William-Adolphe Bouguereau, Dante e Virgilio all'Inferno, 1850

Sulle orme di Dante: in cammino per il «doloroso regno». Prima parte

Smarrito nella «selva oscura» il trentacinquenne Dante giunge, al mattino, alle pendici d’un colle illuminato dal sole, quel sole che «porta significatione» di Dio come scrive san Francesco nel Cantico [1], ma tre fiere – una lonza, un leone e una lupa in ordine di apparizione – ne ostacolano il cammino, ricacciandolo indietro, verso la «selva selvaggia e aspra e forte». Provvidenziale l’intervento di Virgilio, che si presenta così:

Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto (I, vv. 67-75).

Tra tutti gli innumerevoli personaggi della Commedia, un’intera umanità dalla Genesi al XIV secolo d.C., Virgilio è senza dubbio il più malinconico. Pur nella sua ineguagliabile grandezza gli è negato il Paradiso, gli è negata l’eterna beatitudine. Nato «nel tempo de li dèi falsi e bugiardi», come tutti gli altri «che son sospesi» è condannato per sempre ad anelare invano a quel Dio che non poté conoscere, e di cui pure ebbe il presentimento, preparando ai pagani la via alla vera fede. E questo sentimento struggente, impossibile da appagare, caratterizza da subito le parole di Virgilio, esplicitandosi mestamente in chiusura del primo canto:

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna (I, vv. 121-126).

Dante espone all’eccezionale guida tutti i dubbi che lo affliggono in vista dell’ardua impresa: «Io non Enëa, io non Paulo sono», dichiara a Virgilio. Ma si tratta di una negazione-affermazione; Dante afferma la propria individualità – si noti la doppia ripetizione del pronome di prima persona -, e ciò che ad una prima lettura appare come una dichiarazione d’umiltà, o meglio, d’inferiorità, finisce per imporsi come una potente manifestazione di consapevolezza della propria, altissima dignità morale, pari a quella dell’eroe e dell’apostolo. A confermare la straordinarietà del Dante uomo interviene il racconto di Virgilio, che spiega come il viaggio nell’oltretomba sia ordine divino, dovuto all’interesse di ben tre donne benedette: la Vergine, santa Lucia e Beatrice. Racconto che si conclude con un vibrante rimprovero da parte della guida, in cui riecheggia sottofondo, forse, una nota d’invidia: il destino di Virgilio è segnato, ed è amaro, il destino di Dante è invece in divenire, e l’intervento delle tre donne benedette lo rende certamente, e in largo anticipo, lieto:

Dunque: che è perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,

poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette? (II, vv. 121-126)

C’è una perfetta corrispondenza tra i versi 121-126 del primo e del secondo canto, a sottolineare la distanza dei destini riservati a Virgilio e Dante, drammatico il primo, lieto il secondo.

Inizia dunque il viaggio e i poeti varcano la porta dell’inferno, sulla cui sommità è scolpita la terribile scritta-monito che mette subito in risalto le due componenti fondamentali del regno infernale, l’eternità e il dolore:

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate (III, vv. 1-9).

Suoni spaventosi risuonano nella nera atmosfera infernale e colpiscono l’orecchio di Dante. Suoni terribili, che si ripetono ossessivamente e rappresentano la colonna sonora della disperazione:

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira (III, vv. 22-30).

Versi straordinari, che costituiscono inoltre una dichiarazione di poetica, annunciando una delle caratteristiche principali della Commedia e, soprattutto, dell’Inferno: il plurilinguismo [2].

Ci troviamo nel vestibolo infernale, dove sono puniti gli ignavi, il cui destino è forse il più duro tra tutti i dannati:

Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte (III, vv. 46-48).

Gli ignavi, «a Dio spiacenti e a’ nemici sui», non sono ammessi neppure all’Inferno. Tale è la loro insignificanza, che non sono neppure degni d’attenzione: «non ragionam di lor, ma guarda e passa», dichiara sprezzante Virgilio, con Dante che rende comunque la propria testimonianza, ma senza fare nomi, limitandosi ad additare Celestino V come colui «che fece per viltade il gran rifiuto».

