In altre persone i pensieri derivano dalla vita, in Clarisse invece quello che viveva nasceva ogni volta dai pensieri: una follia degna d’invidia!
I. Introduzione
Dopo la «grande e marmorea» Diotima [1], spostiamo l’attenzione sulla «verginale ed eroica» Clarisse, tra i personaggi più complessi dell’Uomo senza qualità di Robert Musil. Figlia del noto pittore von Helmond – che anni prima ebbe la tentazione di abusare di lei, in seguito ad una cocente delusione d’amore per una adolescente, ma non si spinse oltre l’«occhio del diavolo», il neo all’altezza dell’anca che Clarisse è certa abbia un potere magico -, Clarisse, «bellezza protorinascimentale dalle labbra sottili», è sposata con Walter, l’amico d’infanzia di Ulrich [2]. Walter, questo uomo che è tutto e niente, «un dilettante dai molti talenti», o meglio, il cui unico talento è forse quello «di passare per un grande talento», che ha il merito di coniare l’espressione “uomo senza qualità” e affibbiarla all’odiato amico d’antica data, ma con una connotazione dispregiativa che non ha niente a che fare con il messaggio ultimo che vuole trasmettere l’autore. Eppure Clarisse ha visto in lui un genio e per questo lo ha sposato, e all’evidenza del fallimento del marito – fallimento presentato da Ulrich in questi termini: «Non c’è un altro esempio di destino inesorabile come quello di un giovane talentuoso che si riduce a un vecchio qualunque; senza aver subito colpi della sorte, solo per quell’avvizzimento a cui era già predestinato!» [3] – non vuole arrendersi: «voleva essere la compagna di un grand’uomo e lottava contro il destino» (80-81).
Clarisse è un personaggio assai singolare, sospeso sull’orlo della follia, da cui non la allontana certo Nietzsche, il suo autore preferito. In lei il rapporto vita-pensiero è perfettamente rovesciato: «In altre persone i pensieri derivano dalla vita, in Clarisse invece quello che viveva nasceva ogni volta dai pensieri: una follia degna d’invidia!» (864). A ciò si aggiunga la sua convinzione di essere nata per adempiere un’alta missione. Una missione indefinibile, che oscilla, lungo il romanzo, tra il concepimento di una sorta di prescelto – a metà strada tra un nuovo Salvatore e l’Übermensch nietzschiano – e la liberazione dell’assassino Moosbrugger, due aspetti che approfondiremo più avanti. Ma una missione che Clarisse è pronta a seguire con tutta se stessa: «Nietzsche e Cristo hanno fallito per aver fatto le cose a metà!» (679), esclama Clarisse, in uno dei tanti momenti impetuosi che la contraddistinguono. Così Clarisse vive «di preparativi e di premonizioni», costantemente in tensione, costantemente in attesa di qualcosa che non verrà mai.
II. Clarisse e la maternità
Walter vorrebbe da Clarisse un figlio, ma lei gli si nega. Motivando il suo rifiuto, ricorre all’amato Nietzsche, che cita liberamente: «Come uno scandaglio getto la mia domanda nella tua anima! Tu desideri le nozze e il figlio, ma io ti chiedo: sei tu l’uomo a cui è concesso di desiderare un figlio? Sei il vittorioso, il signore delle tue virtù? O in te parlano la bestia e il bisogno?» (416). Clarisse rifiuta la logica semplicistica della procreazione come istinto di conservazione e risarcimento – dei propri fallimenti e della morte -, per lei la maternità è una missione di cui non reputa ancora all’altezza il marito, che sferza senza pietà, e in questo caso in presenza di Ulrich, ricorrendo alle parole del suo maestro. Clarisse non vuole essere la madre di un uomo comune, di un uomo qualunque – non vuole e non deve, nella sua prospettiva -, ma di un uomo straordinario chiamato a incidere sulle sorti del mondo. Si vede Madonna: «Il suo corpo sottile diventava internamente, di volta in volta, profondo, sensibile, vivo, sconosciuto; un bambino giaceva luminoso e sorridente tra le sue braccia, dalle spalle il manto dorato della Madonna le scendeva fino a terra nel suo luccichio, e i fedeli cantavano. Era nato da lei, era nato il Signore del mondo!» (488). È lei la nuova madre di Dio: «Forse il senso di tutti quei momenti in cui non era in sé era che doveva diventare la madre di Dio. Le tornò alla mente la visione che aveva avuto solo un quarto d’ora prima. “Forse ogni madre può diventare madre di Dio”, pensò, “quando non scende a compromessi, non dice menzogne, non agisce, ma porta alla luce nella forma di un figlio ciò che ha di più intimo. A condizione che non ne ricavi nulla per sé!”, aggiunse triste. Infatti quel pensiero, anziché procurarle un puro piacere, le dava piuttosto la sensazione, a metà tra il tormento e la beatitudine, di essere sacrificata per qualcosa. […] L’idea meravigliosa che la donna deve accogliere l’uomo in sé, sia come madre sia come amante, la intenerì e insieme la eccitò» (496-497). Ma Walter a tutto questo non è ancora pronto, non sono la sua vittoria e la sua libertà a desiderare un figlio, quanto il suo fallimento: «Non voleva darla subito vinta a Walter. “Io voglio che la tua vittoria e la tua libertà desiderino un figlio!”, si disse. “Devi costruire monumenti viventi oltre la tua persona. Ma prima devi costruire te stesso nel corpo e nell’anima!”. Clarisse sorrideva; era il suo solito sorriso, che mandava guizzi sottili come un fuoco sotto una grossa pietra» (488). Walter non è all’altezza, deve ancora costruire se stesso nel corpo e nell’anima. E in tutti questi anni, nonostante la sua fama di uomo di gran talento, non è stato capace di creare niente. Clarisse gli rinfaccia proprio questa sua incapacità: «Invece di creare tu stesso qualcosa, vorresti perpetuarti in un figlio!», grida al marito (673).
