Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri.
I.

La montagna incantata – insieme con l’Ulisse di Joyce [1], L’uomo senza qualità di Musil [2], Il processo di Kafka [3] e la Recherche di Proust [4] uno dei cinque maggiori romanzi della letteratura primonovecentesca – nasce da un’esperienza personale dell’autore, come confessa lo stesso Thomas Mann nella Lezione per gli studenti dell’università di Princeton nel 1939 – una brevissima divagazione sull’attuale stato della “letteratura”, sforzandoci di chiamarla ancora così quando ormai in realtà è altro: quale premio Nobel oggi potrebbe tenere una lezione universitaria su un suo grande capolavoro? Bob Dylan? Mah -. Siamo nel 1912 e a causa di un’affezione ai polmoni la moglie di Mann, Katia Pringsheim, è costretta a trascorrere sei mesi in un sanatorio a Davos, in Svizzera. Mann vi si reca in qualità di visitatore passandovi tre settimane. Un soggiorno tutto sommato breve, ma che permette allo scrittore di farsi un’idea esaustiva del particolarissimo luogo: «Quel mondo di ammalati è chiuso in sé e tenacemente avviluppante […]. È una specie di surrogato della vita che in un tempo relativamente breve estrania del tutto i giovani dalla vita reale, attiva. Tutto vi è (o era) lussuoso, anche il concetto di tempo. Quel tipo di cure impegna sempre molti mesi, che spesso diventano anni. Dopo sei mesi però il giovane non ha in mente altro che la sua temperatura e il flirt. E dopo altri sei mesi non potrà, in numerosi casi, avere in testa mai altro che questo. Sarà diventato definitivamente inetto a vivere nel piano» [5]. Un giudizio moralmente severo, che rivela la grande vicinanza di Mann a Settembrini, personaggio tra i più rilevanti del romanzo e di cui ci troveremo a far riferimento spesso, visto il suo fondamentale ruolo di educatore del protagonista.
Insomma, delle impressioni accumulate in quel soggiorno di tre settimane a Davos, Mann decide di fare un’opera. È in queste tre settimane che affondano le radici de La montagna incantata, ultimo grande Bildungsroman della storia della letteratura – Mann stesso spiega come il suo scopo fosse quello di «rinnovare» [6] questo fortunatissimo genere tipicamente tedesco, e si pensi ad opere come il Wilhelm Meister di Goethe, l’Heinrich von Ofterdingen di Novalis [7], I turbamenti del giovane Törless di Musil [8] -, e come tale incentrato sulla «evoluzione» o «incremento» [9] del protagonista, il giovane «pupillo della vita» Hans Castorp.
Ora, prima di immergerci nell’analisi del processo formativo-evolutivo che costituisce la spina dorsale del romanzo, reputo necessario sottolineare preliminarmente come Castorp si trovi di fatto nel mezzo di due fuochi – un po’ come Alëša Karamazov tra il santo starec Zosima e il rivoluzionario fratello Ivàn [10] -, conteso in un certo senso da essi: da una parte l’umanista e pedagogo italiano Lodovico Settembrini, animato da principi illuministi, massone democratico e laico, portavoce di valori quali la razionalità, la salute, la vita activa, il progresso, l’Occidente culla della civiltà; dall’altra parte la russa Clavdia Chauchat, la donna follemente amata dal protagonista, sensuale simbolo, dagli occhi chirghisi, dell’irrazionalità, della malattia, dell’Oriente barbaro agli occhi dell’occidentalista Settembrini (è possibile far rientrare in questa seconda categoria il personaggio intellettualmente più singolare de La montagna incantata, il gesuita «terrorista» Leo Naphta). E tra questi due fuochi Castorp oscilla, attratto ora dall’uno ora dall’altro, approdando infine ad una via di mezzo, una sorta di aurea mediocritas che rappresenta in un certo senso la sintesi di questa dialettica su cui si fonda il romanzo.
II.

Anche Hans Castorp, come Thomas Mann, avrebbe dovuto trascorrere nel Berghof tre settimane, giusto il tempo di una visita al cugino Joachim Ziemssen. Vi resta invece ben sette anni, dai ventitré ai trenta, divelto dalla magica montagna solo dalla catastrofe della Prima guerra mondiale, che lo scaraventa con ferocia nei campi di battaglia, facendone di fatto carne da macello, insieme con altri milioni di suoi coetanei. E questo esito tragico conferisce al destino di Castorp «un certo significato superpersonale», a causa del quale il narratore, all’inizio del romanzo, evita di ricorrere al termine “mediocre” per definire il protagonista, «né un genio né uno sciocco», salvo poi tornare sui propri passi allorquando lo presenta come un figlio del proprio tempo:
«Il singolo può avere di mira parecchi fini, mete, speranze, previsioni, donde attinge l’impulso ad elevate fatiche e attività; se il suo ambiente impersonale, se l’epoca stessa, nonostante l’operosità interiore, è in fondo priva di speranze e prospettive, se furtivamente gli si rivela disperata, vana, disorientata e al quesito formulato, coscientemente o no, ma pur sempre formulato, di un ultimo significato, ultrapersonale, assoluto, di ogni fatica e attività, oppone un vacuo silenzio, ecco che proprio nel caso di uomini dabbene sarà quasi inevitabile un’azione paralizzante di questo stato di cose, la quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con l’estendersi addirittura alla parte fisica e organica dell’individuo. Per aver voglia di svolgere un’attività notevole che sorpassi la misura di ciò che è soltanto imposto, senza che l’epoca sappia dare una risposta sufficiente alla domanda “a qual fine?”, occorre o una solitudine e intimità morale che si trova di rado ed è di natura eroica o una ben robusta vitalità. Né questo né quello era il caso di Castorp, sicché si dovrà pur dire che era mediocre, sia pure in un senso molto onorevole» [11].
