Civilisation against Barbarism

«Non avevo una chiara idea di cosa Civilisation potesse significare, se non che fosse sempre preferibile alla Barbarie, e che fosse il momento di affermarlo.»

Così Kenneth Clark (1903-1983), forse il più celebre storico dell’arte della sua generazione, su Civilisation, preziosa creatura televisiva andata in onda sulla BBC nell’Anno del Signore 1969, di cui fu creatore e unico protagonista.

Stavolta sorvoleremo agilmente sulla figura storica e sulle sue vicissitudini personali, sulla formazione dell’individuo. Daremo tuttavia pochi e stretti dati fondamentali per favorire un’inquadratura doverosa del genio cui stiamo facendo riferimento: inizia il suo quieto percorso come assistente di Bernard Berenson a Firenze, città in cui intrattiene anche un’amicizia con un certo Aby Warburg, torna nella natia Inghilterra e a soli trentun’anni viene nominato direttore della National Gallery di Londra. Non pago, è fra i fondatori della National Opera del Covent Garden e sovraintendente della Galleria Regia dei Dipinti.
Dotato di una personalità dove signorilità ed eleganza innate si spiegano nel mondo esteriore tramite una pacatezza che definire british sarebbe definitivamente irrisorio, viene più volte incaricato di ricoprire incarichi di agente segreto. Il commento più personale e stringente che ci ha lasciato a proposito di queste improbabili avventure è lo stesso che lascerebbe un ingegnere in pensione col vezzo delle lettere, al bancone di un bar di provincia durante una scampagnata domenicale nel post-Eucarestia: «Quando si è agenti segreti, la cosa davvero curiosa è che nessuno ti ritiene tale.» Il conto, grazie, e Dio salvi la Regina.

Kenneth Clark deve forse la sua vasta notorietà nel grande pubblico non tanto ai suoi altissimi studi sull’arte gotica o sul Rinascimento italiano, quanto proprio alle tredici puntate di Civilisation: antesignana trasmissione di divulgazione culturale dedicata alle civiltà occidentali, con buona pace della famiglia Angela e di tutti i suoi fan, fu trasmessa in tutto il mondo. La fortuna della trasmissione televisiva (cui seguì una omonima pubblicazione cartacea) fu causata non solo dallo spessore dei contenuti e dalla sobria accuratezza della divulgazione, ma anche e soprattutto dalla figura stessa del suo Deus Ex Machina. Ne ebbe a dire Cyril Conolly, critico letterario e scrittore: «Una divinità egizia scolpita nell’ossidiana.»

Ciò detto, quello che ora ci interessa sono gli ultimi cinque minuti e cinquantaquattro secondi dell’ultima puntata andata in onda, Heroic Materialism. È bene ricordare che è ancora il 1969.

«A questo punto, mi rivelo per ciò che sono veramente, nei miei veri colori. (…) Tengo fede ad un certo numero di convincimenti che sono stati ripudiati dai più vividi intelletti del nostro tempo: io credo che l’ordine sia migliore del caos, creare preferibile al distruggere. Preferisco la gentilezza alla violenza, il perdono alla vendetta. Sopra ogni cosa, penso che la conoscenza sia preferibile all’ignoranza, e sono sicuro che l’empatia umana sia più importante di ogni ideologia.»

Questo l’inizio del messaggio che Clark ci ha lasciato. Uno dei messaggi più forti, eloquenti ed importanti che uno Storico dell’Arte abbia formulato a beneficio della Civiltà tutta, ma sopratutto di un certo modo di intenderla. In un momento storico come l’attuale, queste parole sono più che mai valide e non possono – non devono – essere trascurate. Quel Centro mancante che Clark aveva immediatamente mirato nell’immenso campo visivo della Società è oggi fastidiosamente tangibile, ed è ancor più necessario ricordare a tutti che

«È la mancanza di autostima a distruggere intere Civiltà: possiamo distruggere noi stessi con il cinismo e la disillusione tanto quanto effettivamente possono le bombe.»

Da quasi un secolo, ormai, è stata constata una cosiddetta “morte dell’Arte”, e non troppo a malincuore.
Le provocazioni più o meno fini a sé stesse, le assenze di continuità, i mercati, i fenomeni junk e le grandi discontinuità: questa la parte più visibile delle Arti Visive nell’Era più Visual che sia mai stata.
Non stiamo prendendo parte ad una critica faziosa sulle specificità identitarie dell’attuale Stato dell’Arte. Ogni sua manifestazione è necessaria, ogni atto va ponderato, analizzato, ragionato e riformulato perché tutti ne beneficino: questa l’unica missione di chi ama l’Arte.

Occhi fissi all’orizzonte, soffermandosi sulle preziose inezie, con la sola sostenuta idea del ritorno alla Civiltà.

Articolo a cura di Marco Zindato.
Fonti: Udo Kultermann, “Storia della Storia dell’Arte”, Neri Pozza Editore, 1997.

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