo processo di degradazione della Chiesa, stigmatizzato con forza da Dante nella visione del Paradiso terrestre -; si rivolge all’imperatore Carlo IV di Boemia affinché scenda in Italia per ristabilire il potere imperiale; si entusiasma per l’impresa tentata da Cola di Rienzo.
Petrarca, non potendone più della corte papale avignonese, malata di corruzione, lascia la città e il servizio presso Giovanni Colonna nel 1347, e torna in Italia. Nel 1350, a Firenze, conosce Boccaccio; nel 1353 si stabilisce a Milano, dove è costretto a fuggire nel 1361 a causa della peste, rifugiandosi a Venezia, per poi passare a Padova, nel 1367. I suoi ultimi anni li passa ad Arquà, in compagnia della figlia Francesca, dedito alle due attività a lui più care, studiare e scrivere. Muore infine nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, chino, secondo la leggenda, su un codice di Virgilio, proprio come si era augurato in una lettera all’amico Boccaccio.
In conclusione, propongo una lettera tratta dalle Familiari e indirizzata a Giovanni Colonna. In questa epistola Petrarca, con toni aspri e velenosi, sottolinea tutta l’incolmabile distanza tra gli antichi e i suoi contemporanei, che definisce senza mezzi termini cadaveri, «cadaveri che, sì, respirano, ma sono già putrefatti e deformi». Secoli dopo con queste stesse parole Carlo Michelstaedter, in un articolo dedicato a Tolstoj, definirà i suoi di contemporanei [3]. Sintonia di persuasi.
Faccio grande uso di esempi, ma illustri, veritieri e, se non m’inganno, tali in cui trovi autorità e piacere. Dicono che potrei usarne con più parsimonia. È vero, e potrei anche farne a meno del tutto, come è vero che potrei addirittura tacere e sarebbe forse meglio. Ma in tanti mali del mondo, in così grandi vergogne, è difficile tacere; mi pare d’aver dato sufficiente prova di pazienza se sino ad oggi non mi sono accinto alla satira, tanto più che da molto prima di questi tempi mostruosi ho visto scritto: «è difficile non scrivere satire». Molto io vado parlando, molto anzi scrivo, e non tanto per giovare alla mia età, le cui sventure sono senza speranza, quanto per sfogare me stesso e consolarmi con gli scritti. Ma se mi si chiede la ragione perché talora abbondi d’esempi e sembri sin troppo compiacermene, eccola: giudico il lettore alla mia stessa stregua. Nulla mi commuove quanto gli esempi degli uomini illustri. È infatti cosa utile levarsi in alto, mettere l’animo alla prova per vedere se sia forte, generoso, indomabile e costante nei riguardi del destino, o se invece abbia mentito a se stesso. Oltre che con l’esperienza, che è infallibile maestra d’ogni cosa, ciò si consegue perfettamente con l’accostare il proprio animo a quelli cui egli ardentemente desidera essere somigliante. E quindi, come io son grato a tutti coloro che leggo se mi hanno spesso offerto, con i loro esempi, la possibilità di questo esperimento, così io spero d’essere a mia volta ringraziato da coloro che mi leggeranno. Può darsi che in questa mia speranza mi inganni; non sei ingannato tu certo in questo mio renderti ragione, che è la pura verità. C’è poi un altro motivo, ed è che io scrivo per me e che, mentre scrivo, desidero intrattenermi con i nostri maggiori nell’unico modo che posso; queste persone che un avverso destino mi ha dato compagne di vita, le dimentico con grandissimo piacere e pongo anzi ogni mia attenzione per fuggire i contemporanei e per seguire gli antichi. Come infatti la vista di quelli mi irrita profondamente, così la memoria di questi, le loro magnifiche imprese, i loro nomi illustri mi riempiono di piacere incredibile e inestimabile, e se queste cose fossero note a tutti, molti certo stupirebbero perché io tanto mi compiaccia dello stare con i morti piuttosto che con i vivi. Ai quali risponderebbe la verità che vivono coloro che morirono con gloria e virtù; quanto a costoro che se la spassano tra mollezze e falsi piaceri, rammolliti nel sonno e nella lussuria, pesanti di vino, anche se sembrano vivere, sono soltanto cadaveri che, sì, respirano, ma sono già putrefatti e deformi. E rimanga pure questa eterna lite tra i dotti e gli ignoranti; io seguirò il mio proposito. Ecco dunque ciò che vorrei sia risposto alla tua domanda e allo stupore di alcuni che, vicino a te, si sono meravigliati perché io abbondi negli esempi degli uomini illustri: perché spero che possano giovare agli altri, e perché so che hanno sicuramente giovato a me che scrivo e che leggo [4].
NOTE
[1] Francesco Petrarca, De vita solitaria, traduzione di A. Bufano, in Francesco Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti, P. G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, Ricciardi, Milano-Napoli 1955.
[2] Per la lettura integrale della lettera rimando all’articolo Francesco Petrarca, il «doppio uomo». Prima parte.
[3] Per la lettura e l’analisi dell’articolo dello scrittore e pensatore goriziano rimando al capitolo dello studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter: Michelstaedter critico. D’Annunzio e Tolstoj.
[4] Francesco Petrarca, Le familiari, traduzione di U. Dotti, Argalia, Urbino 1974.