Si tratta di uno dei numerosi passi straordinariamente attuali de La montagna incantata. L’epoca promonovecentesca descritta da Mann ha molti, troppi tratti in comune con la nostra, anch’essa «priva di speranze e prospettive», anch’essa «disperata, vana, disorientata» e incapace di rispondere alla domanda «a qual fine?». Tralasciando queste amare considerazioni, che portano inevitabilmente a congetture sinistre sul nostro avvenire, vorrei porre l’attenzione sulla mediocrità di Hans Castorp. Mediocrità che lo rende un individuo comune, ordinario, nei confronti del quale il lettore è portato naturalmente a nutrire una grande simpatia, talvolta persino dell’affetto. Con Castorp si instaura agevolmente un legame, e forse proprio per questo motivo risultano così vibranti e persino commoventi le pagine conclusive del romanzo. Ma tutte queste sono sciocchezze, meglio procedere oltre.
III.
Chi interviene a ridimensionare tale mediocrità è Lodovico Settembrini, che dispensa da subito al giovane Castorp preziose nozioni sul tempo, ma il tempo di lassù – «Noi, signor mio, se permette che glielo insegni, non sappiamo calcolare a settimane. La nostra più breve unità di tempo è il mese. Noi si calcola in grande stile… è un privilegio delle ombre» (53); sono parole da cui emerge il carattere lussuoso del tempo sottolineato da Mann -, sulla malignità – «Secondo me è la più tersa arma della ragione contro le potenze delle tenebre e della bruttezza. La malignità, caro signore, è lo spirito della critica, e la critica è l’origine del progresso e della civiltà» (56) – e soprattutto sulla malattia, in relazione alla quale cita il caso di Leopardi, dandone un giudizio aberrante, del tutto errato, ma inevitabile da parte di un uomo i cui valori sono stati criticati e ridicolizzati dal più grande poeta italiano dal XIX secolo in poi, giungendo alla seguente conclusione: «Un’anima senza corpo è altrettanto disumana e orrenda come un corpo senz’anima, e d’altronde la prima è una rara eccezione, la seconda la norma. Di norma è il corpo a preponderare, ad arraffare tutta l’importanza, la vita intera, e ad emanciparsi nel modo più sgradevole. L’uomo che vive malato è “soltanto” corpo, questa è la casa disumana e umiliante… nella maggior parte dei casi non è niente di meglio d’un cadavere…» (91). Una visione miope e facilmente smentibile, e si pensi proprio a Leopardi, o a un Dostoevskij, fisicamente malati eppure sani come pochissimi altri uomini nella storia del genere umano – e mutuo il concetto di salute da Carlo Michelstaedter, che affronta questo delicato tema nel suo dialogo più celebre, uno dei testi fondamentali della letteratura e della filosofia italiana, e non solo italiana, del Novecento – [12].
Settembrini non perde occasione, e ciò lo fa scivolare spesso nella pedanteria, di assecondare quella vena pedagogica propria di ogni umanista, tentando di «sviluppare – nel giovane – decisamente il giusto e cancellare per sempre con azioni opportune il falso che vuol farsi avanti» (92). Castorp ascolta e assorbe gli insegnamenti del pedante umanista, ma si ritrova presto a fare i conti con l’altra, ben più affascinante parte, rappresentata da Clavdia Chauchat, da cui è attratto per l’impressionante somiglianza con un suo vecchio compagno di scuola, Hippe Pribislav; in particolar modo gli occhi, «chirghisi», sono gli stessi. Ecco così il protagonista tra i due fuochi: «Ma che cosa o chi si trovava da quest’altra parte, opposta al patriottismo, alla dignità umana, alla bella letteratura, dove Castorp reputava lecito volgere di nuovo i suoi pensieri e le sue mire? Là si trovava… Clavdia Chauchat, fioca, bacata, con occhi chirghisi; e mentre ripensava a lei (“ripensare” però è vocabolo troppo moderato per la sua maniera di rivolgere il cuore a lei), Castorp aveva l’impressione di trovarsi in barca su quel lago del Holstein e di guardare dal vitreo chiarore diurno della riva occidentale, con gli occhi abbacinati e beffati, verso la caliginosa notte lunare dei cieli orientali» (148).
