Nella mia indifferenza sono stata forse peggiore di una prostituta.
Dopo Diotima [1] e Clarisse [2] è la volta di Agathe, la sorella minore di Ulrich [3], probabilmente il personaggio femminile più importante dell’Uomo senza qualità. Agathe ha ventisette anni, cinque in meno del fratello, è già vedova e si è risposata con il noto professor Hagauer, dal quale non intende più tornare. L’episodio che riunisce i due fratelli perduti, dimenticati, tra i quali prima non esisteva alcun rapporto, è la morte del padre. E proprio al cospetto della salma dell’illustre giurista Agathe si rende protagonista di un gesto che scombussola Ulrich:
Agathe era già china, e si era sfilata dalla gamba una larga giarrettiera di seta che portava per poter allentare il reggicalze in vita, sollevò il drappo e la fece scivolare nella tasca del padre.
E Ulrich? lì per lì non credette ai suoi occhi vedendo quel ricordo che si rianimava. Era quasi sul punto di saltarle addosso per impedirglielo, solo perché era un atto contrario a ogni regola. Ma ecco che negli occhi della sorella colse un lampo di quella pura e rugiadosa freschezza che appartiene alle prime ore del mattino sulle quali non è ancora calata la foschia del lavoro quotidiano, e questo lo trattenne. «Che cosa stai facendo?», le disse in tono di leggera disapprovazione. Non sapeva se volesse riconciliarsi col defunto per il torto che gli avevano fatto, o dargli invece qualcosa di buono da portare con sé, dal momento che lui stesso aveva commesso tante ingiustizie: avrebbe potuto chiederglielo, ma quell’idea barbarica di regalare al freddo cadavere una giarrettiera ancora calda della gamba di sua figlia gli chiuse la gola e gli scombussolò il cervello [4].
Nella vita di Agathe è avvenuto uno strappo, che coincide proprio con la morte del padre e il ritorno alla casa paterna: «Nell’istante in cui Agathe era salita in treno per quel viaggio inaspettato verso la casa paterna, era accaduto qualcosa che aveva tutto l’aspetto di uno strappo improvviso, e i due pezzi in cui il momento della partenza si era spaccato erano schizzati via, così lontani l’uno dall’altro come se non vi fossero mai appartenuti» (794). È a questo punto che decide di non tornare più dal marito, domandandosi come abbia potuto trascorrere tanto tempo al fianco di Hagauer: «”Come è potuto accadere”, si chiese sbalordita, “che sia stata così a lungo a fianco di quell’uomo? Ma non ho forse accettato così tutta la mia vita senza opporre resistenza?”. Si rimproverò con impeto: “Se valessi anche solo qualcosa non sarei mai giunta a questo punto!”» (802). Agathe non ha una grande considerazione di se stessa, si definisce stupida senza troppi problemi – «È perché sono stupida che ho una memoria così terribilmente buona» (772) -, è indifferente e indolente, e proprio a causa di questa sua indolenza si ritrova ora arenata nel deserto della vita. Indolenza che investe anche, e soprattutto – visto che «non c’era un istante in cui non si sentisse debole in un mondo così perfettamente costruito dalla forza degli uomini» (798) -, il suo rapporto con il genere maschile: «Gli uomini erano un complemento e un perfezionamento del suo corpo, ma non un contenuto spirituale: era un prendere ed essere presi. Quel suo corpo le diceva che già tra pochi anni avrebbe incominciato a perdere la propria bellezza: a perdere quindi i sentimenti che derivavano direttamente dalla sua sicurezza di sé, e che solo in minima parte potevano venire espressi con parole o pensieri. Quindi sarebbe finito tutto, senza che vi fosse mai stato nulla» (802). In Agathe il seme dell’amore non attecchisce, si tratta semplicemente di «un prendere ed essere presi», e stupisce, stando così le cose, che una donna simile possa essere stata moglie per ben due volte, ma senza procreare, beninteso (eccetto Bonadea, le donne dell’Uomo senza qualità sono tutte maternamente improduttive).
In una gita presso il bastione degli svedesi in compagnia di Ulrich, Agathe pensa al suicidio – pensiero costante in lei, ma mai preso davvero in considerazione, sebbene porti sempre con sé un flacone di veleno -: «È un buon posto per uccidersi […]. Il vuoto della mia mente si dissolverebbe con una dolcezza infinita nel vuoto di questo paesaggio!» (807). E confessa al fratello: «Mi hanno rimproverato per tutta la vita di non avere volontà, di non amare nulla, di non venerare nulla, insomma di non essere una persona decisa a vivere» (ivi). Pensa poi di uccidere il marito – «Vorrei uccidere Hagauer» -, Ulrich la dissuade, ma non ce n’è bisogno, perché l’indifferenza rende immuni: «Nella mia indifferenza sono stata forse peggiore di una prostituta. E neppure sono intraprendente, quindi è difficile che possa uccidere qualcuno» (815).
