Illustrazione del VII canto dell'Inferno di Gustave Doré

Pape Satàn, pape Satàn aleppe!

La pluralità, di linguaggi, stili e toni, si impone come una delle maggiori e più evidenti caratteristiche della Commedia, talmente evidente da risaltare anche ad una prima e superficiale lettura. Si tratta di una forza trainante, trascinante del capolavoro dantesco, che contribuisce sensibilmente alla sua grandezza e alla sua universalità. Dante l’universalità la ricerca, creando una vera e propria summa: la summa di una delle epoche più affascinanti, sottovalutate e fraintese della storia dell’uomo, il Medioevo – se volessimo utilizzare questo bellissimo termine nell’accezione scellerata e deviante di “barbaro” potremmo dire che il vero Medioevo è oggi (la troppa luce acceca e mai nessun uomo nella storia lo ha provato tanto bene quanto noi); ma è un’infelice deviazione la mia, di cui chiedo venia, sono stato contagiato per un istante dal pessimismo dantesco -, ma anche la summa di quella che era allora la letteratura mondiale (latina, provenzale, italiana) e infine la summa di tutti gli stili e di tutti i linguaggi all’epoca esistenti.

Dante è uno scrittore espressionista – ricordo le Rime petrose [1] – e il luogo del sacro poema in cui l’espressionismo dantesco trova maggiore spazio, e trionfa, è ovviamente l’Inferno. La prima cantica si caratterizza per l’asprezza e la spietatezza dello stile, in cui dominano termini dialettali, triviali e sconci, rime dissonanti e scordate, generanti suoni sgradevoli, come da strumenti maltrattati: «piote» (XIX, v. 120, riferito a papa Niccolò III, scaraventato a testa in giù e «piote» all’aria tra i simoniaci), «berze» (XVIII, v. 37, a indicare il fuggi fuggi dei ruffiani sferzati dai diavoli), «accaffi» (XXI, v. 54, gridato dai diavoli all’«anzian di Santa Zita», intimandogli di non sporgersi oltre la pece), «accocchi» (XXI, v. 102, con cui i diavoli si esortano l’un l’altro a far beffe), «introcque» (XX, v. 130, avverbio inteso nel senso di contemporaneamente); «puttana» (XVIII, v. 133, riferito a Taide; il termine ricompare, e per ben due volte, nel canto XXXII del Purgatorio, riferito alla donna che appare seduta sul mostro nel Paradiso terrestre), «merda» (XVIII, v. 166 e XXVIII, v. 27, in riferimento prima ad Alessio Interminelli da Lucca e poi a Maometto, e in quest’ultimo caso si tratta di una delle immagini più cruente di tutto il poema, con il dannato che, squarciato in due, si perde le interiora), «cul» (XXI, v. 139, nel celebre verso «ed elli avea del cul fatto trombetta», riferito a Barbariccia, che, con una scoreggia, dà il segnale di partenza agli altri Malebranche); «incrocicchia» / «nicchia» / «picchia» (XVIII, vv. 101-105), «scuffa» / «muffa» / «zuffa» (XVIII, vv. 104-108).

Nonostante tutto, anche in questa gigantesca cloaca di violenza e depravazione che è l’inferno dantesco, non mancano passi di raffinata poesia, e si ricordino i versi dedicati a Beatrice, «O donna di virtù, sola per cui / l’umana spezie eccede ogni contento / di quel ciel ch’ho minor li cerchi sui» (II, vv. 76-78), o le famosissime parole di Francesca, « Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. / Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte. / Caina attende chi a vita ci spense» (V, vv. 100-107).

Dante inoltre si serve di termini domestici, come «mezzul» (XXVIII, v. 22) e «lulla» (ivi), termini tecnici della marineria come «terzaruolo» (XXI, v. 15) e «artimon» (ivi), e della medicina come «idropesì» (XXX, v. 52, ovvero l’idropisia, che gonfia a dismisura il corpo umano, di cui è vittima il falsario maestro Adamo e che anche Iacopone da Todi invoca a sé in quella parodia di una preghiera che è la celebre lauda O Segnor, per cortesia [2]).