Settembrini mette in guardia Castorp da un lungo soggiorno lassù, facendosi davvero portavoce delle idee dell’autore, e affronta uno dei temi dominanti del romanzo, se non il tema dominante in assoluto, il rapporto tra la vita e la morte, in questi termini: «La morte è veneranda come culla della vita, grembo materno del rinnovamento. Se la si considera scissa dalla vita, diventra spettro, grinta… o qualcosa di peggio. La morte infatti, come potenza spirituale autonoma, è una potenza quanto mai sconcia, la cui depravata forza di attrazione è indubbiamente fortissima; ma avere questa forza in simpatia è, altrettanto indubbiamente, indizio della più orrenda aberrazione dello spirito umano» (185).
Il processo evolutivo di Castorp passa dalla scoperta della propria morte, allorquando Castorp, alla luce della radiografia, osserva la sua mano scheletrica, decomposta: «E Castorp vide ciò che doveva pur aspettarsi di vedere, ma a rigore non spetta agli uomini, ed egli stesso non aveva mai pensato che gli sarebbe stato concesso: gettò uno sguardo nella propria tomba. Vide in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito, dove intorno alla falange dell’anulare era sospeso, nero e isolato, il suo anello col sigillo, ereditato dal nonno: un innocuo oggetto terreno col quale l’uomo orna il suo corpo destinato a dissolversi, di modo che rimane libero e passa ad altra carne che lo porterà per qualche tempo. Con gli occhi di quell’antenata Tienappel osservò una parte familiare del suo corpo, con occhi penetranti, preveggenti, e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto» (203). Castorp vive in anticipo la propria morte, e questo gli permette di sviluppare quella consapevolezza della labilità delle cose fondamentale per un effettivo «incremento». La questione, dalla prospettiva settembriniana, è impedire che questa consapevolezza prevalga, con conseguenze inevitabilmente negative sulla vita activa, che andrebbe distrutta come la pelle alla potente luce della radiografia.
IV.
Ma intanto cresce, pagina dopo pagina, a dismisura l’amore del protagonista per «l’amabile malata», madame Chauchat. Un amore, diciamo così, stilnovistico, che si mantiene al livello embrionale di gesti, sguardi, saluti. Un amore contrastato da Settembrini, che esorta Castorp a lasciare il sanatorio, come del resto aveva già fatto nel primo giorno, e a rifiutare il corpo in favore dello spirito. Castorp che intanto inizia ad indagare la vita, ma non da un punto di vista filosofico o spirituale, come sarebbe lecito attendersi, ma da un punto di vista scientifico, leggendo e studiando volumi di anatomia, fisiologia e biologia. Il protagonista è in divenire, e l’attenzione rivolta a queste discipline stimola in lui una coscienza critica che lo porta a formulare riflessioni del tipo: «la malattia è la forma impudica della vita. E la vita a sua volta? È forse soltanto una malattia infettiva della materia,… come, forse, quella che è lecito chiamare generazione spontanea della materia, è soltanto malattia, una esuberanza di stimoli della non-materia?» (265). Non solo, Castorp inizia a dedicarsi ai moribondi del sanatorio, cui dispensa mazzi di fiori e auguri di pronta guarigione: «C’entrava anche e particolarmente il bisogno che il suo spirito sentiva di poter prendere sul serio e rispettare il dolore e la morte…, bisogno dal quale sperava che accostandosi ai malati gravi e ai morenti avrebbe ricavato soddisfazione e conforto, a controbilanciare le varie offese alle quali ogni giorno, ogni ora, ad ogni piè sospinto lo vedeva esposto, e nelle quali certi giudizi di Settembrini trovavano una conferma che lo mortificava» (275). Nel Berghof i decessi vengono tenuti nascosti, la morte di fatto bandita, come se non esistesse, e a Castorp sembra immorale, anche per questo motivo decide di dedicarsi ai malati gravi, in fase terminale. Lui che con la morte ha avuto a che fare precocemente, avendo già perduto entrambi i genitori e il nonno che, dopo la morte di questi, lo aveva preso con sé. Ad accompagnarlo in questa attività caritatevole, umanitaria è sempre il cugino Ziemssen, discreto come uno spettro, il pensiero costantemente rivolto al piano, a quella carriera militare che desidera con ardore.
V.
E giungiamo così a quello che può essere considerato il capitolo più importante del romanzo, intitolato Notte di Valpurga, dedicato alla festa di carnevale, durante la quale Settembrini fa recapitare alla tavola di Castorp i seguenti versi, tratti dal Faust:
«Ma pensate!
Impazza la montagna di magia;
se un fuoco fatuo vi indica la via,
non pigliatela troppo pel sottile!» (302)
È una notte goliardica, in cui scorrono fiumi di alcol, compaiono maschere grottesche e domina il tu, con il quale Castorp si rivolge a Settembrini suscitando lo sdegno dell’educatore: «Il tu fra estranei, cioè persone che a rigore devono darsi del lei, è una grossolanità ripugnante, un ritorno allo stato primitivo, un giuoco sciatto che aborro, perché in sostanza è volto contro la civiltà e l’umanità evoluta,… svergognato e insolente. Io non le ho dato del tu, non s’illuda! Ho citato soltanto un passo del capolavoro della sua letteratura nazionale. Ho parlato quindi poeticamente…» (306). Il paladino della civiltà e del progresso rifiuta con sprezzo lo spirito del carnevale, la sua forza sovvertitrice, mentre l’allievo si lascia travolgere, alza il gomito e si allontana dalla parte razionale per avvicinarsi spregiudicatamente a quella irrazionale, incarnata dalla strisciante Clavdia Chauchat dagli occhi da lupo della steppa. Settembrini prova a fermarlo, tenta di ricondurlo a sé, ma Castorp è attirato dalla fiamma vivente oggetto del suo amore. E finalmente, dopo trecento pagine, accade l’inevitabile: Hans Castorp si dichiara a Clavdia Chauchat. Ma non si serve della sua lingua, bensì della lingua francese, perché per il protagonista parlare in francese è come parlare senza parlare, senza responsabilità, come in sogno. Grazie a questo colloquio conosciamo più in profondità la donna, che dichiara di amare la libertà sopra ogni altra cosa, e proprio la malattia le permette di essere libera, totalmente indipendente dal marito. Clavdia informa Castorp che l’indomani lascerà il sanatorio, e per il protagonista è un duro colpo, sebbene si tratti di una partenza non definitiva, ma questo lo rende ancor più intraprendente: «je t’ai aimée de tout temps, car tu es le Toi de ma vie, mon rêve, mon sort, mon envie, mon éternel désir…» (319). E in ginocchio, al cospetto della sua amata, Castorp leva il suo inno al corpo umano, a scapito della settembriniana pedagogia: «et l’amor puor lui, puor le corps humain, c’est de même un intérêt extrêmement humanitaire et une puissance plus éducative que toute le pédagogie du monde!» (320). La dichiarazione d’amore del protagonista si risolve in un nulla di fatto, ma i due si scambiano le loro piccole lastre, e il «ritratto interno» di Clavdia diviene per Castorp una reliquia degna di venerazione, dalla quale non si separerà più – e possiamo facilmente immaginare che la porti con sé anche nell’inferno della battaglia, sorta di amuleto dal valore inestimabile -.
VI.

Dopo il faccia a faccia con madame Chauchat, nei giorni immediatamente successivi, Castorp ha un forte attacco febbrile. Inoltre Settembrini, l’educatore offeso, non gli rivolge la parola per settimane, ma lo sappiamo ormai, è un lasso di tempo insignificante lassù. Quando finalmente Settembrini si riavvicina all’allievo, commenta così i fatti del carnevale: «Dei e mortali visitarono talvolta il regno delle ombre e trovarono la via del ritorno. Ma gli inferi sanno che chi assaggia la frutta del loro regno, rimane in loro balia» (331). Non solo, l’italiano immagina Castorp sbattuto dalla perpetua bufera che agita i lussuriosi nel secondo cerchio dell’Inferno dantesco [13]: «Ingegnere, ingegnere […] non teme la bufera infernale del secondo cerchio, che volge e percuote i peccatori carnali che la ragion sommettono al talento? Gran Dio, se mi figuro come svolazzerà menato di su, di giù dal dolore, per poco non cado come corpo morto cade…» (332).
Il teatrale, melodrammatico Settembrini lascia il sanatorio e si trasferisce in paese, sotto lo stesso tetto di Leo Naphta, che rappresenta una nuova insidia per il processo educativo del giovane Castorp, tanto a cuore all’italiano. Professore di lingue classiche ed ex gesuita immerso nel lusso, Naphta è il personaggio probabilmente più inquietante del romanzo, tanto quanto la lignea Pietà del XIV secolo che domina nel suo appartamento, un «religioso orrore», come lo definisce il narratore. Settembrini e Naphta sono agli antipodi, il primo assertore del progresso, il secondo del terrore, e trovo una certa corrispondenza tra il pensiero del personaggio di Mann e quello del celebre Grande Inquisitore di Dostoevskij [14]. Settembrini sottolinea come le convinzioni di Naphta si trovino «sotto l’egida della morte», la quale, se resa realtà sfocia nella voluttà e nella «mala redenzione» (ricordo che di suicidio come redenzione dall’esistenza parla il filosofo Philipp Mainländer [15], e in conclusione del romanzo Naphta si toglierà proprio la vita). Naphta, il cui padre Elia, macellatore, è stato crocifisso alla porta della propria abitazione, ha un’attitudine, un’inclinazione medievale e, coerentemente con la sua teoria del terrorismo, si dichiara a favore delle pene corporali. Settembrini ha così un bel da fare nel contrastarlo e nel far sì che simili orrori non attecchiscano nel giovane Castorp.
VII.
Nel frattempo nel protagonista si sviluppa la viva aspirazione a un contatto più libero e intimo con la montagna. Per questo motivo acquista un paio di sci, con l’entusiastico benestare di Settembrini, lieto di questo slancio vitale del proprio allievo nonostante il lungo soggiorno lassù. Castorp si immerge così nel bello della montagna in inverno, non «un bello dolce e gentile, ma simile a quello del Mare del Nord selvaggio, quando vi soffia la furia del ponente» (443). Siamo nell’altro capitolo più importante del romanzo, intitolato Neve. Nel «deserto nevoso mortalmente afono» Castorp non solo rifiuta, ma sfida – per la seconda volta dopo la notte di Valpurga – ogni prudente saggezza. Viene travolto dalla tormenta, improvvisa e furiosa, eppure va avanti, animato dal suo irriverente «macché!». Il protagonista si ritrova così in una situazione estrema, sferzato dalla neve e immerso nel nulla, «il bianco nulla vorticoso». In questo impeto di giovanile, quasi adolescenziale sconsideratezza, il pupillo della vita mette a repentaglio la propria esistenza. Prova a scendere, ma non ce la fa: «si logorava, da parecchio ormai, in uno spostamento errato, alla cieca, avvolto in una bianca notte turbinosa, si affannava a inoltrarsi sempre più nella minacciosa indifferenza» (452). La montagna non si cura di lui, della sua debolezza, sprigionando con veemenza tutta la propria forza. Castorp, sfinito, si ferma presso un fienile, la spalla e la testa appoggiate all’intavolato. E si rincorrono allucinazioni e sogni. In particolar modo il protagonista sogna un meraviglioso popolo solare, nel quale si riflette il secolare mito dell’età dell’oro. Castorp, estasiato, ammira giovani e bambini liberi, immersi in un’atmosfera senza tempo, in una dimensione primordiale e autentica della vita, perfettamente in armonia con il paesaggio ameno. Ma questo sogno ideale si conclude con una immagine macabra, da incubo: «Due donne grigie, seminude, coi capelli scarmigliati, i seni da streghe penduli e i capezzoli lunghi un dito, erano impegnate là dentro, tra sfiaccolanti padelle di fuoco, in un lavoro orribile. Sopra un catino sbranavano un bambinello, lo sbranavano con le mani in un silenzio sinistro – Castorp vide teneri capelli biondi lordi di sangue – e ne divoravano i pezzi facendo scricchiolare tra i denti i fragili ossicini, mentre il sangue sgocciolava dalle loro labbra selvagge. Un gelido spavento lo fece inorridire. Voleva coprirsi gli occhi e non poteva. Voleva fuggire e non poteva. Quelle intanto, nella loro orrenda bisogna, avendolo già scorto lo minacciarono coi pugni insanguinati, lanciando insulti afoni, ma quanto mai volgari e osceni, nel popolare dialetto della patria di Castorp. Il quale si sentì male, come non si era sentito mai. Disperato fece per strapparsi di lì… e così, addosso com’era alla colonna dietro di lui, avendo ancora nelle orecchie quegli sconci strilli sommessi, ancora in preda a quel freddo raccapricciante, si trovò coricato su un braccio nella neve, la testa contro la capanna, le gambe lunghe e distese coi piedi allacciati agli sci» (461-462).
Il sogno provoca nel protagonista un intenso lavorio riflessivo, che rappresenta il momento culminante della sua «evoluzione», del suo «incremento»: «chi riconosce il corpo, la vita, riconosce la morte» (462), ma c’è anche l’altra metà, il contrario: «Ogni interessamento alla morte e alla malattia non è che un modo di esprimere l’interessamento alla vita» (463). Castorp si schiera dalla parte dei «figli del sole» e rinnega i due pedagoghi, Settembrini e Naphta, formulando la sua verità: «La sconsideratezza della morte è nella vita, senza di essa la vita non sarebbe vita, e nel mezzo sta l’homo Dei – nel mezzo tra leggerezza e ragione – come nel mezzo tra mistica comunità e vana individualità è il suo stato» (463). Ecco che l’iniziale mediocrità di Castorp si trasforma in aurea mediocritas: il protagonista afferma la propria posizione intermedia tra madame Chauchat e Settembrini e tra Naphta e Settembrini, fino alla conclusiva sentenza: «Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri» (464). È quanto fondamentalmente sostiene Settembrini, certo, ma è anche quanto fanno i malati del Berghof, e Clavdia soprattutto, che, pur malata, non lascia spazio al pensiero della morte, anzi, sulla malattia fonda la propria libertà. Chi appare totalmente escluso da questa prospettiva è Naphta, con l’immagine delle due vecchie antropofaghe rinchiuse nel tempio che potrebbe rimandare proprio a lui, e a tutto ciò che si trascina dietro.
Formulata questa sentenza, Castorp si rialza da terra e torna alla vita. La tormenta è finita. «La vita aveva avuto buone intenzioni col suo smarritissimo pupillo» (465). L’evoluzione di Hans Castorp può considerarsi completa. Egli approda alla sua verità, e nel sogno quasi mortale, intuisce il suo Gral, definito da Mann in questi termini, in conclusione della Lezione per gli studenti dell’università di Princeton: «è l’idea dell’uomo, la concezione di un’umanità futura, passata attraverso la più profonda conoscenza della malattia e della morte» [16].
VIII.
Ma La montagna incantata non finisce qui. Muore Joachim Ziemssen, il silenzioso cugino di Hans Castorp – ed è bellissimo quando Joachim, esempio di una umanità dignitosa ormai perduta, proprio alla vigilia del ricovero forzato a letto per l’aggravarsi della malattia, dopo anni di amore silenzioso, trova il coraggio di rivolgersi alla bella Marusja: il più evidente segnale di indebolimento -. Ma soprattutto torna madame Chauchat, non sola però, bensì accompagnata dall’olandese mynheer Peeperkorn, imprevisto che manda all’aria tutti gli spirituali preparativi di Castorp. La presenza di Peeperkorn, questa regale «personalità» che affascina tutti, compreso il protagonista, non impedisce tuttavia a Castorp e Clavdia di riavvicinarsi, riavvicinamento che culmina in un bacio «molto russo, sul tipo di quelli che in quel vasto, spirituale paese vengono scambiati nelle solenni feste cristiane, quale suggello d’amore» (564). Alla faccia dei teatrali ammonimenti di Settembrini su fantastiche punizioni eterne nel secondo cerchio dei lussuriosi. Perché, come sottolinea il narratore, «l’amore non può essere non corporale nell’estrema timoratezza, né non timorato nell’estrema carnalità, esso è sempre se stesso; sia come scaltro attaccamento alla vita, sia come suprema passione, è il consenso col mondo organico, il commovente e voluttuoso abbraccio di ciò che è destinato a corrompersi,… anche nella più ammirevole e più furiosa passione appare certamente la charitas» (564-565).
Peeperkorn intuisce che tra la sua Clavdia e Castorp c’è stato qualcosa, e incalza il protagonista, che non nega, anzi rende la sua confessione alla regale «personalità»: «Per amore di Clavdia e a dispetto del signor Settembrini mi sono sottomesso al principio dell’irrazionale, al principio geniale della malattia, al quale però sottostavo di lunga mano, anzi da sempre, e sono rimasto quassù,… non so più precisamente quanto, ho dimenticato tutti e rotto con tutti, coi miei parenti e con la mia professione di pianura, con tutto il mio avvenire» (575). Il grande Peeperkorn non manifesta affatto odio o rabbia nei confronti del rivale, ma si dichiara addirittura suo fratello, sancendo un’alleanza all’insegna del tu. Il giovane Castorp ne è entusiasta. Ma l’alleanza tra i due amanti di Clavdia dura poco, perché Peeperkorn si suicida avvelenandosi. Si tratta di una vera e propria «abdicazione», un’abdicazione dalla vita, come la definisce Clavdia, che stavolta lascia per sempre il sanatorio. Un addio che colpisce Castorp nel profondo, abbattendolo.
IX.
Dopo la morte di Peeperkorn e l’addio di Clavdia si stende un velo di solitudine sul romanzo. È come se la vicenda si ripiegasse in se stessa, oramai esaurita, quasi stanca. Prende il potere il demone della stupidità: «Hans Castorp si guardava intorno… E vedeva soltanto aspetti paurosi, maligni, e si rendeva conto di ciò che vedeva: la vita senza tempo, la vita senza preoccupazioni e senza speranze, la vita sciatta, affannosa e stagnante, la vita morta» (591). Nel sanatorio si diffonde una serie di passatempi idioti che sfociano ben presto nell’ossessione: è il regno della «Grande Stupidità». Castorp ha paura, e si affaccia in lui il presentimento di una catastrofe imminente, proprio come in Ulrich nell’ultima grande, eccezionalmente fallimentare riunione dell’Azione parallela [17].
L’ultimo sprazzo di vitalità nel romanzo è rappresentato dall’introduzione nel Berghof del grammofono, innovazione accolta con entusiasmo da Castorp: «Il preciso presentimento d’una passione nuova, d’un incantesimo, d’un incarico amoroso gli empiva l’anima» (602). Il protagonista prende in custodia il preziosissimo strumento e, nei suoi quotidiani, solitari concerti notturni si immerge in una dimensione sentimentale profondissima. Si acuisce così quell’atmosfera di solitudine che caratterizza le ultime cento pagine de La montagna incantata. Castorp, solo, lontano da tutti gli altri pazienti del sanatorio, grazie alla musica esplora reconditi anfratti di se stesso e, più in generale, dell’umana esistenza. Il Lied di Schubert Canzone del Tiglio ad esempio, rappresenta per lui un mondo intero, dietro il quale si cela un altro, intero mondo, fatto di un amore proibito, la morte. Castorp scopre la «potente magia dell’anima», di cui siamo tutti figli, dichiara il narratore, ma «il suo figlio migliore deve essere colui che nel superamento di sé consuma la vita e muore, con sulle labbra la nuova parola dell’amore che non sa ancora pronunciare… Merita, la magica canzone, che per essa si muoia! Ma chi per essa muore, non muore già più per essa ed è un eroe soltanto perché, in fondo, muore per il nuovo, avendo in cuore la nuova parola dell’amore e dell’avvenire…» (616). Una sorta di «bella morte» di michelstaedteriana memoria [18].