L’essenza di Agathe è anarchica, ma «aveva avuto fino a quel momento la forma triste e indebolita della convinzione: “Tutto mi è lecito, ma tanto non voglio nulla!”» (816). L’anarchismo che la caratterizza è dunque depotenziato, o forse addirittura annichilito – ma annichilito sarebbe troppo, perché pensieri e parole sono dimostrazioni evidenti di questa anarchia essenziale, solo non si trasformano in atto -, dall’indolenza, il cui dominio assai di rado Agathe è riuscita a spezzare, e solamente in occasioni-limite, come ad esempio la morte del primo marito:
Una volta era accaduto qualcosa per cui, da un profondo sconforto che le dava l’impressione di essere indegna in quanto si riteneva incapace di tener fede ai sentimenti elevati, era scaturito direttamente quel bisogno di autopunirsi e da allora si disprezzava per la propria indolenza morale. L’episodio si collocava tra la sua vita di ragazza nella casa paterna e l’incomprensibile matrimonio con Hagauer, in un periodo di tempo così limitato che finora era sfuggito persino alle attente e partecipi domande di Ulrich. Si può raccontare in breve quello che era accaduto allora: Agathe aveva sposato a diciott’anni un uomo di poco più vecchio di lei, e durante un viaggio iniziato con le nozze e terminato con la morte del marito, questi le venne tolto nel giro di poche settimane da un male contratto nel frattempo, prima ancora che avessero deciso anche soltanto dove andare ad abitare. I medici dissero che era tifo, e anche Agathe lo diceva trovando in questo un’apparenza di ordine, perché questo era solo un lato dell’avvenimento, ossia quello ben levigato a uso del mondo, ma dal lato non levigato le cose stavano diversamente: Agathe era vissuta fino allora accanto al padre, che tutto il mondo stimava, così che lei si chiedeva dubbiosa se fosse ingiusto non amarlo, e quella poco convinta ricerca di sé in collegio, con la diffidenza che suscitava in lei, non aveva di certo rafforzato il suo rapporto con il mondo; in seguito invece, quando in un risveglio di vitalità improvviso, unendo i suoi sforzi a quelli del compagno d’infanzia, superò in pochi mesi tutti gli ostacoli che si frapponevano a un matrimonio tra i due ragazzi, sebbene le famiglie degli innamorati non avessero nulla da rimproverarsi a vicenda, ecco che a un tratto non era più stata sola e proprio in tal modo aveva trovato se stessa. Questo si poteva dunque chiamare amore; ma esistono innamorati che fissano lo sguardo nell’amore come nel sole, rimanendone abbagliati, e ce ne sono altri che con stupore scoprono per la prima volta la vita quando l’amore la illumina: Agathe apparteneva a questi ultimi, e ancora non era riuscita a capire se amava il suo compagno o qualcos’altro, quando sopraggiunse quello che nel linguaggio del mondo non illuminato si chiama malattia infettiva. Fu una tempesta di orrore che irruppe repentina da territori sconosciuti della vita, un resistere, un guizzare e uno spegnersi, la sciagura che si abbatté su due esseri aggrappati l’uno all’altro e la rovina di un mondo senza colpa nel vomito, negli escrementi e nell’angoscia.
