L’ottavo cerchio dell’Inferno, detto Malebolge, ovvero male sacche o fosse, è diviso in dieci bolge concentriche, all’interno delle quali sono puniti i fraudolenti. Nella prima bolgia Dante e Virgilio incontrano i ruffiani e i seduttori, e tra questi vi è il mitico Giasone, presentato come il superbo Capaneo:
Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene! (XVIII, vv. 83-85)
Rispetto alla vana e sostanzialmente falsa fierezza del bestemmiatore, quella di Giasone è un’autentica e mirabile fierezza, paragonabile a quella di Farinata. Nel subire la pena, o meglio nel non-subire la pena, Giasone mantiene intatta, e anzi accresce, visto il luogo in cui è costretto in eterno, quella regalità che lo aveva caratterizzato in vita.
Nella seconda bolgia i poeti si imbattono nei lusingatori, ed è repentino, brusco il mutamento di stile rispetto ai versi dedicati a Giasone; la lingua si inasprisce e si involgarisce:
Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’arco spalle.
Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.
Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
già t’ ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti».
Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m’ hanno sommerso le lusinghe
ond’io non ebbi mai la lingua stucca».
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.
E quinci sian le nostre viste sazie» (XVIII, vv. 100-136).
Dal fiero e regale Giasone, in un attimo, al merdoso Alessio Interminelli e alla puttana Taide.
Nella terza bolgia Dante e Virgilio trovano i simoniaci, conficcati a testa in giù all’interno di profonde fosse. I poeti parlano con papa Niccolò III, che predice l’eterna dannazione dei suoi successori, Bonifacio VIII e Clemente V. Il canto XIX rappresenta il culmine della polemica anticlericale di Dante, che inveisce contro i pontefici simoniaci – discendenti di quel Simon mago che aveva tentato di convincere Pietro a farsi pagare per esercitare lo Spirito santo -: «Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento», grida Dante tremante d’ira, e questo suo grido carico di rabbia e sdegno sembra sentirlo riecheggiare ancora oggi con la stessa forza. Qui Dante si fa Cristo e sbaraglia il tempio.

Nella quarta bolgia i poeti trovano gli indovini e i maghi, rovesciati, nella quinta i barattieri, immersi nella pece bollente sotto lo sguardo vigile dei Malebranche, questi giotteschi saltimbanchi del male guidati da Malacoda. Qui un Anziano di Lucca viene dilaniato dai demoni, che lo agguantano e squartano e attuffano nella pece con i loro roncigli. Malacoda nomina uno per uno tutti i componenti della diabolica banda: Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, «a cui di bocca uscia / d’ogne parte una sanna come a porco», Graffiacane, Farfarello e Rubicante. Il canto XXI si conclude con il celebre verso «ed elli avea del cul fatto trombetta», il triviale e osceno segnale di partenza di Barbariccia. I poeti giungono nella quinta bolgia, accompagnati dai Malebranche, che agguantano il dannato Ciampolo Navarrese, il quale riesce però a fuggire, suscitando l’ira dei diavoli, che si azzuffano tra di loro. Dante e Virgilio ne approfittano e scendono da soli nella sesta bolgia, tra gli ipocriti, dove giace, crocifisso a terra, Caifa, il sommo sacerdote responsabile della morte di Cristo. Nella settima bolgia si trova la «tristissima copia» dei serpenti, che tormentano i ladri, inseguendoli, catturandoli, mordendoli, incenerendoli. Tra questi è il superbo, ancor più superbo di Capaneo, Vanni Fucci, che si vendica su Dante predicendogli la sconfitta dei Guelfi Bianchi in quel di Pistoia. I poeti assistono alle incredibili metamorfosi, con i dannati che divengono serpenti e viceversa, in una violenta spirale di insensatezza che dà l’esatta misura dell’orrore infernale, di cui persino Dante si scusa:
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue.
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era:
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more.
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno».
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.
Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.
Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti.
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela,
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’io, carpon per questo calle».
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra (XXV, vv. 49-144).
E giungiamo così nel secondo dei tre grandi canti infernali, il XXVI. Nell’ottava bolgia, luogo di dannazione dei consiglieri fraudolenti, Dante e Virgilio incontrano Ulisse e Diomede. Tale è il desiderio di Dante di parlare con Ulisse che prega e riprega Virgilio affinché ciò avvenga; un desiderio ardente, che sfocia quasi nella brama incontenibile del vizioso:
S’ei posson dentro da quelle faville
parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego! (XXVI, vv. 64-69)

Fingendosi Omero, secondo l’interpretazione più suggestiva, avanzata da Tasso, Virgilio attira a sé la fiamma dal doppio «corno» e la invita a raccontare quell’ultimo «folle volo» in cui trovò la morte e che causò l’eterna dannazione:
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (XXVI, vv. 85-142).
Ulisse si è spinto oltre, troppo oltre, là dove non è consentito, pagando a carissimo prezzo la sua incontenibile tracotanza. E nella celebre terzina «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza», Ulisse racchiude il senso più profondo dell’essere umano, la sua responsabilità e il suo peso, la sua grandezza e il suo limite. È in questa meravigliosa e memorabile sentenza che affonda le radici uno dei miti più caratterizzanti dell’umanità, il mito del Faust, e tutte le opere ad esso ispirate, da Goethe a Mann e Bulgakov [1]. In Ad Angelo Mai Leopardi scrive che «conosciuto il mondo / non cresce, anzi si scema»: ebbene, Ulisse provò in prima persona che a scemare non è il solo mondo, ma la vita stessa. La storia della letteratura italiana si apre e si chiude nel segno di Ulisse: si apre con questo Canto XXVI dell’Inferno di Dante, e con questo stesso canto si chiude, con Se questo è un uomo di Primo Levi [2], l’ultima grande opera della letteratura italiana, all’interno della quale la vicenda dell’Ulisse dantesco si erge a supremo emblema della condizione dei prigionieri nei campi di sterminio.
Alla fine del racconto del tracotante eroe restano l’immagine del naufragio e il silenzio, un silenzio ideale, perfetto. Inghiottito il «legno» e la sua ciurma, il mare si richiude e placa. L’«altrui» volontà è compiuta.
Dopo Ulisse un’altra fiamma, nell’ottava bolgia, prende la parola, la fiamma di Guido da Montefeltro, che narra dell’inganno tesogli da Bonifacio VIII, «Lo principe d’i novi Farisei», per espugnare Palestrina, roccaforte dei Colonna, appoggiati, tra gli altri, anche dal grande Iacopone da Todi [3]. Il pontefice promise a Guido un’assoluzione che, proprio al momento del suo trapasso, si rivelò illecita. Francesco accoglie l’anima, ma un nero cherubino la rivendica:
Francesco venne poi, com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: «Non portar; non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente» (XVII, vv. 112-120).

La nona bolgia è un vero e proprio mattatoio. I seminatori di discordie e gli scismatici vengono sventrati da un demonio, le loro membra si spargono ovunque, e non è possibile eguagliare, neppure immaginando tutti i campi di battaglia, la lordura di questa bolgia, luogo di mutilazioni sistematiche. In particolar modo, i poeti vedono Maometto, e si tratta di uno dei momenti più cruenti dell’Inferno:
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!» (XXVIII, vv. 22-31)

Il gesto di Maometto di spalancarsi il petto e pronunciare, nonostante tutto, il proprio, nome, è nelle intenzioni una manifestazione di orgoglio, ma non si tratta altro che di «un infelice che avrebbe qualche velleità di essere Capaneo, e non riesce nemmeno ad essere Vanni Fucci» [4]. Il Canto XXVIII si conclude con la vista del poeta Bertram dal Bornio, il quale, decapitato, brandisce la propria testa come una lanterna. Un canto capace di far arrossire i più grandi maestri del genere splatter.
La decima bolgia è il luogo di punizione di falsari di metalli e alchimisti, tormentati dalla lebbra e dalla scabbia. Vi sono poi i falsificatori della propria persona, della moneta e i bugiardi. Lasciata la decima bolgia, i poeti si avvicinano al pozzo di Cocito, attorno al quale si trovano i giganti, tra cui Anteo, che depone Dante e Virgilio nel fondo del pozzo, dove trovano posto i traditori. Nella prima zona, conficcati come tutti i traditori nel ghiaccio di Cocito, detta Caina, stanno i traditori dei propri parenti, nella seconda zona, detta Antenora, i traditori politici. Tra questi vi è Bocca degli Abati, che tradì a Montaperti e con il quale Dante ha un aspro confronto. Il poeta lo afferra per la collottola, strappandogli i capelli. Lasciato Bocca, Dante vede due dannati conficcati nella stessa buca ghiacciata, uno con i denti conficcati sulla testa dell’altro:
Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca (XXXII, vv. 124-129).

Si tratta ovviamente dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini e del conte Ugolino della Gherardesca, che racconta la propria tragica fine:
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.
Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti» (XXXIII, vv. 1-78).
Il lamento di Gaddo, «Padre mio, ché non m’aiuti?», ricorda molto il grido di Cristo crocifisso, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», analogia confermata dal richiamo alla croce di Dante stesso nella sua dura invettiva contro Pisa (v. 87).
L’Inferno è frutto di una visione pessimistica, a tratti apocalittica della realtà da parte dell’autore («Lo mondo è ben così tutto diserto / d’ogne virtute, come tu mi sone, / e di malizia gravido e coverto», Purg., XVI, vv. 58-60). Homo homini lupus, Dante lo sa, lo ha provato sulla propria pelle ed è su questo principio che si fonda la prima cantica. Dante rappresenta un mondo crudele e caotico – perché «le onde della storia battono fino nell’aldilà», come scrive Auerbach [5] -, così come ha avuto modo di osservarlo a causa dell’esilio e il suo vagare, errare per le varie regioni italiane del centro-nord. L’Inferno è il mondo per come gli appare, il Purgatorio è l’aspirazione a un mondo migliore, il Paradiso è l’utopia di un mondo migliore, sotto la guida di un Impero che non esiste più e di una Chiesa che si è fatta ormai per sempre stato. Ebbene, tra tutti i racconti contenuti nella prima cantica, quello del conte Ugolino è il più emblematico dell’umana degenerazione. E la voce di Dante, il cui scopo con la Commedia era risollevare il genere umano, resta una vox clamantes in deserto. Egli auspicava una retromarcia impossibile, inattuale, che sfocia nell’utopia appunto.
I poeti escono dall’Inferno, da questa cloaca di esclusi, che conserva un luogo lieto nel solo Limbo, dopo aver scalato l’immenso Lucifero, che sgranocchia Giuda, Bruto e Cassio nelle sue tre bocche. Grazie ad un completo rovesciamento, escono «a riveder le stelle».
NOTE
[1] Per un approfondimento sul romanzo Il maestro e Margherita di Bulgakov rimando agli articoli Il Maestro e Margherita: la ri-scrittura del mito. Prima parte; Il Maestro e Margherita: la ri-scrittura del mito. Seconda parte.
[2] Per un approfondimento sul libro di Levi rimando all’articolo Primo Levi, Se questo è un uomo.
[3] Per un approfondimento sul religioso e poeta rimando all’articolo Iacopone da Todi – Il frate ribelle.
[4] Vittorio Rossi, Saggi e discorsi su Dante, Firenze 1930, p. 162.
[5] Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it. di A. Romagnoli e H. Hinterhäuser, Einaudi, Torino 1964.