In quest’ultima fase del romanzo prevale inoltre la dimensione ermetica, misteriosa dell’esistenza, che culmina nella seduta spiritica in cui, grazie alla medium Elly, Castorp rivede suo cugino Joachim, al quale riesce a sussurrare una sola parola: «Perdona!». Il protagonista, sconvolto dall’apparizione, lascia la stanza, mandando a monte così la seduta e cancellando tutti gli sforzi fatti per rievocare il defunto. Castorp ha vissuto le due ore più strane della sua vita, corrispondenti di fatto alle pagine più strane dell’opera. Mann decide così di lasciare aperti tutti i varchi, di non ostruirne nessuno, neppure quello sovrannaturale e più assurdo.
Alla «Grande Stupidità» segue la «grande irritazione», che contagia persino menti illuminate come Naphta e Settembrini. I due intellettuali, dopo l’ennesimo scontro dialettico, si sfidano a duello. L’umanista spara per aria, suscitando l’ira dell’ex gesuita, che si spara alla tempia, togliendosi da sé la vita. Una scena «miseranda».
X.
La morte del suo prozio e tutore Tienappel priva Castorp di ogni rapporto con la pianura; ora non ha davvero più nessuna relazione con il mondo di laggiù. E non indossa più neppure l’orologio: ormai il protagonista è al di là delle elementari categorie di spazio e tempo. Ma – ed è un ma gigantesco – nell’estate che sancisce il suo settimo anno di permanenza in sanatorio, ecco il colpo di tuono: scoppia la Prima guerra mondiale. Rimbomba ovunque, assordante e sinistro, persino sulla montagna magica, lo «scoppio dello sciagurato miscuglio di stupidità e irritazione, accumulato da molto tempo» (669), un «tuono che spacca la montagna magica e mette bruscamente alla porta il dormiglione» (669). L’incantesimo è spezzato, dopo sette anni Castorp si riconosce finalmente libero.
Il «popoluccio» del Berghof si riversa in pianura, e Castorp con lui. Non Settembrini, e toccante è il commiato tra l’educatore e il suo allievo, il suo pupillo:
Nel trambusto Lodovico lo abbracciò,… letteralmente, lo strinse fra le braccia e lo baciò come un meridionale (o anche come un russo) sulle due guance, la qual cosa nonostante la commozione mise alquanto in soggezione il nostro non autorizzato partente. Ma per poco non perdeva la bussola allorché all’ultimo momento Settembrini lo chiamò per nome, cioè “Gianni” e abbandonando la forma di cortesia consueta in Occidente gli diede del tu!
«E così in giù» disse,… «in giù finalmente! Addio, Gianni mio! Diversamente mi auguravo di vederti partire, ma sia pure, gli dei hanno stabilito così e non diversamente. Speravo di rilasciarti perché tu andassi a lavorare, ora invece combatterai nelle file dei tuoi. Dio mio, a te era destinato, non al nostro tenente. Come scherza la vita… Combatti da valoroso, là dove sono i tuoi legami di sangue! Oggi nessuno può fare più di così. Ma perdona a me se impegno il resto delle mie forze per trascinare nella lotta anche il mio paese, dalla parte che gli indicano lo spirito e il sacro egoismo. Addio!»
Castorp insinuò la testa fra dieci altre che empivano il vano del finestrino… Al di sopra di esse salutò con la mano. Anche Settembrini fece un cenno con la destra, mentre col polpastrello dell’anulare sinistro si toccava un occhio (672-673).
XI.

La montagna incantata si conclude con le commoventi pagine dedicate a Castorp sul campo di battaglia, tra «i tremila ragazzi febbricitanti» immersi nel fango, sferzati dalle granate, votati al massacro.
«E così nel trambusto, nella pioggia, nel crepuscolo, lo perdiamo di vista.
Addio, Hans Castorp, schietto pupillo della vita! La tua storia è terminata. L’abbiamo narrata sino alla fine; non fu né divertente né noiosa, fu una storia ermetica. L’abbiamo raccontata per se stessa, non per amor tuo, poiché tu eri semplice. Ma in fin dei conti era la storia tua; siccome è toccata a te, devi aver avuto una certa accortezza, e noi non neghiamo la simpatia pedagogica che ci prese nel narrarla e potrebbe anche indurci a passare delicatamente un polpastrello sull’angolo d’un occhio al pensiero che non ti vedremo e non ti ascolteremo in avvenire.
Addio,… sia che tu sopravviva o muoia! Le tue probabili sorti sono brutte; la mala danza nella quale sei trascinato durerà ancora qualche anno, e noi non ci sentiamo di scommettere forte che ne uscirai salvo. Francamente non ci preoccupiamo gran che se la questione rimane aperta. Avventure della carne e dello spirito che hanno potenziato la tua semplicità, ti hanno permesso di superare nello spirito ciò che difficilmente potrai sopravvivere nella carne. Ci sono stati momenti in cui nei sogni che governavi sorse per te, dalla morte e dalla lussuria del corpo, un sogno d’amore. Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?» (676).