Insoddisfatto da Walter, Clarisse compie un gesto a metà strada tra l’avventatezza, la follia e la disperazione. Per saziare la propria brama di maternità, di Madonna, si rivolge ad Ulrich, l’amico d’infanzia del marito. Clarisse vuole un figlio dall’uomo senza qualità, lui sì che ne è all’altezza. Lui, che ha qualcosa di un grande Dio:
«Walter vuole un figlio da me a ogni costo. Ti sembra sensato?». Sembrava attendere una risposta.
Che cosa avrebbe dovuto rispondere Ulrich?
«Ma io non voglio!», esclamò lei con veemenza.
«Non ti arrabbiare subito», disse Ulrich. «Tanto se tu non vuoi non può succedere».
«Ma lui ne morirà!».
«La gente che pensa sempre di stare per morire vive a lungo! Tu e io saremo raggrinziti da un bel pezzo, mentre Walter, ormai direttore del suo archivio, avrà ancora sotto i capelli bianchi la solita faccia da ragazzino!».
Clarisse pensierosa girò sui tacchi e si allontanò da Ulrich, a una certa distanza si mise di nuovo in posizione e lo “puntò”. «Sai come appare un ombrello quando gli tolgono il bastone? Walter deperisce appena gli giro le spalle. Io sono il suo bastone e lui è…», “l’ombrello”, stava per dire, ma gli venne in mente un’espressione più adatta: «È il mio uomo-ombrello», disse. «Crede di dovermi proteggere. E per questo vorrebbe vedermi come prima cosa un bel pancione. Poi proverà a convincermi che una vera madre allatta il suo bambino. Poi vorrà educare questo bambino a suo modo. Lo sai anche tu. Vuole semplicemente appropriarsi di certi diritti e con qualche pretesto grandioso renderci due borghesucci. Ma se continuo a dirgli di no, come ho fatto finora, per lui è finita. Io sono tutto per Walter!».
Ulrich sorrise incredulo a quell’affermazione estrema.
«Vuole ucciderti!», aggiunse rapidamente.
«Che cosa? Credevo glielo avessi suggerito tu!».
«Vorrei averlo da te il bambino!», disse Clarisse.
Ulrich fischiò tra i denti per la sorpresa.
Lei sorrise come un essere molto giovane che ha fatto una richiesta sconveniente.
«Non voglio ingannare qualcuno che conosco bene come Walter. Queste cose mi disgustano», disse Ulrich con lentezza.
«Veramente? Dunque sei un tipo onesto?», Clarisse pareva conferire a quella scoperta un significato che Ulrich non capiva; lei rifletté, e dopo qualche momento, riprese: «Ma se tu mi ami, lui ti ha in pugno!».
«Che cosa?».
«Eppure è assolutamente chiaro; solo non riesco a spiegarlo bene. Ti vedrai costretto ad avere dei riguardi per lui. È naturale che non potrai semplicemente ingannarlo, cercherai di dargli qualcosa in cambio. E così via. Ma la cosa più importante è che lo costringerai a dare il meglio di sé. Non puoi certo negare che siamo confinati in noi stessi come figure in un blocco di pietra. Dobbiamo sbozzarci da soli! Dobbiamo costringerci a vicenda!».
«Bene», disse Ulrich, «ma tu corri troppo pensando che questo accada».
Clarisse sorrise di nuovo. «Forse corro troppo!», disse. Gli si avvicinò e infilò in modo affettuoso il braccio sotto il suo, che rimase a penzoloni, molle, contro il corpo senza farle spazio. «Non ti piaccio? Non mi vuoi bene?», chiese. E siccome Ulrich non rispondeva, continuò: «Lo so bene che ti piaccio; ho notato abbastanza spesso come mi guardi quando sei a casa nostra! Ricordi che già una volta ti ho detto che sei il diavolo? Mi fai quest’impressione. Cerca di comprendermi. Non intendo dire che sei un povero diavolo; cioè uno che vuole il male perché non sa fare nulla di meglio; sei un diavolo importante, tu sai che cosa sarebbe bene, ma fai esattamente il contrario di quello che vorresti! Trovi disgustosa la vita che noi tutti viviamo, e dunque per dispetto dici che dobbiamo continuare a vivere così. E in tono terribilmente onesto dici: “Io non inganno i miei amici!”, ma lo dici solo perché hai già pensato cento volte: “Vorrei avere Clarisse!”. Ma siccome sei il diavolo, hai in te anche qualcosa di Dio, Ulo! Di un grande Dio! Un Dio che mente perché nessuno lo riconosca! Tu mi vorresti…».
Gli aveva preso anche l’altro braccio, e stava di fronte a lui con il viso girato all’insù e il corpo piegato all’indietro come una piantina che si prende con delicatezza per il fiore. “Ora qualcosa le affluirà di nuovo in viso, come quella volta!”, pensò Ulrich con paura. Ma non avvenne. Il viso di lei rimase bello. Non aveva il solito sorriso forzato, ma un sorriso aperto, che scopriva un po’ anche i denti insieme con le gengive, come se lei volesse difendersi, e la forma della sua bocca era plasmata sul doppio arco incavato del Dio dell’amore che si riproduceva nelle curve della fronte e anche al di sopra nella nuvola irradiata di luce dei capelli.
«Tu vorresti da tempo prendermi tra i denti della tua bocca bugiarda e portarmi via, se solo avessi il coraggio di mostrarti a me come sei!», aveva proseguito Clarisse. Con delicatezza Ulrich era riuscito a liberarsi. Clarisse si lasciò cadere sul divano come se fosse stato lui a condurla lì, e l’avvicinò a sé.
