Edmund Blair Leighton, Tristano e Isotta, 1902.

Il Novellino, la prima raccolta di novelle della letteratura italiana

Novellino è il titolo della prima raccolta di novelle della letteratura italiana; si tratta dunque del testo che inaugura la secolare storia di uno dei generi letterari più fortunati, in assoluto, il racconto. Composto negli ultimi due decenni del XIII secolo, il Novellino venne ritrovato e pubblicato nel Cinquecento, nella versione attuale di cento novelle. Assai controversa e discussa la questione dell’autore: l’ipotesi più accreditata non ne individua uno solo, ma diversi – e non è affatto da escludere un intervento diretto dei singoli copisti, che sarebbero intervenuti tagliando, spostando e inserendo nuovi testi -, e che un compilatore abbia raccolto l’intero materiale aggiungendovi di suo pugno il proemio.

Le novelle raccolte coprono in sostanza l’intera storia del genere umano, svariando dalla guerra di Troia all’attualità. Direttamente proporzionale al dilatamento storico-temporale è il dilatamento geografico: nel Novellino compaiono tutti i luoghi allora conosciuti, dall’originaria Firenze – originaria perché è qui che il libro affonda le sue radici – all’India, passando per l’Egitto, l’Inghilterra, la Provenza. Svariati ovviamente anche i personaggi, provenienti dal mito classico, biblico, medievale, dalla storia, propriamente tale, e culturale (compaiono ad esempio Socrate e Diogene), e gli argomenti, che spaziano dall’esempio morale al comportamento sociale, dal motto arguto alla beffa. E questa varietas di fonti, luoghi, personaggi e temi, disposti del tutto casualmente, senza seguire una linea guida narrativa, costituisce proprio il punto di forza del Novellino, la sua cifra, e il suo carattere estremamente innovativo. Ma non solo il passato, nel libro trova spazio anche il presente; in esso compaiono, soprattutto nella fase finale, personaggi caratteristici della nuova civiltà urbana: popolani, villani, ragazzi di bottega, mercanti, frati, in una miscela di umanità senza precedenti.

Questo libro tratta d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be’ risposi e di belle valentie e doni, secondo che per lo tempo passato hanno fatto molti valenti uomini.

Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente con noi, in fra l’altre sue parole ne disse che dell’abondanza del cuore parla la lingua. Voi c’avete i cuori gentili e nobili in fra li altri, acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di Dio, parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore Nostro, che n’amò prima che Elli ne criasse e prima che noi medesimi ci amassimo. E se in alcuna parte, non dispiacendo a lui, si può parlare per rallegrare il corpo e sovenire e sostentare, facciasi con più onestade e con più cortesia che fare si puote.
Et acciò che li nobili e ’ gentili sono nel parlare e nell’opere molte volte quasi com’uno specchio appo i minori — acciò che il loro parlare è più gradito però che esce di più dilicato stormento —, facciamo qui memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori, secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti. E chi avrà cuore nobile et intelligenzia sottile, si li potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi et argomentare e dire e raccontare (in quelle parti dove avranno luogo), a prode et a piacere di coloro che non sanno e disiderano di sapere.
E se i fiori che proporremo fossero mischiati intra molte altre parole, non vi dispiaccia: ché ’l nero è ornamento dell’oro, e per un frutto nobile e dilicato piace talora tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto un giardino. Non gravi a’ leggitori che sono stati molti che sono vivuti grande lunghezza di tempo et in vita loro hanno appena tanto: un bel parlare, overo una cosa, da mettere in conto fra i buoni.

Il proemio del Novellino riveste un’importanza straordinaria. Innanzitutto l’autore scrive con l’obiettivo di fornire al genere della novella un’alta dignità letteraria che fino ad ora non ha mai avuto, e proprio in questo senso va letto l’iniziale riferimento a Cristo e al Vangelo secondo Luca. Cristo stesso ha sostenuto con convinzione il valore altissimo della parola: «L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore», questo è il passo evangelico al quale si rifà l’autore del proemio. Della parola egli sottolinea la primaria importanza, e quanto effettivamente la parola nella prospettiva religiosa cristiana si imponga come componente costitutiva dell’uomo e di tutto il creato, e della stessa mente divina, lo dimostra chiaramente il celebre primo verso del prologo del Vangelo secondo Giovanni: «In principio era il Verbo», la cui traduzione darà tanto filo da torcere al Faust goethiano.

L’autore si rivolge a coloro che hanno «i cuori gentili e nobili in fra li altri», il che potrebbe far pensare ad una cerchia ristretta, aristocratica, ma non è così. È la scelta del genere letterario a cui si è deciso di ricorrere, la novella, a rivelare il carattere democratico del Novellino, dedicato ad un pubblico ampio, eterogeneo, ben più ampio ed eterogeneao di quello a cui si rivolge la coeva lirica stilnovistica, davvero rivolta ad un gruppo ristretto di iniziati all’amore, con lo scopo di «rallegrare il corpo e sovenire e sostentare».