Agathe non aveva mai accettato quell’evento che distruggeva i suoi sentimenti. Travolta dalla disperazione s’era inginocchiata davanti al letto del morente con l’illusione di poter riscquistare con un incantesimo la forza con cui da bambina aveva vinto la propria malattia; ma quando l’inferno era peggiorato e la coscienza era già venuta meno, nelle stanze di un albergo straniero lei aveva fissato, incapace di capire, quel volto abbandonato; senza preoccuparsi del pericolo aveva tenuto stretto tra le braccia il morente, e senza curarsi della realtà, di cui si preoccupava un’infermiera indignata, per ore e ore non aveva fatto altro che sussurrargli all’orecchio via via più sordo: «Non devi, non devi, non devi!». Quando tutto fu finito, si alzò però stupefatta e, senza né credere né pensare a nulla di preciso, solo per il gusto di fantasticare e per la bizzarria del suo temperamento solitario, da quel primo momento di stupore vuoto considerò nel suo intimo quella vicenda come se non fosse definitiva. Qualcosa di simile succede in ogni individuo, quando non vuole credere alla notizia di una disgrazia o colora l’irrevocabile con una sfumatura di speranza: la cosa insolita però nella condotta di Agathe fu l’intensità e la portata di quella reazione, anzi lo scatenarsi improvviso del suo disprezzo per il mondo. Da quel momento accolse deliberatamente ogni novità come se non fosse qualcosa di presente, quanto piuttosto un fatto assolutamente incerto, e questo atteggiamento le era molto facilitato dalla diffidenza che aveva sempre opposto alla realtà; il passato si era invece irrigidito sotto il colpo sofferto e il tempo lo corrodeva molto più lentamente di quanto accade di solito con i ricordi. Ma questo non aveva nulla in sé del fumo denso dei sogni, delle fissazioni e delle storture che richiedono l’intervento del medico; Agathe al contrario continuava a condurre esteriormente una vita molto limpida, di una virtuosità senza pretese, accompagnata solo da una certa noia, e in una leggera esaltazione della svogliatezza di vivere che davvero somigliava alla febbre di cui da bambina aveva sofferto ed era spontaneamente guarita in modo così bizzarro. E che nella sua memoria, di per sé già poco incline a dissolvere le proprie impressioni in concetti generali, quel terribile avvenimento rimanesse presente ora dopo ora come un cadavere avvolto in un sudario bianco, questo, malgrado il tormento legato a una simile precisione del ricordo, la inebriava perché le sembrava un’allusione misteriosamente tardiva che non tutto era finito e, pur nello sconforto, conservava in lei una tensione incerta ma nobile. In realtà tutto questo significava soltanto che lei aveva perso di nuovo il senso della vita e si era posta intenzionalmente in una condizione non adatta alla sue età, poiché solo i vecchi vivono così, aggrappati alle esperienze e ai successi del passato senza alcun rapporto col presente. Per sua fortuna, all’età che Agathe aveva allora si prendono sì delle decisioni per l’eternità, ma d’altra parte un anno ha già quasi il peso di una mezza eternità, e così fu inevitabile che anche in lei, dopo qualche tempo, la natura repressa e la fantasia incatenata si liberassero prepotentemente. In quello che accadde i particolari non hanno veramente importanza: un uomo la cui assiduità in altre occasioni non sarebbe riuscita a farle perdere la testa allora ci riuscì e divenne il suo amante; ma quel tentativo di ricominciare da capo finì, dopo un periodo molto breve di speranze fanatiche, in una delusione sofferta. Agathe si vide estromessa dalla propria vita reale e da quella irreale, e indegna di nobili proponimenti. Era uno di quegli esseri appassionati che possono restare a lungo immobili e in attesa, finché a un certo punto cadono improvvisamente nel più grande scompiglio, e quindi nel suo disinganno prese subito un’altra decisione affrettata; ossia, in breve, di punirsi in modo opposto a come aveva peccato, condannandosi a dividere la vita con un uomo che le ispirasse una lieve repulsione. E l’uomo che lei scelse come punizione fu Hagauer (827-829).
La convivenza fa bene ai due fratelli; Ulrich, segnato dalle letture dei mistici, concepisce l’idea del Regno millenario, mentre Agathe sente dentro di sé un nuovo slancio vitale: «da quando viveva con il fratello s’era resa conto che, nella profonda dissociazione tra vita irresponsabile e immaginazione spettrale di cui aveva sofferto, si faceva innanzi un moto liberatorio, in grado di legare nuovamente ciò che era disgregato» (830). Grazie al fratello Agathe riesce finalmente a dare sfogo a tutto ciò che si trascina dentro da anni, come non le è mai accaduto prima, e i Dialoghi sacri ne sono un esempio; grazie alla sorella Ulrich manifesta finalmente il proprio credo, che fino ad ora aveva celato a tutti e, forse, anche a se stesso [5]. Tra i due avviene qualcosa di eccezionale, che potrebbe persino far pensare ad un rapporto incestuoso: «Ma chi non ha ancora capito da certi segni cosa stesse succedendo tra i due fratelli, accantoni questo racconto, perché qui viene descritta un’avventura che questi non potrà mai approvare: un viaggio al limite del possibile, che sfiorò i pericoli dell’impossibile e dell’innaturale, anzi del repellente, e che forse non sempre si limitò a sfiorarli; un “caso limite”, come in seguito lo definì Ulrich, di validità limitata ed eccezionale, che ricorda la libertà con la quale la matematica si serve a volte dell’assurdo per giungere alla verità. Lui e Agathe erano capitati su una strada che aveva qualcosa a che fare con l’impresa dei posseduti da Dio, ma la percorrevano senza essere religiosi, senza credere né in Dio né nell’anima e neppure in un aldilà o in una resurrezione; vi erano capitati come creature di questo mondo e come tali la percorrevano, e proprio questa era la cosa ragguardevole» (832-833). Il sospetto dell’incesto resta sullo sfondo, inquietante e al tempo stesso affascinante come uno spettro, ma quel che davvero importa, al di là del semplice pettegolezzo, è che, con il loro sodalizio, Ulrich e Agathe aprono la via a quel Regno millenario che costituisce lo sfogo utopico dell’Uomo senza qualità, ancor più della follia di Clarisse.
Rivitalizzata dalla presenza del fratello, Agathe falsifica il testamento paterno affinché niente finisca nelle mani del marito. E lo fa senza tormentarsi troppo, senza domandarsi se sia sbagliato oppure no, senza angosciarsi delle possibili conseguenze: «In fondo lei stessa agiva con una risolutezza pari alla sua distrazione: quello che aveva deciso era stabilito, ma come fuori di lei, e l’esperienza acquisita nella vita – dunque ancora una volta qualcosa che poteva distinguersi dalla persona – continuava a lavorare alla decisione presa, come un servo astuto che sfrutta tranquillamente i vantaggi legati alle proprie incombenze; che tutto quello che lei faceva era diretto a compiere un imbroglio, di questo significato della sua condotta che saltava subito agli occhi di chi non fosse direttamente coinvolto, Agathe era allora assolutamente inconsapevole. L’unità della sua coscienza morale lo escludeva. Il suo splendore eclissava il punto oscuro che si trovava al suo centro, come il nucleo nella fiamma. Lei stessa non sapeva come esprimerlo: proprio in virtù del suo proposito si trovava in una condizione che era distante anni luce da quello stesso orribile proposito» (930-931).
Ulrich torna a Vienna, e Agathe resta per qualche giorno sola nella casa paterna. Osserva con attenzione il proprio corpo, meraviglioso, «plasmato solo dalla propria crescita» e giunto al momento dello zenit, quindi afferra il flacone contenente il veleno, il cui possesso non corrisponde affatto al desiderio di suicidarsi: «lei temeva la morte come una qualsiasi persona giovane a cui la sera a letto, prima di addormentarsi e dopo una serata trascorsa normalmente, capita magari di pensare: è inevitabile che prima o poi in un giorno bello come oggi, io sia morta. Né fa venir voglia di morire dover assistere alla morte di un altro, e l’agonia del padre l’aveva tormentata con impressioni di orrore che adesso, da quando era rimasta sola in quella casa dopo la partenza del fratello, tornavano a sopraffarla. Ma “io sono un po’ morta”, questa sensazione Agathe la provava spesso; e proprio in momenti come quello – in cui s’era appena assicurata della bellezza e della salute del proprio giovane corpo, di quella bellezza tonica che nella sua misteriosa armonia è altrettanto immotivata quanto il decomporsi degli elementi nella morte – le accadeva facilmente di passare da uno stato di felice sicurezza a un altro di trepidazione, stupore e mutismo, come quando all’improvviso si lascia un ambiente affollato e vivace per uscire al luccichio delle stelle. Malgrado i propositi che si agitavano in lei, e nonostante la soddisfazione di essere riuscita a salvarsi da una vita mancata, si sentiva ora un po’ separata da sé e legata alla propria persona solo da vaghi confini. Pensava alla morte con freddezza come a una condizione in cui si è esentati dall’affannarsi e dall’illudersi e se l’immaginava come un tenero addormentamento interiore: si giace nella mano di Dio, e quella mano è come una culla o come un’amaca legata a due grossi alberi che il vento appena fa oscillare. Si raffigurava la morte come una grande e pacifica stanchezza, liberata da qualsiasi volontà e da ogni sforzo, da ogni attenzione e da ogni riflessione, simile alla piacevole debolezza che si percepisce nelle dita quando il sonno le scioglie a poco a poco da un ultimo oggetto del mondo che quelle ancora trattengono. Si era fatta dunque un’idea di certo comoda e indolente della morte, come appunto corrisponde alle esigenze di chi non è ben disposto nei confronti delle fatiche della vita, ma alla fine dovette sorridere considerando come tutto questo ricordasse l’ottomana che aveva fatto mettere nell’austero salone paterno per sdraiarvisi sopra e leggere, l’unico cambiamento avvenuto in casa per sua volontà. Ma il pensiero di rinunciare alla vita era in