«Non dovresti esagerare così», la rimproverò Ulrich per le sue parole.
Clarisse lo aveva lasciato andare. Chiuse gli occhi e si tenne la testa con ambedue le braccia, i gomiti puntati sulle ginocchia; il suo secondo tentativo era fallito, e ora aveva intenzione di convincere Ulrich con la fredda logica. «Non devi far caso alle parole», rispose, «è solo un modo di dire se parlo del diavolo o di Dio. Quando però mi trovo sola in casa, di solito tutto il giorno, e vado a passeggio lì intorno, mi è già capitato diverse volte di pensare: se ora giro a sinistra arriva Dio, se invece vado a destra viene il diavolo. Ho avuto la stessa sensazione quando per prendere una cosa in mano, potevo farlo con la destra o con la sinistra. Quando l’ho detto a Walter si è subito messo le mani in tasca per la paura! I fiori lo rendono felice, anche solo una lumaca; ma dimmi: non è terribilmente triste la vita che facciamo? Non arriva né Dio né il diavolo. Così già da anni me ne vado in giro. Che cosa può succedere? Nulla: non c’è via d’uscita, a meno che grazie all’arte non avvenga miracolosamente un cambiamento».
In quell’istante fece un’espressione così soavemente triste che Ulrich fu spinto ad accarezzarle con una mano i capelli morbidi. «Nei singoli aspetti potresti anche avere ragione, Clarisse», disse, «ma in te non capisco mai i nessi e il modo in cui salti alle conclusioni».
«È semplice», rispose lei, ancora nell’atteggiamento di prima. «Con il tempo ho avuto appunto un’idea: ascoltami!». Adesso si era raddrizzata e aveva recuperato così di colpo la sua vivacità. «Non hai detto pure tu una volta che la condizione in cui viviamo presenta delle fessure, attraverso le quali per così dire uno stato impossibile sbircia? Non c’è bisogno che risponda, lo so da tempo. Ognuno vuole ovviamente che la propria vita sia in ordine, ma nessuno ne è capace! Faccio musica e dipingo; ma è come se mettessi un paravento davanti a un buco nel muro. Tu e Walter inoltre avete delle idee, io ne capisco poco, ma anche lì qualcosa non è in ordine, e tu hai detto che per indolenza e per abitudine non si guarda in quel buco o ci si distrae con pensieri cattivi. Ora, il resto è semplice: è attraverso quel buco che bisogna uscire! E io ne sono capace! Ci sono giorni in cui riesco a scivolare fuori da me stessa. Allora si è – come potrei esprimerlo? – si è come sbucciati in mezzo alle cose, e anche quelle hanno perso la scorza sudicia. Oppure l’aria ci unisce a tutto quello che esiste come gemelli siamesi. È uno stato di una grandiosità inaudita; tutto diventa musicale, colore e ritmo, e allora io non sono la cittadina Clarisse, così come mi hanno battezzata, ma una specie di scheggia brillante che penetra in una felicità immensa. Ma tutto questo lo sai bene anche tu! Perché proprio questo intendevi quando hai detto che la realtà ha in sé uno stato impossibile e che le proprie esperienze non vanno indirizzate verso se stessi né vanno considerate personali o reali, mentre devono essere rivolte piuttosto verso l’esterno come se fossero cantate o dipinte, eccetera: potrei ripeterti ogni cosa nei minimi particolari!». Questo “eccetera” ritornava come una rima sciolta, mentre Clarisse continuava a parlare precipitosamente, terminando quasi sempre le sue affermazioni con: «E tu ne avresti la forza, ma non vuoi; io non so perché non vuoi, ma ti scuoterò!».
Ulrich l’aveva lasciata parlare; faceva talvolta un cenno muto di diniego, quando lei gli attribuiva qualcosa di troppo lontano dal possibile, ma non trovava in sé la volontà di sollevare obiezioni e continuava a tenerle la mano sui capelli, e quasi avvertiva con la punta delle dita il pulsare violento di quei pensieri. Non aveva mai visto Clarisse così eccitata sensualmente, ed era quasi meravigliato che anche nel suo corpo magro e duro trovassero posto tutto il rilassamento e la morbida distensione dell’ardore femminile, e anche stavolta fece il suo effetto l’eterna sorpresa di vedere aprirsi improvvisamente una donna che tutti consideravano chiusa. Ma le parole di lei non lo urtarono, per quanto offendessero la ragione, perché avvicinandosi al suo intimo per poi tornare ad allontanarsene fino all’assurdo ricordavano, con quel loro movimento rapido e continuo, un sibilo o un ronzio, in cui l’intensità delle oscillazioni non dava modo di avvertire la bellezza o la bruttezza delle tonalità. Lui sentiva che ascoltarla facilitava le sue decisioni come una musica selvaggia, e solo quando ebbe l’impressione che lei stessa non trovasse più dalle sue parole né una via d’uscita né una fine, le scosse un po’ la testa con la mano tesa, come fosse un richiamo e un ammonimento.