Ma il punto più alto di questa operazione di raccolta e fusione linguistica, ritengo sia rappresentato dall’invenzione dantesca che sfocia nel nonsenso, come la celeberrima interiezione di Pluto che apre il VII canto, «Pape Satàn, pape Satà aleppe!», e il grido dei giganti nel XXI canto, «Raphèl maí amècche zabí almi», esclamazioni che, forse più di tutte le altre, danno l’esatta misura dell’angoscia e della disperazione universali che dominano nell’inferno.

In sostanza, nella Commedia la lingua e lo stile sono direttamente proporzionali al processo ascensionale di Dante. L’espressionismo infernale si ridimensiona, anche se di esso compaiono comunque delle tracce, come l’invettiva contro l’Italia nel VI canto del Purgatorio: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!» (vv. 76-78). In generale nel Purgatorio lingua e stile si elevano, e la dimostrazione più lampante di ciò è forse rappresentata dall’inserimento dei versi in provenzale, pronunciati da Arnaut Daniel [3] nel XXVI canto: «Tan m’abellis vostre cortes deman, / qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. / Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; / consiros vei la passada folor, / e vei jausen lo joi qu’ esper, denan. / Ara vos prec, per aquella valor / que vos guida al som de l’escalina, / sovenha vos a temps de ma dolor!» (vv. 140-147). Ricordo inoltre il ricorso al latino che annuncia la meravigliosa apparizione di Beatrice nel XXX canto, denotandola liturgicamente: «Veni, sponsa, de Libano» (v. 11), «Benedictus qui venis!» (v. 19), «Manibus, oh, date lilïa plenis!» (v. 21).

Nel Paradiso il linguaggio dantesco non può che farsi prezioso, raffinato, ricercato, ricco di latinismi, provenzalismi, francesismi, neologismi: «verba» (I, v. 70), «requievi» (I, v. 97), «festino» (III, v. 61 e VIII, v. 23), «fleto» (XVI, v. 136 e XXVII, v. 45), «concipio» (XXVII, v. 63), «lude» (XXX, v. 10); «fallanza» (XXVII, v. 32), «donnea» (XXVII, v. 88 e XXIV, v. 118), «dolzore» (XXX, v. 42); «insemprarsi» (X, v. 148, modellato sull’avverbio sempre, indica eternarsi), «adimare» (XXVII, v. 77, significa volgere lo sguardo in giù), «intuassi» e «inmii» (IX, v. 81, nel senso di leggere nei tuoi pensieri), «trasumanar» (I, v. 70, ovvero superare i limit dell’umano).

Ma anche qui non mancano ricorsi allo stile basso, in particolar modo nelle invettive: l’invettiva di Dante contro i villani affluiti in Firenze, «e sostener lo puzzo / del villan d’Aguglione, e quel da Signa, / che già per barattare ha l’occhio aguzzo» (XVI, v. 55-57), l’invettiva di san Pietro contro i suoi scellerati eredi, «Quelli ch’usurpa in terra il loco mio / […] fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza» (XXVII, vv. 22-26), l’invettiva di Cacciaguida contro la «coscienza fusca» dei personaggi citati da Dante, «e lascia pur grattar dov’è la rogna» (XVII, v. 129).

Dante, grazie anche, e forse soprattutto, alla pluralità di linguaggi, stili e toni, crea un’opera assolutamente nuova, rivoluzionaria. Un’opera ineguagliabile, che inaugura quella secolare e ricchissima tradizione letteraria italiana di mescolanza che arriva fino a Michelstaedter [4] e Gadda.

NOTE

[1] Per un approfondimento su questo straordinario ciclo di rime rimando all’articolo Madonna Pietra ovvero l’anti-Beatrice.

[2] Per la lettura e l’analisi del componimento rimando all’articolo Iacopone da Todi – O Segnor, per cortesia.

[3] Per un approfondimento sul celebre trovatore rimando all’articolo Arnaut Daniel, il giocatore.

[4] Per un approfondimento sul pensatore goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

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