Agathe ben altro che un semplice gioco. Le sembrava assolutamente credibile che a un’agitazione così deludente dovesse seguire una condizione di quiete inebriante che prendeva involontariamente nella sua fantasia quasi un contenuto corporeo. Così avvertiva perché non avesse alcun bisogno dell’esaltante illusione che si dovesse migliorare il mondo, ed era pronta in qualsiasi momento a rinunciare completamente alla sua partecipazione a esso, purché questo accadesse in modo piacevole. Inoltre nel corso di quella strana malattia intervenuta nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, aveva avuto un particolare incontro con la morte. In quell’occasione – in un venire meno quasi impercettibile delle forze, che sembrava insinuarsi in ogni minimo lasso di tempo risultando però irrefrenabilmente veloce nell’insieme – parti sempre nuove del suo corpo si erano staccate da lei giorno dopo giorno fino ad annullarsi; ma di pari passo con questo declino e questa separazione dalla vita le si era anche risvegliata nell’animo una nuova, indimenticabile aspirazione verso un fine che eliminasse dalla malattia qualsiasi inquietudine e angoscia; ed era una condizione stranamente ricca di contenuto, in cui Agathe poteva persino esercitare un certo dominio sugli adulti che le erano intorno e che diventavano sempre più insicuri. Forse quel vantaggio che lei conobbe allora in circostanze così impressionanti, avrebbe costituito in seguito il seme della sua inclinazione morale a sottrarsi in modo simile alla vita, quando i suoi eccitamenti non corrispondevano per qualche motivo alle sue aspettative; ma è più probabile che sia vero il contrario, ossia che quella malattia, grazie alla quale si era sottratta agli obblighi della scuola e della casa paterna, fosse stata la prima manifestazione del suo rapporto col mondo, che era trasparente e permeabile al raggio di un sentimento a lei sconosciuto. Nella sua sensibilità semplice e naturale Agathe si sentiva infatti calda e vivace, anzi persino allegra e facile da accontentare, poiché si era sempre saputa adattare alle più diverse condizioni di vita e non le era mai accaduto di sprofondare nell’indifferenza, come accade alle donne che non riescono più a sopportare la loro delusione: eppure nel bel mezzo di una risata o nel tumulto di un’avventura sensuale, che però non s’interrompevano, s’insinuava quella svalutazione capace di rendere ogni fibra del suo corpo stanca e pronta a struggersi per qualcos’altro che si potrebbe benissimo definire il nulla» (933-935).
Agathe sente il nulla, e questa sua percezione del nulla le impedisce di credere sia nell’anima che nella materia. Ma, come già detto, l’incontro con il fratello determina in lei un cambiamento: «Una chiara volontà, di cui fino a quel momento aveva sentito sempre la mancanza, la riempiva; ma in quella chiarezza non sapeva da dove cominciare, perché tutto il bene e tutto il male della vita erano privi di senso» (937). Grazie a questa nuova condizione Agathe riesce persino, sebbene per un solo istante, a raggiungere «quell’unità della coscienza con i sensi che finora aveva conosciuto solo in accenni minimi, che bastavano appena a dare alla vita quotidiana un senso di desolazione e di appassionata afflizione, sia che Agathe si proponesse di comportarsi bene o male. […] I sentimenti avevano penetrato le cose, e le cose i sentimenti, in un modo così convincente che Agathe sentiva di non essere mai stata neppure sfiorata da tutto quello per cui fino ad allora aveva usato la parola convinzione» (939). E dalla capacità di vivere sempre come in questi momenti di grazia, Agathe sa che dipende il suo amore e il suo adattamento al mondo; non ci sono altre possibilità. Durante l’ultima notte nella casa paterna, prima di raggiungere Ulrich a Vienna, Agathe è presa da una certa commozione, colta dal