I poeti giungono presso la riva del fiume Acheronte e si imbattono nel memorabile nocchiero Caronte, «bianco per antico pelo» e «con occhi di bragia». I dannati attendono,

e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio (III, vv. 124-126).

Una terzina che rende con straordinaria efficacia lo stato d’animo dei dannati, talmente angosciati da desiderare la pena. Dante esprime tutta l’inquietudine che caratterizza una tale attesa. Un terremoto improvviso scuote la terra, seguito da un lampo. Dante perde i sensi e, misteriosamente, avviene il passaggio dell’Acheronte.

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514.

Nel Limbo si trovano le anime dei bambini morti senza aver ricevuto il sacramento del battesimo e gli uomini virtuosi vissuti prima della venuta di Cristo. È questo il luogo in cui dimora Virgilio, che sottolinea come queste anime magnanime, e lui stesso, vivano nel desiderio di Dio, consapevoli però che questo ardente desiderio non può e non potrà mai realizzarsi: «sanza speme vivemo in disio». Il Limbo non è luogo di terribili pene fisiche, ma in esso non vi è certo letizia. È la malinconia a regnare sovrana, malinconia espressa in quei sospiri «che l’aura etterna facevan tremare». Se dovessi indicare un’immagine artistica corrispondente alla condizione delle anime abitanti del Limbo, la scelta ricadrebbe sulla celebre incisione Melencolia I di Albrecht Dürer. Dante incontra Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, ad essi si unisce e con essi discorre, «sesto tra cotanto senno», e vede un «nobile castello», dimora degli «spiriti magni»: Enea, Cesare, Socrate, Platone, Aristotele, Orfeo.

I poeti si imbattono nel giudice Minosse e, scesi nel secondo cerchio, nei lussuriosi, sbattuti da una perpetua bufera. Dante ascolta da Francesca da Rimini, avvinghiata a Paolo Malatesta, la sua celebre storia e sviene a causa della fortissima pietà per i due giovani sfortunati. Il Canto V è tra i più celebri dell’intera Commedia, perché ammantato di quel fascino romantico che non era certo nelle intenzioni di Dante trasmettere – impegnato, tra le altre cose, in un’aspra polemica contro il romanzo francese, licenzioso e dannoso -, ma di cui il lettore moderno e postmoderno non sanno fare a meno. In ogni caso, bellissimo il momento in cui Francesca accomuna a sé Virgilio, in un ideale sodalizio malinconico che trascende spazio e tempo:

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore (V, vv. 121-123).

Dopo essere svenuto per il prepotente sentimento di pietà – ricordo che Foscolo definì la pietà «l’unica musa» del Canto V -, Dante riprende conoscenza e si trova nel terzo cerchio, luogo di punizione dei golosi, sepolti da una sudicia pioggia e dilaniati da Cerbero. Tra questi è il fiorentino Ciacco, che predice a Dante il trionfo dei Guelfi Neri sui Bianchi. Il Canto VII si apre con quello che può essere considerato il verso per eccellenza dell’Inferno dantesco. «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», esclama con tono rauco e cupo Pluto, custode del quarto cerchio, dove sono puniti gli avari e i prodighi. Quindi i poeti scendono nel quinto cerchio e giungono alla palude dello Stige, nella quale sono conficcati gli iracondi e gli accidiosi. Flegiàs traghetta Dante e Virgilio, che nella «morta gora» si imbattono in Filippo Argenti, e approdano alle porte della città di Dite, dove fanno i conti con l’opposizione dei demoni. Solo l’intervento di un messo celeste permette ai poeti di entrare in Dite. Nel sesto cerchio, all’interno di sepolcri infuocati, stanno gli eretici. Qui Dante incontra il fiero Farinata degli Uberti, che si erge «com’avesse l’inferno a gran dispitto», capo ghibellino che gli annuncia il futuro esilio, e Cavalcante Cavalcanti, il padre di Guido [3], il quale, a causa di un equivoco, crede il figlio morto e precipita disperato nell’avello. Dopo una sosta presso il sepolcro di papa Anastasio, i poeti scendono nel settimo cerchio per una frana custodita dal Minotauro, frana causata dal terremoto che immediatamente seguì la morte di Cristo. Nel primo girone del settimo cerchio sono puniti i violenti contro il prossimo, immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente sorvegliato dai Centauri. E proprio un centauro, Nesso, accompagna Dante e Virgilio nel secondo girone. Siamo nel Canto XIII, il primo dei tre maggiori canti dell’Inferno – gli altri due sono il XXVI e il XXXIII, dove compaiono, rispettivamente, le memorabili figure di Ulisse e Ugolino -, e i poeti entrano nella selva dei suicidi, dove «le brutte Arpie lor nidi fanno»:

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco (XIII, vv. 4-6).