Il tema fondamentale attorno al quale ruota il proemio è quello della scrittura, e in particolar modo della scrittura in prosa, è questa infatti l’accezione del verbo «parlare». E l’autore invita a «parlare», ovvero a scrivere, «con più onestade e con più cortesia che fare si puote», rispondendo così ancora all’obiettivo di fornire un’alta dignità letteraria alla novella. A ciò si aggiunga un altro ambizioso programma, un programma di divulgazione culturale e sociale, enunciato allorquando l’autore invita il lettore ideale ad essere «nel parlare e nell’opere molte volte quasi com’uno specchio appo i minori», soprattutto «prode et a piacere di coloro che non sanno e disiderano di sapere». L’orizzonte si amplia, si dilata anch’esso, con l’autore che non esclude neppure una libera fruizione orale dei testi raccolti nel Novellino.

Qui conta della reina Ysotta e di messer Tristano di Leonis

Amando messer Tristano di Cornovaglia Ysotta la bionda, la moglie del re Marco, si fecero tra loro un segnale d’amore di cotal guisa: che quando messere Tristano le volea parlare, si andava ad un giardino del re Marco, nel quale avea una fontana, e intorbidava il rigagnolo ch’ella facea, il quale passava per lo palazzo dove stava la detta Ysotta; e quando ella vedea l’acqua torbidata, si pensava che Tristano era alla fontana.
Or avenne c’uno malaventurato giardiniere se n’avide, di guisa che li due amanti neente il poteano credere. Quel giardiniere andò allo re Marco, e contolli ogni cosa com’era.
Lo re Marco si diede a crederlo; sì ordinò una caccia, e partissi da’ suoi cavalieri siccome si smarisse da·lloro. Li cavalieri lo cercavano erranti per la foresta, e lo re Marco n’andò in sul pino ch’era sopra la fontana ove messere Tristano parlava alla reina.
E, dimorando la notte lo re Marco in sul pino, e messere Tristano venne alla fontana e intorbidolla; e poco tardante la reina venne alla fontana, ed a ventura le venne un bel pensero: che guardò il pino, e vide l’ombra più spessa che non solea. Allora la reina dottò e, dottando, ristette, e parlò con Tristano in questa maniera e disse:
«Disleale cavaliere, io t’ho fatto qui venire per potermi compiagnere di tuo gran misfatto: ché giamai non fu cavalier con tanta dislealtade quanta tu hai per tue parole: ché m’hai unita, e lo tuo zio re Marco, che molto t’amava: ché tu se’ ito parlando di me intra·lli erranti cavalieri cose, che nello mio cuore non poriano mai discendere; — et inanzi darei me medesima al fuoco, ch’io unisse così nobile re com’è monsignor lo re Marco. Onde io ti diffido di tutta mia forza, siccome disleale cavaliere, sanza niun’altro rispetto».
Tristano, udendo queste parole, dubitò forte e disse:
«Madonna, se ’ malvagi cavalieri di Cornovaglia parlan di me, tutto primamente dico che giamai io di queste cose non fui colpevole. Merzé, donna, per Dio: elli hanno invidia di me, ch’io giamai non dissi né feci cosa che fosse disinore di voi, né del mio zio re Marco. Ma, dacché vi pur piace, ubbidirò a’ vostri comandamenti: andronne in altre parti a finire li miei giorni. E forse, avanti ch’io mora, li malvagi cavalieri di Cornovaglia avranno sofratta di me, siccome elli ebbero al tempo de l’Amoroldo, quand’io diliverai loro e lor terre di vile e di laido servaggio».
Allora si dipartiro, sanza più dire; e lo re Marco, ch’era sopra loro, quando udì questo, molto si rallegrò di grande allegrezza.
Quando venne la mattina, Tristano fe’ sembianti di cavalcare: fe’ ferrare cavalli e somieri; valletti vegnono di giù e di sù: chi ponta freni e chi selle: il tremuoto era grande.
Il re s’adira forte del partire di Tristano, e raunò ’ baroni e ’ suoi cavalieri, e mandò comandando a Tristano che, sotto pena del cuore, non si partisse sanza suo commiato. Tanto ordinò il re Marco, che·lla reina ordinò e mandolli a dire che non si partisse: — e così rimase Tristano a quel punto, e non si partì. E non fu sorpreso né ingannato per lo savio avedimento ch’ebbero intra·llor due.

Esemplificativa del metodo novellistico questo breve testo: la materia tratta dalla tradizione, in questo caso dal romanzo cavalleresco, diffusissimo, viene reinterpretata e, sostanzialmente, smitizzata, svalutata, attraverso un processo di normalizzazione, di umanizzazione all’insegna dell’inganno e della beffa, due temi particolarmente cari al genere (viene in mente subito Boccaccio). Questo testo manifesta inoltre il passaggio dall’exemplum alla narrazione descrittiva di un frammento di vita, che si pone l’obiettivo non di fornire norme di comportamento, ma di dilettare.

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