vecchio domestico, al quale si rivolge così, citando il mistico persiano Farid al-Din ‘Attar: «Getta nel fuoco tutto quello che hai, anche le scarpe. E se non hai più nulla, non pensare neppure al sudario e gettati nudo nel fuoco!» (942). Una citazione che racchiude quell’ansia di cambiamento che anima Agathe e che si concretizza nella separazione da Hagauer, nella falsificazione del testamento e nel trasferimento in casa di Ulrich. I due fratelli sono in cammino verso il Regno millenario, ma a turbare la loro unione giunge la lettera del professor Hagauer, che colpisce Agathe nel profondo, più di quanto lei stessa si aspettasse. Per la prima volta Agathe si sente in colpa per aver falsificato il testamento, per la prima volta tutto ciò che ha fatto le sembra incomprensibile. «Che cosa ci sto a fare in questo mondo?», domanda avvilita al fratello. Agathe è sconvolta, ha una crisi di pianto e Ulrich è incapace di consolarla, anzi, riesce solamente a peggiorare le cose. È in questo momento drammatico – forse il più drammatico dell’Uomo senza qualità – che va in migliaia di pezzi, per non ricomporsi mai più, anche l’ultima illusione, l’illusione del Regno millenario. Ogni uomo è solo, non basta un legame, seppur di sangue, a colmare quell’incommensurabile nulla di cui Agathe nella sua vita è sempre stata consapevole. La vita non è che un’insensata parentesi tra due infiniti nulla, e per addolcire quest’amarissima realtà forse non resta davvero che la follia, quella follia che caratterizza l’esistenza dell’assassino Moosbrugger e su cui Clarisse vacilla in un equilibrio forse troppo fragile per durare a lungo. E Agathe fugge, fugge da Ulrich, incapace di trattenere le lacrime e triste come una persona che ha perduto per sempre tutto, senza sapere perché, senza, in realtà, aver mai posseduto nulla, anzi, possedendo solo il nulla. «Fuggiva; nello stesso modo in cui uomini e animali fuggono dalle calamità. Senza chiedersi perché. Solo quando fu stanca, capì qual era la sua intenzione: non tornare più indietro!» (1046). Agathe pensa, inevitabilmente, e questa volta sul serio, al suicidio: «Voleva camminare fino a sera. A ogni passo sempre più lontana da casa. Pensava che fermandosi al calare della sera anche la sua decisione sarebbe stata matura. Era la decisione di uccidersi. O meglio, non la decisione di uccidersi ma l’aspettativa che fosse pronta per quella decisione una volta arrivata la sera. Dietro quell’aspettativa un disperato e vorticoso lavorio nella testa. Non aveva nulla con sé per uccidersi. La piccola capsula di veleno era da qualche parte in un cassetto o in una valigia. Della morte era compiuto solo il desiderio di non dover più tornare indietro. Voleva uscire dalla vita. Per questo camminava e a ogni passo era come se già la stesse lasciando» (1047). Agathe è presa da un intenso e struggente desiderio di prati e di boschi, così sale sul tram e si allontana dalla città, dalla mondana capitale della Kakania. Raggiunge la tomba di un poeta morto suicida:
Agathe aveva camminato in salita per circa un’ora quando all’improvviso si trovò davanti quel selvaggio intrico di cespugli che serbava nella memoria. Circondava una tomba abbandonata ai margini del bosco, dove quasi cent’anni prima si era ucciso un poeta, il quale, secondo il suo ultimo desiderio, vi era anche sepolto. Ulrich aveva detto che non era un grande poeta sebbene fosse famoso, e la poesia alquanto miope che si esprime nel desiderio di essere sepolto in un “luogo panoramico” aveva trovato in lui un critico spietato. Ma Agathe amava l’epigrafe sulla grande lastra di pietra da quando durante una passeggiata ne avevano decifrato insieme i bei caratteri Biedermeier slavati dalla pioggia, e si chinò sopra le catene nere dai grossi anelli spigolosi che delimitavano il quadrato della morte in opposizione alla vita.
“Io non sono stato nulla per voi”, aveva fatto scrivere sulla sua tomba l’infelice poeta, e Agathe pensò che ciò si sarebbe potuto dire anche di lei. Questo pensiero, all’estremità di uno sperone boscoso, oltre i vigneti verdeggianti e la città immensa ed estranea che muoveva lentamente il suo strascico di fumo nel sole mattutino la commosse di nuovo. Improvvisamente s’inginocchiò e appoggiò la fronte contro uno dei pilastri che sostenevano le catene; la posizione inusuale e il freddo contatto con la pietra le diedero l’impressione della pace un po’ rigida e senza volontà della morte che l’attendeva. Tentò di raccogliersi. Ma non ci riuscì subito: i versi degli uccelli le giungevano all’orecchio; ed erano tanti e così diversi che ne fu meravigliata; i rami si agitavano, ma non sentendo vento le venne in mente che fossero gli alberi stessi a muoverli; in un improvviso silenzio si udì un leggero calpestio; la pietra dove stava appoggiata era così liscia, come se tra questa e la sua fronte ci fosse un pezzo di ghiaccio che le impediva di aderirvi del tutto. Solo dopo un po’ capì come le cose che la distraevano esprimessero proprio ciò su cui voleva riflettere, quel sentimento fondamentale della propria inutilità, ossia che la vita – volendosi esprimere nel modo più semplice – era compiuta anche senza di lei, e lei nella vita non aveva nulla da cercare o da sperare. Quel sentimento terribile non era in fondo né disperazione né offesa, ma uno stare a guardare e ad ascoltare, come Agathe aveva sempre fatto, senza slancio, anzi senza alcuna possibilità di partecipazione. C’era quasi un senso di sicurezza in quell’essere esclusi, così come c’è uno stupore che dimentica di chiedere. Poteva benissimo andarsene. Dove? Un dove ci doveva pur essere. Agathe non era una di quelle persone cui anche la convinzione della vanità di tutte le illusioni può offrire una specie di appagamento, simile a quel senso bellicoso o ipocrita di moderazione con cui si accetta il proprio destino deludente. In tali questioni era generosa e impulsiva, non come Ulrich, che creava tutte le difficoltà possibili e immaginabili ai propri sentimenti per vietarseli se non sostenevano la prova. Lei era proprio stupida! Già; così si disse. Non voleva riflettere. Ostinata, premette la fronte china contro le catene di ferro che cedettero leggermente e poi tornarono a tendersi. Nelle ultime settimane aveva ricominciato in qualche modo a credere in Dio, ma senza pensare a Lui. Certe situazioni in cui il mondo le era sembrato diverso da come appare, e tale che anche lei non viveva più esclusa ma dentro una radiosa convinzione, grazie a Ulrich si erano sviluppate in un’intima metamorfosi, in un completo rivolgimento. Sarebbe stata pronta a immaginare un Dio che apre il suo mondo come un nascondiglio. Ulrich diceva però che non serviva, anzi era estremamente dannoso immaginare più di quanto si potesse capire. E in queste cose era lui che decideva. Ma allora doveva anche farle da guida e non abbandonarla. Suo fratello rappresentava la soglia tra due vite, e tutto lo struggimento che lei provava per l’una e tutte le vie di fuga dell’altra conducevano anzitutto a lui. Lo amava nel modo spudorato in cui si ama la vita. Quando Agathe apriva gli occhi al mattino, era lui che si risvegliava in tutte le sue membra. Anche ora la fissava dallo specchio scuro del suo tormento: e solo in questo momento si ricordò che voleva uccidersi. Ebbe la sensazione di essere scappata incontro a Dio per far dispetto a Ulrich, quando se n’era andata di casa con il proposito di uccidersi. Ma ormai esaurito il proposito, questo era sprofondato di nuovo nella sua origine, l’offesa che Agathe riteneva di aver subito da Ulrich. Era arrabbiata con lui, continuava a esserlo, ma gli uccelli cantavano e lei aveva ripreso a udirli. Era turbata proprio come prima, ma si trattava adesso di un turbamento di gioia. Voleva fare qualcosa, ma in modo da colpire anche Ulrich, e non solo se stessa. Mentre si rialzava, l’infinita rigidità dello stare in ginocchio lasciò il posto al calore del sangue che tornava a scorrerle vivace nelle membra (1050-1051).
Sono pagine particolarmente significative queste, in cui emergono due tratti essenziali di Agathe: la sua esclusione dalla vita, compiuta anche senza di lei, e l’amore sconfinato per Ulrich, che «amava nel modo spudorato in cui si ama la vita». Ma anche questo sentimento così profondo e intenso è destinato a naufragare. Durante l’ultima, grande e irreversibilmente fallimentare riunione dell’Azione parallela – il cosiddetto Concilio -, Ulrich tenta un riavvicinamento disperato alla sorella, ma i due fratelli ormai, nonostante l’amore di lei, sono lontani. I loro cammini si sono separati, e Agathe lascia il Concilio senza neppure avvisare Ulrich. Sono le righe che concludono L’uomo senza qualità: «Solo in quel momento Ulrich venne a sapere che Agathe s’era congedata all’improvviso ed era andata via senza di lui; gli riferirono inoltre che non aveva voluto disturbarlo per comunicargli la sua decisione» (1130). È la fine anche dell’ultima illusione, di quel Regno millenario che costituisce l’orizzonte utopico del romanzo. Orizzonte cancellato, e l’opera di Musil, la più compiuta delle opere incompiute, non poteva concludersi in un modo più drammatico – a ciò si aggiunga che durante il Concilio Ulrich profetizza la «prossima sciagura di massa», la Prima guerra mondiale -.