Risuonano ovunque lamenti, ma Dante non vede nessuno. Allora Virgilio lo esorta a spezzare una «fraschetta». Straordinario ciò che accade:

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi» (XIII, vv. 31-39).

Gustave Doré, illustrazione del canto XIII dell’Inferno.

Il dannato rimprovera Dante; condanna il suo gesto crudele, ignorandone il vero motivo, e dal ramo spezzato fuoriescono «insieme» parole e sangue. Interviene Virgilio, egli stesso dispiaciuto, a spiegare le ragioni dell’aggressione. Il dannato è Pier delle Vigne, gran cancelliere dell’imperatore Federico II di Svevia, illustre esponente della Magna Curia. Vittima dell’invidia cortigiana, preferì uccidersi e farsi «ingiusto» piuttosto che subire le umiliazioni successive alla diffamazione. Bellissimi i versi in cui Pier delle Vigne racconta il processo di punizione e il destino che attende i suicidi dopo il Giudizio universale. A tutti gli altri dannati verrà restituito il corpo – e allora sì che le punizioni raggiungeranno la perfezione -, ma non a loro. Il suicida, che ebbe così in disprezzo la vita da privarsene per sua stessa mano, vedrà il suo corpo penzolare, appeso ai rami della selva:

Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta (XIII, vv. 94-108).

Il canto si conclude con la caccia delle inferocite e affamate cagne demoniache, che sbranano lo scialacquatore Giacomo da Sant’Andrea, e con il lamento di un anonimo fiorentino suicidatosi impiccandosi. Si tratta di uno dei canti più drammatici dell’Inferno, e non può essere altrimenti, trattandosi del luogo dedicato a coloro che in vita si sono macchiati dell’atto drammatico per eccellenza: il suicidio.

Nel terzo girone del settimo cerchio Dante e Virgilio si imbattono nei violenti contro Dio, i bestemmiatori, puniti in una distesa sabbiosa su cui piove fuoco, e tra questi è Capaneo, che si distingue per un particolare sdegno. «Qual io fui vivo, tal son morto», grida Capaneo, e lancia la sua sfida a Giove:

e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra (XIV, vv. 59-60).

Ma non si tratta di un eroico orgoglio – alla Farinata degli Uberti, per intenderci -, anzi, proprio in questo indefesso e stolto orgoglio consiste la punizione eterna, come rivela Virgilio:

O Capaneo, in ciò che non s’ammorza

la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito (XIV, vv. 63-66).

Nella seconda zona del terzo girone del settimo cerchio si trovano i sodomiti, e qui avviene il commovente incontro di Dante con il suo maestro Brunetto Latini, che gli predice l’esilio, e «per tuo ben far». In conclusione del colloquio Brunetto raccomanda a Dante il «Tesoro», l’opera grazie alla quale vive ancora nel mondo: un’importante riflessione sulla creazione letteraria come metodo di sopravvivenza dopo l’inevitabile morte.

Le acque del Flegetonte precipitano in una ripa scoscesa, che separa il settimo cerchio dall’ottavo. Per il passaggio i poeti si servono di un mezzo assai particolare, il mostro Gerione, simbolo di frode, che li depone nell’ottavo cerchio, Malebolge.

NOTE

[1] Per la lettura e l’analisi del Cantico di Frate Sole rimando all’articolo San Francesco – Il principio.

[2] Per un approfondimento sul plurilinguismo dantesco rimando all’articolo Pape Satàn, pape Satàn aleppe!

[3] Per un approfondimento sul grande poeta carissimo amico di Dante rimando all’articolo Guido Cavalcanti, il lato oscuro dell’amore.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: