
Carboncino su carta.
Era il 13 marzo del 1856. Un giovedì, le cinque. Il risveglio improvviso è un lampo che sul volto di Charles Baudelaire si accende come la luce della folgorazione poetica, con il tuono del mondo che irrompe su chi vagava nella landa dell’oppio e dell’assenzio. Tutto questo per un mobile spostato nella stanza a fianco, più di un secolo e mezzo fa: praticamente, archeologia delle abitudini inopportune.
Il sogno del Museo-Postribolo è giunto a noi perché Baudelaire ha deciso di trattenerlo, portarlo al tempo delle condizioni esistenti mettendolo inchiostro su carta, i due materiali che in quegli anni più consistevano della sua esistenza terrena.
Scrive immediatamente ad Asselineau, amico fidato che dopo la sua morte sarà il curatore di tutte queste sue carte, e così giunge a noi, che non possiamo interpretarlo.
“Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo.” Non è vero: vorremmo, ed anche se è inveterata l’abitudine di dover associare la Poesia al Poeta e il Poeta all’interpretazione, Baudelaire sa rappresentare l’eccezione in cui l’insondabile si lascia percepire per immagini incosistenti, profumi, colori subitanei e impressioni di cielo pesante e umido sopra la testa, ancora oggi. Per non parlare dell’alcool.
Ci asterremo quindi dalle interpretazioni, che sono peraltro già state avanzate da menti più preparate e brillanti della nostra, e alle quali non osiamo accostarci. Per il momento.
Non diremo che tutto sommato, dopo un secolo e mezzo scaduti, l’associazione del Museo col Postribolo risulti ai molti quanto mai efficace, che si sia conosciuta la lettera di Baudelaire o meno. Che si sia del campo o meno: i primi sottacendo la battuta ad effetto, gli altri appena usciti dopo un assalto domenicale durato ore, dove poco si è visto e molto, troppo, si è ascoltato.
Non diremo che questo è merito di almeno due decenni di lassismo e di ritardi, di stasi imposta e immobilismo di convenienza ai quali si è deciso di far fronte riuscendo in uno scimmiottamento talvolta negativo della gestione museale britannica, francese o americana, dando vita a ibridi pop in cui si assistono a molte esibizioni, ma poche, pochissime mostre.
Non diremo questo ed altro, perché premieremo sempre gli Uomini e le Donne di buona volontà, che sappiamo non mancare, e che speriamo ogni giorno trovino i mezzi adatti alla loro Missione.
Non diremo, soprattutto, che la condizione dell’Esistenza è indissolubilmente legata a quella della Non-Esistenza. Così, quella del Sogno e quella della Realtà. Della Carne e dello Spirito, del Sesso e di Dio. Della Poesia e dell’Oscenità pura, soprattutto se fine a sé stessa.
Tutto questo non può non vivere nella consistenza dell’Arte, ed il Sogno di Baudelaire è ancora qui a rammentarci che ogni tentativo di tacito perbenismo intellettuale è fallace fin tanto che non capiremo come dietro la censura e l’interesse commerciale ci sia una immancabile, irriducibile, fastidiosa perdita di Senso.
Come nel Sogno, al termine di tutte le stanze della Galleria-Bordello troveremo ad aspettarci sul piedistallo un Mostro, in parte Uomo in parte Animale, in parte Dio e in parte Materia Scadente.
Incontreremo questo Altro da Noi, che ci racconterà «delle sue noie e dei suoi dolori», e comprenderemo solo allora che interessandoci al Mostro comprenderemo noi stessi, dentro le Arti.
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“Erano (nel mio sogno) le due o le tre del mattino, e passeggiavo da solo per la strada. Incontro Castille, che aveva, credo, varie commissioni da fare, e gli dico che l’accompagnerò e che approfitterò della carrozza per fare una commissione personale. Così prendiamo una carrozza. Ritenevo mio dovere offrire alla tenutaria di una grande casa di prostituzione un mio libro che era appena uscito. Guardando il libro che tenevo in mano, risultò che era un libro osceno, il che mi spiegò la necessità di offrire l’opera a quella donna. Inoltre, nella mia testa, tale necessità era in fondo un pretesto, un’occasione per scopare, trovandomi là, una delle ragazze della casa, e questo implica che, senza la necessità di offrire il libro, non avrei osato andare in una casa del genere. Non dico niente di tutto questo a Castille, faccio fermare la carrozza davanti alla porta di quella casa e lascio Castille nella carrozza, ripromettendomi di non farlo aspettare a lungo. Subito dopo aver suonato ed essere entrato, mi accorgo che il mio cazzo pende dall’apertura sbottonata dei pantaloni, e decido che è indecente presentarsi così, anche in un luogo di quel genere. Inoltre, poiché mi sento i piedi molto bagnati, mi accorgo che ho i piedi nudi, e che li ho messi in una pozza umida alla base della scala. Bah! – Mi dico, – li laverò prima di scopare, e prima di uscire dalla casa. – Salgo. – Da questo momento in poi il libro non compare più. – “Mi trovo in vaste gallerie, comunicanti, – mal illuminate, – dall’aspetto triste e cadente, come i vecchi Café, i gabinetti di lettura di una volta, o le case da gioco squallide. Le ragazze, sparpagliate per quelle vaste gallerie, chiacchierano con uomini vari, fra i quali vedo alcuni collegiali. – Mi sento molto triste e molto intimidito; ho paura che mi vedano i piedi. Li guardo, mi accorgo che uno porta una scarpa. – Dopo un po’, mi accorgo che sono calzati entrambi.