Ulrich e Agathe rappresentano quella componente nichilistica che non poteva mancare nell’Uomo senza qualità – vera e propria summa delle tendenze ideologiche primonovecentesche: la tendenza spiritualistica di Diotima, quella diplomatica di Tuzzi, quella dionisiaco-nietzschiana di Clarisse e Walter, quella sensuale di Bonadea, quella antisemita di Gerda e Hans Sepp, quella statale del conte Leinsdorf, quella militare del generale Stumm, quella pedagogica di Hagauer, quella giuridica del padre dei due fratelli, quella capitalistica di Arnheim, quella pacifista di Feuermaul; tendenze che naufragano rovinosamente tutte a contatto con l’ironico protagonista -. Ma si tratta di nichilismi differenti: razionale – del resto è un matematico -, ironico e autoironico quello di Ulrich, istintivo e quasi fisico quello di Agathe, che percepisce innanzitutto con i sensi il nulla che la circonda, tentando invano di cercare un appiglio nel fratello, lui, l’uomo senza qualità, che di appigli non può offrirne per definizione.
NOTE
[1] Le donne dell’Uomo senza qualità: la «grande e marmorea» Diotima.
[2] Le donne dell’Uomo senza qualità: la «verginale ed eroica» Clarisse.
[3] Per un approfondimento sul protagonista rimando agli articoli Ulrich, l’uomo senza qualità. Prima parte; Ulrich, l’uomo senza qualità. Seconda parte.
[4] Robert Musil, L’uomo senza qualità, traduzione di Irene Castiglia, op. cit., pp. 776-777. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[5] Meritevole di essere riportato il credo di Ulrich:
«Mi hai chiesto in cosa credo», cominciò. «Credo che tutti i precetti della nostra morale siano concessioni a una società di selvaggi.
Penso che nessuno di essi sia giusto.
Un altro senso risplende da dietro. Un fuoco che dovrebbe scioglierli.
Credo che nulla sia giunto alla fine.
Credo che nulla sia in equilibrio, ma che ogni cosa voglia far leva sull’altra.
Questo è ciò che credo; è nato con me, o io con esso».
Dopo ogni frase aveva fatto una pausa perché non parlava ad alta voce e doveva dare enfasi in qualche modo alla professione di fede. I suoi occhi rimanevano fissi sui busti di gesso, collocati in alto sugli scaffali; vide una Minerva e un Socrate; ricordò che Goethe si era messo in camera una testa in gesso di Giunone più grande del naturale. Tale gusto gli sembrò impressionantemente lontano: quella che a suo tempo era stata un’idea florida, si era ridotta ormai a un morto classicismo. Era diventata una certezza epigonale dei coetanei di suo padre. Era stata inutile. «La morale che ci hanno tramandato è come se ci avesse fatto camminare su una corda oscillante, tesa al di sopra dell’abisso», disse, «e non ci hanno dato altro consiglio che questo: stai bene dritto!».
«Sembra che, senza averne alcuna responsabilità né nel bene né nel male, io sia nato con una diversa morale.
Mi hai chiesto in cosa credo! Credo che seppure mi si dimostrasse mille volte che una cosa è buona o bella in base ai principi vigenti, essa continuerà a rimanermi indifferente, e l’unico segno secondo cui mi orienterò è il fatto che la sua vicinanza mi innalzi o mi faccia affondare.
Che mi desti alla vita oppure no.
Che sia solo la mia lingua a parlarne, e il mio cervello, oppure la scintilla di un brivido sulla punta delle dita.
Ma neppure posso dimostrare nulla.
E sono anche convinto che chi cede a questo è perduto. Precipita nel crepuscolo. Nella nebbia e nelle chiacchiere. In una noia confusa.
Se togli l’inequivocabile dalla nostra vita restano solo le pecore senza il lupo.
Credo che l’infamia sia persino il nostro buon genio che ci protegge.
Quindi non credo.
Anzitutto non credo al legame del male con il bene proposto dal nostro miscuglio di cultura: lo trovo disgustoso!
Credo, quindi, e non credo.
Ma forse credo che tra qualche tempo gli uomini saranno in parte molto intelligenti e in parte dei mistici. È possibile che fin d’ora la nostra morale si suddivida in queste due componenti. Potrei anche dire: in matematica e in mistica. In miglioramento pratico e avventura sconosciuta».
Erano anni che non provava un’emozione così sincera. I “forse” del suo discorso non li sentiva, gli sembravano naturali (842-843).