Solamente una vivida speranza può portare alla formulazione di un quesito come questo, che conclude La montagna incantata. Ma la risposta non può che essere negativa. Perché a questa prima «mondiale sagra della morte» in cui si trova immerso Hans Castorp, ne seguirà una seconda, e ben più drammatica. L’amore è destinato a restare un sogno in un mondo dominato dall’odio e dalla violenza, che dimostra tutta la fallacia degli ideali settembriniani e tutta l’impossibilità delle fantasie castorpiane. Se c’è ancora chi crede nelle favolette della civiltà, del progresso, dell’umanitarismo, dell’amore trovi il coraggio di interrogare anche uno solo dei milioni di cadaveri prodotti dalle due catastrofi mondiali. Che trovi il coraggio di rievocare da quella sterminata fossa comune che è la Storia un corpo crivellato di colpi, assottigliato dalla fame, sventrato da un’esplosione nucleare. Giungerà all’amara conclusione che l’uomo è un lupo per gli altri uomini (homo homini lupus direbbe l’umanista Settembrini).
«Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri», sentenzia Hans Castorp sulla montagna magica, dopo il suo sogno del mito dell’età dell’oro. Ma la Storia lo afferra e da lassù lo scaraventa spietatamente in pianura, nel fango del campo di battaglia, laddove si è costretti a pensare alla morte ogni maledetto attimo.
XII.
Penso al regno della «Grande Stupidità» che ne La montagna incantata prelude alla «mondiale sagra della morte», e mi domando: non viviamo oggi in un simile regno? Mi rispondo di sì… La «Grande Stupidità» è tornata, e nella sua forma più compiuta, più sofisticata. Di pormi un’altra domanda, la domanda su dove ci condurrà questa volta, confesso di avere un certo timore, sebbene le mie convinzioni – o forse sarebbe meglio dire non-convinzioni – dovrebbero proteggermi da ogni timore. In ogni caso, ci sarebbe materiale a sufficienza per scrivere un saggio coi fiocchi, uno di quei saggi che segnano un’epoca, ma sarebbe necessario uno slancio combattivo, uno spirito di Resistenza alla Giacomo Leopardi che non possiedo, e che forse nessun figlio di questo tempo apparente può possedere.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo L’Ulisse di Joyce: amor matris.
[2] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli Ulrich, l’uomo senza qualità. Prima parte; Ulrich, l’uomo senza qualità. Seconda parte.
[3] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Franz Kafka, Il processo: colpevole senza colpa e per legge di natura.
[4] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo Alla ricerca del tempo perduto – L’importanza inestimabile di un piccolo dolce.
[5] Thomas Mann, «La montagna incantata». Lezione per gli studenti dell’università di Princeton, in Thomas Mann, La montagna incantata, traduzione di Ervino Pocar, Corbaccio, Milano 2014, p. 681.
[6] Ervino Pocar, Introduzione a Thomas Mann, La montagna incantata, op. cit., p. XII.
[7] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli L’Enrico di Ofterdingen. Un’analisi del romanzo di Novalis ispirata da Novalis stesso – Introduzione; Novalis contra Goethe; L’influenza di Jakob Böhme nell’Enrico di Ofterdingen; L’enrico di Ofterdingen come opera conclusiva.
[8] Per un approfondimento sul romanzo rimando all’articolo I turbamenti del giovane Törless – Fascino ed angoscia.
[9] «[…] nel febbrile ermetismo della montagna magica questo semplice soggetto riceve un incremento il quale lo rende capace di avventure morali spirituali e sensuali, che nel mondo detto sempre ironicamente “pianura”, egli non avrebbe mai osato sognare. La sua storia è la storia di un incremento […]». Thomas Mann, «La montagna incantata». Lezione per gli studenti dell’università di Princeton, in Thomas Mann, La montagna incantata, op. cit., p. 686.
[10] Per un approfondimento sul romanzo rimando agli articoli I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Prima parte; I fratelli Karamazov, il «libro sacro». Seconda parte.
[11] Le citazioni del romanzo sono tratte da Thomas Mann, La montagna incantata, op. cit., p. 29. D’ora in poi il numero della pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[12] Per un approfondimento sul pensatore e scrittore goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.
[13] Per la lettura e l’analisi del canto rimando all’articolo Divina Domenica – Inferno – Canto V.
[14] Per un approfondimento sul testo rimando all’articolo Fëdor Dostoevskij, Il Grande Inquisitore.
[15] Per un approfondimento sul filosofo rimando all’articolo Philipp Mainländer, il suicidio come redenzione dall’esistenza.
[16] Thomas Mann, «La montagna incantata». Lezione per gli studenti dell’università di Princeton, in Thomas Mann, La montagna incantata, op. cit., p. 689.
[17] In conclusione dell’Uomo senza qualità il protagonista, Ulrich, profetizza la Prima guerra mondiale.
[18] Nella seconda e definitiva stesura del Dialogo della salute Michelstaedter leva il suo inno alla «bella morte».