Accadde però il contrario di quello che lui voleva, perché d’un tratto Clarisse lo aggredì. Gli gettò le braccia al collo e premette le labbra contro le sue con una rapidità da cui lui non riuscì a difendersi e che lo lasciò sbalordito; con un movimento veloce aveva piegato le gambe sotto il corpo scivolando fino a lui e in modo da inginocchiarglisi in braccio, e Ulrich avvertì contro la spalla la piccola sporgenza del seno. Non riusciva ad afferrare quasi nulla di quello che lei diceva. Balbettava qualcosa circa la sua forza redentrice e la vigliaccheria di lui, e Ulrich capì di essere un “barbaro”, e perciò Clarisse avrebbe concepito da lui e non da Walter il redentore del mondo; ma in realtà le parole di lei erano solo un gioco selvaggio vicino al suo orecchio, un mormorio precipitoso e sottovoce, più attento a sé che a rendersi comprensibile, e solo di tanto in tanto in quello sciacquio si percepiva chiaramente una parola come “Moosbrugger” o “l’occhio del diavolo”. Per difendersi Ulrich aveva preso la sua piccola assalitrice per le braccia e l’aveva spinta sul divano, ma lei gli lavorava intorno con le gambe, gli premeva i capelli sulla faccia e provava ad abbracciargli di nuovo la nuca. «Ti ucciderò se non cedi!», disse con voce chiara e limpida. Pareva un ragazzo che in un miscuglio di tenerezza e di rabbia non vuole essere respinto, e la cui eccitazione continua a crescere. Lo sforzo di calmarla gli faceva sentire in modo attutito il fluire della voluttà nelle mebra di lei; eppure, quando aveva stretto le braccia intorno al suo corpo e l’aveva spinto giù, lui aveva provato una sensazione intensa. Era proprio come se il corpo di Clarisse gli fosse penetrato nell’animo; la conosceva da molto tempo, è vero, e spesso si era un po’ accapigliato con lei, ma non aveva mai avuto occasione di toccare così da capo a piedi quel piccolo essere familiare-estraneo, con il suo cuore pieno di slanci impetuosi, e quando i movimenti di Clarisse, bloccati dalle sue mani, si calmarono e quel cedimento delle membra cominciò a risplenderle teneramente negli occhi, ci mancò poco che accadesse quello che lui non voleva. Ma in quell’istante si rammentò di Gerda, come se solo ora sentisse l’esigenza di fare i conti con se stesso.
«Non voglio, Clarisse!», esclamò e la lasciò. «Ora voglio rimanere solo, ho ancora molte cose sa sistemare prima della partenza!».
Quando Clarisse si rese conto del suo rifiuto, fu come se dopo una violenta scossa un ingranaggio diverso le fosse scattato in testa. Guardava Ulrich che, con i tratti del viso penosamente stravolti, era in piedi a qualche passo da lei, lo vedeva parlare, e le sembrò di non capire nulla, ma nel seguire i movimento delle sue labbra sentiva crescere dentro di sé un’intensa repulsione; si accorse poi che il vestito le era salito oltre le ginocchia e si alzò velocemente. Prima ancora di ricordare anche solo qualcosa dell’episodio fu di nuovo in piedi, si riassettò l’abito e i capelli come se fosse stata sdraiata sull’erba e disse: «Certo, dovrai fare i bagagli, non voglio trattenerti oltre!». Aveva di nuovo il suo solito sorriso che, ironico e incerto, si faceva strada a fatica attraverso una sottile fessura, e gli augurò buon viaggio […].
Titubante Ulrich le teneva la mano.
Le dita di Clarisse sfioravano giocherellando le sue. Lei avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere che cosa gli avesse effettivamente detto, perché doveva essere stato di tutto, se si era eccitata al punto da dimenticarselo! Si ricordava vagamente quel che era successo e non gliene importava nulla, perché aveva la sensazione che mentre lei era stata coraggiosa e pronta a sacrificarsi, Ulrich aveva avuto paura. Ora voleva solamente congedarsi da lui con perfetto cameratismo, perché non rimanessero equivoci. Disse con disinvoltura: «Sarà meglio che tu non racconti a Walter di questa visita, e che quello di cui abbiamo parlato rimanga tra noi fino alla prossima volta» (724-730).
Clarisse è questa; adegua la vita ai propri, singolari pensieri; irrompe a casa dell’amico d’infanzia di suo marito, gli si avventa contro e tenta di sedurlo affinché concepisca con lei il «redentore del mondo». No, Clarisse, la «verginale ed eroica» Clarisse non può accettare che lui e Walter diventino dei semplici «borghesucci», dei «porcaccioni», ricordando Roquentin [4]. Ulrich lascia Vienna e si reca alla casa paterna, a causa della morte improvvisa del genitore. Qui riceve una lettera di Clarisse, che le dichiara di voler incontrare l’assassino Moosbrugger.
III. Clarisse e Moosbrugger
Proprio come Ulrich, anche Clarisse mostra un grande interessamento per l’assassino Moosbrugger. Lo trova «musicale», ed è per lei un mezzo potente, che le permette di scivolare, se possibile, ancor più facilmente del solito nelle sue accese fantasie: «Clarisse mordeva la radice dell’amore, che è contraddittoria, fatta di baci e morsi, di sguardi che s’incontrano e occhi che all’ultimo momento si tirano indietro infastiditi. “L’armonia porta all’odio?”, si domandava. “Il perbenismo richiede la brutalità? Ciò che è pacifico ha bisogno della ferocia? L’ordine pretende di essere sconvolto?”. Questo era e non era ciò che Moosbrugger le suscitava. Nel rombo della musica un incendio universale era sospeso sopra di lei; un incendio non ancora divampato che di nascosto consumava l’impalcatura. Ma era come in una similitudine, in cui i termini sono gli stessi ma anche completamente diversi, e dalla differenza dell’uguale, come dall’uguaglianza del diverso si innalzano due colonne di fumo, con il profumo fiabesco di mele cotte al forno e di rami d’abete gettati nel fuoco» (177). Nella sua fervida e incontrollabile immaginazione, scatenata come un cavallo imbizzarrito o come una di quelle naiadi drogate e ubriache che decapitarono Orfeo, Clarisse libera l’assassino: «Toccò con la punta delle dita il torrente della musica. Nel letto del torrente cadevano serpenti e lacci. E allora si aprì, come una baia tranquilla, la prigione in cui Moosbrugger era tenuto nascosto. I pensieri di Clarisse entrarono tremanti nella sua cella. “Si deve far musica fino alla fine!”, ripeteva tra sé per darsi coraggio, ma aveva il cuore in gola. Quando quel tremore si calmò, la cella era colma del suo Io. Era un sentimento lieve come balsamo su una ferita, ma quando Clarisse volle farlo proprio per sempre, iniziò a frantumarsi e si dissolse come una favola o un sogno. Moosbrugger stava seduto reggendosi il capo, e lei gli sciolse i ceppi. Mentre muoveva le dita, forza, coraggio, virtù, bontà, bellezza, ricchezza entrarono nella cella, come un vento evocato dai suoi movimenti che giungeva ora da un prato ora dall’altro. “È del tutto indifferente come io riesca a farlo”, sentiva Clarisse, “la cosa importante è che lo faccia!”. Egli pose le mani, una parte del proprio corpo sugli occhi, e quando levò le dita, Moosbrugger era diventato un bel giovane, e lei gli era accanto, una donna bellissima dal corpo dolce e morbido come un vino del Sud e nient’affatto riluttante, com’era invece solitamente il corpo della piccola Clarisse. “È l’immagine della nostra innocenza”, osservò in uno strato profondo e pensante della sua coscienza» (179).
L’Azione parallela è alla disperata ricerca di idee e Clarisse, per lettera, avanza la sua proposta: organizzare un anno austriaco in onore di Nietzsche e fare qualcosa per Moosbrugger, uniti da una significativa coincidenza: entrambi malati di mente. Queste le ragioni della sua proposta, in cui si rispecchia ancora una volta l’idea di Clarisse di essere una sorta di eletta: «Ho scritto una lettera al conte Leinsdorf proponendo un “anno-Nietzsche” e chiedendo che fosse liberato l’assassino di donne e magari che fosse esposto in pubblico, per testimoniare il calvario di coloro che devono farsi carico delle colpe sparse di tutti; e ora so anche perché l’ho fatto. Bisogna pronunciare la prima parola. Probabilmente non si è espressa bene, ma non fa nulla; l’importante è incominciare a farla finita con la tolleranza e il lasciar correre. È storicamente dimostrato che il mondo di tanto in tanto – “di millennio in millennio” sentiva risuonare all’orecchio, come due campane che per quanto vicine, non si vedono bene – ha bisogno di persone così: che non accettano di collaborare all’azione e alla menzogna, e per questo provocano sdegno e scandalo» (495).
La missione di cui si sente investita dall’alto Clarisse oscilla tra il concepimento del «redentore del mondo» e la liberazione di Moosbrugger. La questione della maternità tocca il culmine con la proposta di Clarisse ad Ulrich, rifiutata da quest’ultimo, come abbiamo già visto. Lontano da Vienna per la morte del padre, Ulrich riceve la seguente lettera di Clarisse:
Mio tesorino, mio codardino, mio ino!
Sai che cos’è un ino? Non so come spiegarlo. Forse Walter è un debolino. (La sillaba “ino” era sempre sottolineata con un tratto di penna marcato).
Pensavi che fossi ubriaca quando sono venuta da te? Io non riesco a ubriacarmi. (Gli uomini si ubriacano più in fretta di me. Un fatto singolare).
Ma non so che cosa ti ho detto; non me lo ricordo. Temo che tu possa immaginare che io abbia detto cose che non ho detto. Non le ho dette.
Ma questa deve diventare una lettera… immediatamente! Dapprima: tu sai come si aprono i sogni. Sai, quando a volte sogni di essere già stato lì, con quella persona hai già parlato, oppure… È come se ritrovassi la tua memoria.
Io so da sveglia di aver vegliato!
(Ho amici di sonno).
Ricordi ancora chi è Moosbrugger? Devo raccontarti una cosa:
D’un tratto m’è tornato alla mente il suo nome.
Quelle tre sillabe musicali.
Ma la musica è vertigine. Intendo quando è sola. La musica da sola è estetismo o qualcosa di simile; debolezza di vita. Ma quando la musica si unisce alla vista, allora i muri vacillano, e dalla fossa del presente sorge la vita di coloro che verranno. Quelle tre sillabe musicali non le ho solo udite, io le ho anche viste. Sono emerse nel ricordo. D’un tratto lo sai con certezza, là dove emergono, c’è ancora dell’altro! È vero, una volta ho scritto al tuo conte una lettera su Moosbrugger: come si può dimenticare una cosa del genere! Adesso io odo-vedo un mondo nel quale le cose stanno ferme e le persone si muovono, così come le hai sempre conosciute, ma in una sensazione sonoro-visiva. Non posso descriverlo con precisione perché finora ne sono emerse soltanto tre sillabe. Lo capisci? Forse è ancora troppo presto per parlarne.
Ho detto a Walter: «Voglio conoscere Moosbrugger!».
E Walter ha chiesto: «Ma chi è Moosbrugger?».
Ho risposto: «L’assassino, l’amico di Ulo».
Avevamo letto il giornale; era mattina, e Walter doveva andare in ufficio. Ti ricordi quella volta che leggevamo tutti e tre insieme il giornale? (Hai la memoria corta, di certo non te lo ricorderai!). Avevo dunque aperto la parte del giornale che Walter mi aveva passato… un braccio a sinistra, un braccio a destra: improvvisamente sento del legno duro, sono inchiodata alla croce. Chiedo a Walter: «Non era solo ieri che sul giornale si parlava di un incidente ferroviario vicino a Budweis?».
«Sì», risponde lui, ðperché me lo chiedi? Un incidente non particolarmente grave, un morto o due».
Dopo un po’ dico: «Perché anche in America c’è stato un incidente. Dov’è la Pennsylvania?».
Lui non lo sa. «In America», risponde.
Io dico: «I macchinisti non fanno mai scontrare apposta le locomotive».
Lui mi guarda. È chiaro che non mi capisce. «Ovviamente no», dice.
Gli domando quando verrà da noi Siegmund. Walter non lo sa con certezza.
E ora vedi: è naturale che i macchinisti non facciano scontrare apposta i loro treni, per il puro gusto di far del male; ma allora perché lo fanno? Te lo dico io: in quella gigantesca rete di rotaie, scambi e segnali che attraversano l’intero globo terrestre noi tutti ci liberiamo la coscienza. Perché se avessimo la forza di riesaminarci e di riconsiderare il nostro compito, faremmo sempre il necessario per evitare gli incidenti. L’incidente è il nostro fermarci al penultimo passo!
Ovviamente non ci si può aspettare che Walter lo comprenda al volo. Io credo di poter arrivare a questa immensa forza d’animo, e ho dovutp chiudere gli occhi perché Walter non notasse il lampo che li attraversava.
Per tutte queste ragioni ritengo che sia mio dovere conoscere di persona Moosbrugger.
Come sai, mio fratello Siegmund è medico. Mi aiuterà lui.
L’ho aspettato.
Domenica è venuto da noi.
[…]
«Siegmund», gli ho detto davanti a Walter, «quando capisci un pezzo musicale?».
Lui ha ghignato e ha risposto: «Proprio mai».
«Quando lo crei tu stesso dentro di te», ho detto io. «Come fai a capire una persona? Devi farti insieme con lei». Farsi insieme! Questo è un grande mistero, Ulrich! Devi essere come quella persona: ma non tu dentro di lei, lei fuori di te! Noi redimiamo dal di fuori: questa è la forma forte! Noi ci intromettiamo nelle azioni degli uomini, le portiamo a compimento e ci innalziamo al di sopra di esse.
Scusa se scrivo così tanto in proposito. Ma i treni si scontrano perché la coscienza non compie l’ultimo passo. I mondi non affiorano se non li tiriamo fuori. Un’altra volta ti dirò di più. La persona geniale ha il dovere di aggredire! Ne ha la forza inquietante! Ma Siegmund, quel vigliacco, ha guardato l’ora ricordandoci che bisognava cenare, perché lui poi doveva tornare a casa. Sai, Siegmund si tiene sempre in equilibrio tra lo snobismo di un medico esperto, che non apprezza più di tanto le possibilità della sua professione, e lo snobismo dell’uomo moderno che, al di là della tradizione spirituale, è già ritornato all’igiene della semplicità e del giardinaggio. Ma Walter ha esclamato: «Per l’amore di Dio, perché parlate di queste cose? Che cosa volete in realtà da questo Moosbrugger?», e questo è stato d’aiuto.
Perché quindi Siegmund ha detto: «O è un malato di mente o è un criminale, questo è vero. Ma se ora Clarisse s’immagina di poterlo raddrizzare? Io sono medico e devo permettere che anche il cappellano dell’ospedale se lo immagini! Lei dice redimere? Ebbene perché non dobbiamo almeno farglielo vedere?».
Con una calma ostentata si è spazzolato i pantaloni e lavato le mani; e poi a cena ci siamo accordati su tutto.
Siamo già stati anche dal dottor Friedenthal, l’assistente che lui conosce. Siegmund ha dichiarato apertamente che si sarebbe preso la responsabilità di introdurmi sotto falso nome, dicendo che ero una scrittrice e volevo vedere quell’uomo.
[…]
Alla fine ci siamo accordati che avrei visto non il malato, ma il prigioniero Moosbrugger. Siegmund mi procura la raccomandazione di un’associazione benefica e un permesso del tribunale. Poi Siegmund mi ha raccontato che il dottor Friedenthal considera la psichiatria una disciplina a metà strada tra la scienza e l’arte, e l’ha definito direttore d’un circo di demoni. A me però tutto questo piace.
La cosa più bella è che la clinica si trova in un vecchio monastero. Abbiamo dovuto aspettare fuori; l’aula in cui si tengono le lezioni è una cappella con grandi finestre da chiesa, e dal cortile ho potuto guardarci dentro. I malati indossano vesti bianche e sono seduti in cattedra accanto al professore. E il professore si rivolge a loro con grande cordialità. Mi sono detta: adesso forse portano Moosbrugger. Avevo la sensazione che allora sarei potuta volare nella sala attraverso i finestroni. Tu dirai che non so volare: sarei saltata quindi dalla finestra? No, questo di certo non lo avrei fatto, perché non lo sentivo.
Spero che tu torni presto. Mai si possono esprimere le cose. Tanto meno per lettera (781-784).
Si tratta dell’ennesima dimostrazione dell’originalità – talvolta davvero conturbante – della personalità di Clarisse, che ora intende avvalersi dell’influenza di Ulrich per poter conoscere Moosbrugger. Walter si oppone a questo proposito della moglie, teme ogni giorno di più per la salute mentale di Clarisse, ma la sua volontà si infrange contro il muro d’acciaio dell’ostinazione di Clarisse, muro rinforzato dalla presenza del «maestro» Meingast, pensatore epigono di Nietzsche e antico seduttore di Clarisse, che la esorta ad esaudire il proprio desiderio. E proprio grazie alla mediazione di Ulrich, Clarisse, accompagnata proprio dal protagonista, dal fratello Siegmund e dal generale Stumm, riesce a visitare il manicomio in cui è rinchiuso Moosbrugger. Finalmente nell’istituto, Clarisse pensa a Nietzsche: «Era immersa nei suoi pensieri preferiti. Nietzsche: “Esiste un pessimismo della forza? Un’inclinazione intellettuale alla durezza, all’orrore, alla malvagità e alla problematicità dell’esistenza? Un’aspirazione al terribile come degno nemico? Forse la follia non è necessariamente un sintomo di degenerazione?”. Non pensava queste frasi alla lettera, ma le ricordava come un tutto; i suoi pensieri le avevano ridotte in un pacchetto piccolissimo che occupava magicamente il minimo spazio, come gli arnesi di uno scassinatore. Quella visita era per lei metà filosofia e metà adulterio» (1066). Accompagnata dalle citazioni tratte dalla Nascita della tragedia, Clarisse viene condotta nella stanza degli idioti gravi: «Sentendo il suo sguardo su di sé, Clarisse alzò gli occhi verso di lui [il dottor Friedenthal, vero e proprio Virgilio in questa visita agli inferi] con il suo sorriso sottile e gli andò incontro, ma prima di poter dire qualcosa un’impressione terribile fece dileguare in lei qualsiasi capacità di riflessione. Nella nuova stanza erano avvinghiati o seduti sui letti una serie di orrori. Tutto in quei corpi era storto, sporco, deforme o paralitico. Denti guasti. Teste ciondolanti. Troppo grandi o troppo piccole, e del tutto sproporzionate. Mandibole cadenti da cui colava saliva, o l’animalesco movimento trituratore di bocche in cui non c’era né cibo né parola. Barriere plumbee profonde metri sembravano separare quelle anime dal mondo e, dopo il riso e il bisbiglio leggero dell’altra stanza, giungeva qui all’orecchio un silenzio tetro, rotto soltanto da grugniti e borbottii oscuri. Tra le brutture del manicomio questi reparti di idioti gravi sono una delle esperienze più sconvolgenti, e Clarisse si sentì semplicemente precipitare in un impenetrabile orrore nero in cui non si distingueva più nulla» (1071).
Nel corso della narrazione, Musil sottolinea la difficoltà di descrivere un luogo terribile come il manicomio – egli stesso ne visitò uno, a Roma, alla fine degli anni Venti, e queste pagine dell’Uomo senza qualità si fondano proprio su quella esperienza straniante -, paragonandolo in ciò all’inferno, ma da una prospettiva assai particolare, insolita: «L’inferno non è interessante, è spaventoso. Quando non lo si è umanizzato – come fece Dante che lo popolò di letterati e di personaggi illustri, distogliendo così l’attenzione dall’aspetto tecnico del castigo – ma si è tentato di darne una rappresentazione autentica, anche gli individui più fantasiosi non sono andati al di là di ridicole torture e di misere distorsioni di qualità terrene. Tuttavia proprio il pensiero vuoto della pena e del tormento infiniti, irrappresentabili e dunque ineluttabili, il presupposto di un peggioramento del tutto indifferente a ogni sforzo contrario, proprio questo possiede l’attrazione di un abisso. Così sono anche i manicomi. Case di poveri. Possiedono qualcosa della mancanza di fantasia dell’inferno» (1072). Il manicomio è uno di quei luoghi di cui si tende a sopravvalutare gli orrori, sopravvalutazione dovuta forse alla sopravvalutazione di sé, continua Musil, e persino Clarisse, che nella sua immaginazione imbizzarrita si era creata chissà quale assurda immagine, prova una certa delusione. Ma siamo solo all’inizio, il “bello” deve ancora venire. Questo il reparto degli agitati: «Ciò che era seduto sui letti sbatteva eccitato braccia e occhi urlando; era come se ognuno sbraitasse in uno spazio riservato a lui solo, eppure tutti insieme parevano coinvolti in una conversazione frenetica, come uccelli esotici racchiusi in una stessa gabbia in cui ciascuno parla il linguaggio di un’isola diversa. Alcuni sedevano liberi, altri erano legati al bordo del letto con cinghie che lasciavano solo un minimo gioco alle mani. “Per il pericolo di suicidio”, spiegò il dottore ed elencò le malattie: paralisi, paranoia, Dementia Precox e altre ancora erano le razze a cui appartenevano quegli uccelli esotici» (1073). Proprio in questo reparto Clarisse ha a che fare con un folle che la crede il settimo figlio dell’imperatore e infine si masturba davanti a lei:
In principio Clarisse si sentì nuovamente intimidita da quella confusione e non riusciva a raccapezzarsi. Le sembrò allora un segno amichevole che da lontano uno le facesse cenno calorosamente e le gridasse parole mentre lei era ancora a parecchi letti di distanza. Si agitava nel suo letto come se volesse disperatamente liberarsi per correrle incontro, sovrastava il coro con le sue proteste e i suoi scoppi d’ira, attirando sempre più l’attenzione di Clarisse. Quanto più gli si avvicinava, tanto più si sentiva turbata dalla sensazione che stesse parlando solo a lei, ma non era affatto in grado di comprendere cosa volesse dirle. Quando infine gli furono vicini il capo infermiere riferì qualcosa al medico così sottovoce che Clarisse non capì, e Friedenthal diede qualche disposizione con un’espressione molto seria in volto. Poi si rivolse al malato con una battuta. Il pazzo non rispose immediatamente, ma d’un tratto chiese: «Chi è il signore?», e con un gesto fece capire che alludeva a Clarisse. Friedenthal indicò il fratello, e rispose che era un medico di Stoccolma. «No, questo!», replicò il malato e insisté nell’indicare Clarisse. Friedenthal sorrise e disse che era una dottoressa di Vienna. «No. Questo è un signore», obiettò il pazzo, e tacque. Clarisse sentì un tuffo al cuore. Anche questo dunque la prendeva per un uomo!
Poi il malato disse lentamente: «Era il settimo figlio dell’imperatore».
Stumm von Bordwehr diede una gomitata a Ulrich.
«Non è vero», fu la risposta di Friedenthal, che proseguì il gioco e si rivolse a Clarisse esortandola: «Glielo dica lei che si sbaglia!».
«Non è vero, amico mio», disse Clarisse piano al malato, e per l’agitazione non riusciva quasi a proferire parola.
«Ma tu sei il settimo figlio!», ribatté l’altro testardo.
«No, no», assicurò Clarisse e sorrise per l’emozione, come in una scena d’amore con le labbra contratte dalla febbre della ribalta.
«Sei tu!», ripeté il malato, e la fissò con uno sguardo che lei non seppe decifrare. Non aveva idea di come rispondergli ancora, con un’espressione gentilmente smarrita guardò negli occhi il matto che la riteneva un principe, e continuò a sorridere. Intanto dentro di lei accadeva qualcosa di singolare: prendeva forma la possibilità di dargli ragione. Sotto la pressione di quell’affermazione più volte ripetuta qualcosa si scioglieva in Clarisse, in qualche modo lei perdeva il dominio sui propri pensieri e si creavano nuovi nessi dai contorni annebbiati: non era il primo che voleva sapere chi fosse e che la prendeva per un “signore”. Ma mentre lei era ancora impigliata in quei singolari legami e lo fissava senza riuscire a cogliere né l’età né gli altri residui della vita libera che il suo viso aveva ancora impressi, in quel volto e nell’intera persona avvenne qualcosa di assolutamente incomprensibile. Era come se lo sguardo di Clarisse diventasse all’improvviso troppo pesante per gli occhi su cui si posava, perché lei cominciò a vederli scivolare e cadere. Ma anche le labbra vennero colte da un movimento convulso e, come gocce pesanti che scendevano sempre più fitte all’indecifrabile chiacchierio, si mischiarono chiare oscenità. Clarisse fu turbata da quella sottile trasformazione, come se anche a lei sfuggisse qualcosa, e istintivamente tese le braccia al malato; e prima che qualcuno potesse impedirglielo, il matto fece un balzo verso di lei, si liberò della coperta, s’inginocchiò in fondo al letto e incominciò a maneggiare il suo membro come le scimmie si masturbano in cattività. «Non fare porcherie!», disse il medico con prontezza e severità, mentre gli infermieri afferravano uomo e coperte rendendolo in un batter d’occhio un fagotto inerte. Ma Clarisse aveva il volto in fiamme; era confusa come quando in ascensore si ha improvvisamente la sensazione che manchi la terra sotto i piedi. A un tratto le sembrò che tutti i malati davanti a cui era già passata le gridassero dietro, mentre quelli ai quali doveva ancora avvicinarsi le gridassero contro. E il caso volle, o la forza contagiosa dell’agitazione, che anche il successivo, un vecchio cordiale che aveva rivolto battute bonarie ai visitatori, ancora abbastanza lontani, appena Clarisse gli passò accanto saltò su cominciando a imprecare con parole scurrili che gli lasciavano sulla bocca una schiuma ripugnante. Le mani degli infermieri bloccarono anche lui, come pestelli pesanti che sgretolano ogni resistenza (1074-1075).
Tra gli assassini e altri pazzi criminali, Clarisse per la prima volta si rende conto del dolore che causerebbe a Walter se lo lasciasse, e si intromette nel dialogo, o meglio non-dialogo, tra il fratello Siegmund e un internato particolarmente agitato, riuscendo a calmarlo:
Ma a questo punto si manifestò di nuovo in Clarisse il desiderio di intromettersi! In qualche modo quel desiderio si era rafforzato con il martellare delle risposte, e improvvisamente lei non riuscì più a trattenersi, si avvicinò al malato e disse: «Vengo da Vienna». Era assurdo come un suono uscito casualmente da una tromba. Non sapeva né perché lo avesse detto né come le fosse venuto in mente, e neppure si era chiesta se l’uomo sapesse in quale città si trovava, e se lo avesse saputo, la sua osservazione sarebbe stata più assurda che mai. Nel farlo però si sentì enormemente fiduciosa. E a volte davvero avvengono ancora miracoli, anche se solo nei manicomi: mentre lei parlava infiammata d’eccitazione e in piedi dvanti all’assassino, a un tratto un bagliore illuminò il pazzo; i suoi denti tritasassi si ritirarono sotto le labbra e lo sguardo pungente divenne benevolo. «Oh, la magnifica Vienna! Una città splendida!», disse con l’orgoglio del borghese di un tempo che sa parlare forbito.
«Mi congratulo con lei!», disse il dr. Friedenthal ridendo.
Ma per Clarisse l’episodio era divenuto molto importante (1078-1079).
Son tutti segni che Clarisse accumula dentro di sé, che contribuiscono a rafforzare in lei l’idea della propria unicità. Purtroppo Clarisse, a causa di un contrattempo che allontana Friedenthal-Virgilio, non riesce ad incontrare Moosbrugger. Un grande peccato… Chissà che pagine memorabili ci avrebbe regalato Musil!
Clarisse possiede la veemenza di un quadro espressionista – e penso soprattutto a Schiele per le sue forme essenziali e a Soutine per i suoi toni accesi -. Del resto, è quanto scrive Musil: «aveva una spontaneità tutta sua, e il suo pensiero ricordava quei quadri moderni dipinti a colori puri non mescolati, che sono duri e piatti, ma quando ci si fa l’occhio si rivelano spesso di una verità sorprendente» (914).
Note
[1] Le donne dell’Uomo senza qualità: la «grande e marmorea» Diotima.
[2] Per un approfondimento sul protagonista del romanzo di Musil rimando agli articoli Ulrich, l’uomo senza qualità. Prima parte e Ulrich, l’uomo senza qualità. Seconda parte.
[3] Robert Musil, L’uomo senza qualità, traduzione di Irene Castiglia, op. cit., p. 78. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[4] Per un approfondimento sul romanzo di cui Roquentin è protagonista rimando all’articolo Jean-Paul Sartre, La nausea: l’Assurdità chiave dell’Esistenza.