Ciò che mi colpisce è che le pareti di queste vaste gallerie sono ornate con disegni di ogni specie, – incorniciati. – Non tutti sono osceni. – Ci sono anche disegni di architettura e figure egizie. Siccome mi sento sempre più intimidito e non oso abbordare una ragazza, mi diverto a esaminare minuziosamente tutti i disegni.
In una parte remota di una di queste gallerie trovo una serie molto singolare. In una quantità di piccole cornici vedo disegni, miniature, prove fotografiche. Rappresentano uccelli colorati con piumaggi molto brillanti, che hanno l’occhio vivo. A volte, ci sono soltanto delle metà di uccelli. – Rappresentano talvolta immagini di essere bizzarri, mostruosi, quasi amorfi, come altrettanti aeroliti. Nell’angolo di ciascun disegno c’è un’annotazione. – La ragazza tale, di anni…, ha dato alla luce questo feto nel tale anno; – e altre annotazioni di questo genere.
Mi viene da riflettere che quel genere di disegni non è certo fatto per ispirare idee di amore.
Un’altra riflessione è questa: Esiste davvero un solo giornale al mondo, ed è Le Siècle, che possa essere talmente stupido da aprire una casa di prostituzione mettendovi al tempo stesso una specie di museo di medicina. – In effetti, mi dico a un tratto, è stato Le Siècle a finanziare la speculazione di questo bordello, e il museo di medicina si spiega con la sua mania del progresso, della scienza, della diffusione dei lumi. Allora rifletto che la stupidità e l’insipienza moderne hanno una loro utilità misteriosa, e che spesso, per opera di una meccanica spirituale, ciò che è stato fatto per il male si volge in bene.
Ammiro in me stesso la giustezza del mio spirito filosofico.
Ma fra tutti quegli esseri ce n’è uno che ha vissuto. È un mostro nato nella casa, e che sta perpetuamente su un piedistallo. Sebbene sia vivo, fa dunque parte del museo. Non è brutto. Il suo volto è persino grazioso, molto brunito, di un colore orientale. In lui c’è molto rosa e verde. Sta accucciato, ma in una posizione bizzarra e contorta. Inoltre c’è qualcosa di nerastro che gira più volte attorno a lui e alle sue membra, come un grosso serpente. Gli chiedo che cos’è, mi risponde che è un’appendice mostruosa che gli parte dalla testa, qualcosa di elastico come il caucciù, e così lungo, così lungo che se lo arrotolasse attorno alla testa come una coda di cavallo sarebbe troppo pesante e assolutamente impossibile da portare, – e perciò è costretto ad arrotolarselo attorno alle membra, il che d’altronde fa un effetto migliore. Chiacchiero a lungo con il mostro. Lui mi mette a parte delle sue noie e dei suoi dolori. Sono anni ormai che è costretto a rimanere in quella sala, su quel piedistallo, per la curiosità del pubblico. Ma la noia principale, per lui, è all’ora di cena. In quanto essere vivente, è tenuto a cenare con le ragazze della casa, – a camminare barcollando con la sua appendice di caucciù fino alla sala della cena, – e lì deve tenerla arrotolata attorno a sé o sistemarla su una sedia come un pacchetto di corde, perché se la lasciasse strascicare per terra, questo gli rovescerebbe la testa all’indietro. Inoltre è costretto, lui che è piccolo e tozzo, a mangiare accanto a una ragazza alta e ben fatta. – Peraltro mi dà tutte queste spiegazioni senza amarezza. – Non oso toccarlo, – ma mi interesso a lui.
In quel momento, – (questo non è più un sogno) mia moglie fa rumore con un mobile in camera sua e questo mi sveglia. Mi sveglio stanco, fiaccato, con le ossa rotte, la schiena, le gambe e i fianchi indolenziti. – Presumo che stessi dormendo nella posizione contorta del mostro.”
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Articolo a cura di Marco Zindato.
Fonte: Roberto Calasso, “La Folie Baudelaire”, Adelphi Edizioni, Milano, 2010.